Tu, che ci sei, non essendoci.

Il nostro non fu un vero incontro o meglio, sono io che ti incontrai. Ciò che vedevo di te era poco, o quasi niente, una piccola ombra proiettata sul pavimento del negozio. Io aspettavo che la mia amica mi chiamasse per chiedermi quale fosse migliore tra una maglietta viola scolorita e un giacchettino a jeans borchiato, e tu invece eri da sola che, dall’altra parte della fessura, ti cambiavi continuamente. Erano le tue caviglie, quelle che vedevo sul pavimento, un cerchietto, che sembrava fosse d’argento, toccava la tua caviglia provocando un docile suono. Ti alzavi sulle punte per provarti il pantaloncino e poi aspettavi inerme qualche minuto, per decidere se ti stesse bene o meno. La mia amica, di nome Carla, mi chiamò, e mi riportò subito sulla terra ferma. Mi chiese che stessi facendo e io risposi con qualche monosillabo sottovoce. Commentai, e chiusi la porta, ma quando mi diressi dall’altra parte per continuare a sognare, e attendere la tua uscita da quel camerino, tu non c’eri più. Al tuo posto, fissa sul pavimento, c’era una piccola sedia con qualche vestitino sopra. Vidi un camicetta di pizzo bianco, forse troppo grande per il tuo docile corpo che immaginavo nella mia mente.
Ciò che vidi di te, furono solo le caviglie, con dei lineamenti così precisi e morbidi, che leggiadri si muovevano sul pavimento. E poi il nulla, andai via, e pensai tutta la sera a quanto sarebbe stato bello incontrarti, al nostro primo appuntamento mancato, ai nostri viaggi persi nei sogni, e a te, che di te, non sapevo nulla.