Ultimo
“Nell'acqua il detersivo sommerge il petrolio
Tutto sussulta nella scia
Della grande nave del progresso
L'equipaggio non riesce a trovare il freno
I clacson strombazzano
L'ammiraglio grugnisce ordini
I sottomarini bollono negli oceani
Mentre gli eserciti combattono con gli astri.”
Joe Strummer – Ghetto defendant.
Lunedì.
Erano già le nove e un quarto. Saltai fuori dal letto imprecando contro me stesso. Diedi un’occhiataccia alla radiosveglia sul comodino. Non aveva suonato. Sta stronza. Lampeggiava segnando “0:00”, ricontrollai il mio orologio da polso, le nove e un quarto. ‐ Il temporale. Sussurrai mentre accendevo il cellulare. Composi il numero dell’ufficio per avvisare Cristina del mio ritardo, mi misi davanti alla finestra della camera da letto e guardai fuori. Era una bella giornata di Ottobre, il cielo era limpido e nel giardino di casa i passeri cinguettavano felici. Il cellulare non riusciva a chiamare. Non c’era campo.
‐ Ma se hai sempre preso qui in camera, razza di uno stronzetto cinese! Gridai guardando il mio telefonino ultima generazione.
Scesi le scale che portavano al soggiorno, mi sedetti su divano per chiamare l’ufficio dal telefono di casa. Squillava a vuoto, Cristina non rispose. Provai altre due volte. Niente. Cercai di nuovo di chiamarla, stavolta sul suo cellulare, ma niente, quel dannato telefonino non prendeva. Cercai di capire come mai i ragazzi non erano già in ufficio, mi precipitai verso il televisore cercando un notiziario.
‐ Ma cosa cazzo succede? Dissi ad alta voce guardando lo schermo nero del mio tv al plasma. In tele non c’era niente. Girai tutti i canali. Il nulla. Sulla Rai c’era una pubblicità di un detersivo per lavatrici che si ripeteva all’infinito. Provai a malmenare il televisore, ma non ci fu nessun cambiamento, anzi, l’immagine della donna che strappava una camicia si oscurò improvvisamente, come era successo con tutti gli altri canali. Mi grattai la testa in preda allo sconforto, poi mi diressi verso il PC portatile nuovo di zecca poggiato sul tavolo in cucina. La luce del sole entrava prepotente in casa mia facendo risplendere il piano di granito rosa della mia cucina. Accesi il PC. Connessione fallita. Riprovai. Connessione al computer remoto fallita. Gettai il computer a terra imbestialito. Si ruppe in due. Mi sedetti in poltrona guardando fuori, confuso. Riprovai a chiamare in ufficio. Ma nessuno rispose. Mi alzai e tornai in camera da letto. Misi la tuta della Nike che mi regalò Katia al mio compleanno, indossai le scarpe da footing e scesi di nuovo. Uscii fuori di casa guardandomi intorno, alla ricerca di un vicino o la signora Cadetti, la classica vicina che non si fa mai i cazzi suoi, ma non vidi nessuno. Mi incamminai lungo il viottolo tra i cespugli potati a forma di coniglietti e le edere rampicanti. Arrivai di fronte a casa di Michela. La mia bella vicina di casa, capelli rossi e occhi verdi, una bomba sexy. Si era appena trasferita da Milano, ma avevamo già avuto modo di conoscerci molto intimamente. Una sera andai da lei perché avevo finito il sale, ma quello che ricevetti fu molto di più. Mi aprì la porta in accappatoio, aveva appena finito di farsi la doccia. Neanche il tempo di presentarmi che ero già sdraiato sul divano con lei seduta sulla mia faccia. Quella era il tipo di donna che faceva per me.
Suonai il campanello per un minuto. Ma non venne nessuno ad aprirmi. Feci lo stesso con il campanello dei Moetti, dei Giannini e dei Calendri. Nessuno di loro era in casa. Tornai indietro e uscii dal cancello che delimitava il residence. La strada, solitamente trafficata specialmente alle dieci di lunedì mattina, era deserta. I negozi dall’altra parte della strada erano tutti chiusi. Mi misi al centro della strada e guardai in giro.
‐ C’è qualcuno? Gridai. Gridai. E ancora gridai.
Nessuno. Ero solo. Solo nel mio quartiere, ma avevo l’impressione di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato. Un pesce fuor d’acqua. Attraversai la strada e mi diressi verso il bar dove facevo colazione. La porta era aperta, da dentro proveniva il ronzio di una radio priva di segnale. Chiamai il proprietario del locale.
‐ Luciano. Chiamai.
Il bar era deserto. Le luci accese, la macchina del caffè era calda.
Ci fu una scossa di terremoto, alcune tazzine caddero a terra e la luce andò via per una frazione di secondo.
Bestemmiai.
Mi diressi verso il bagno del locale, non vi era nessuno, poi mi voltai verso la porta che portava alla cantina, sentii un rumore soffocato, quasi un rantolo, decisi di andare a vedere. Accesi la luce, ma le scale che portavano nello scantinato erano comunque poco illuminate, più scendevo e più il rumore si faceva nitido. Era un rantolo. Cercai di guardare tra gli scatoloni, tutto era in disordine, alcuni sacchi di caffè erano a terra rotti, sembrava che qualcuno avesse lottato. Spostai alcune scatole per passare e appena lo feci vidi Luciano con la faccia a terra, in una pozza di sangue. Era lui che rantolava agonizzante. Mi chinai su di lui. ‐ Luciano, sono Sergio. Cosa è successo? Gli chiesi cercando di rigirarlo verso di me. Lui sbiascicò qualcosa di incomprensibile.
‐ A…n…i..e..ni… Sussurrò. Io gli girai il viso verso di me per capire cosa stesse dicendo, ma vomitai appena vidi che l’altra metà del suo volto gli era stata strappata, riuscivo a vedere il suo teschio nitidamente. Era solo leggermente sporco di sangue ma era una scena da film del terrore. Non capivo come qualcuno avesse potuto recidere così nettamente la sua carne per poi asportarla con tale precisione. Vomitai di nuovo.
‐Vado a cercare aiuto. Dissi asciugandomi la bocca con la manica della tuta. Lui rantolò di tutta risposta. Mi girai verso le scale e fu allora che capii.
Rimasi paralizzato dalla paura, dallo stupore. Erano alti due metri. La pelle verdastra, la testa ovale, come quelle degli alieni di Roswell. Solo più lunghe e acuminate. Erano alieni. Cazzo.
‐ Stai fermo. Mi disse, ma la sua voce non uscì dalla bocca. Uscì direttamente dal suo cervello per entrare nel mio. Poi si girò verso il suo simile e gli fece un cenno. Poi si rivolse di nuovo a me. ‐ Questo pianeta è nostro‐ Mi comunicò‐ e tu se l’ultimo rimasto. Disse.
Si stava avvicinando. Non camminava, fluttuava a dieci centimetri da terra. Il suo odore era acre e forte. Si fermò davanti a me.
‐ Voi non avete cura di questo paradiso. Disse aprendo il palmo della grossa mano verdastra. Notai un piccolo foro proprio al centro, pulsava. Io mi inginocchiai, piangendo, ma l’unica cosa che riuscii a dire fu: ‐ Scusateci.
Dal palmo uscì un piccolo fascio di luce che mi colpì dritto al petto, sentii la mia carne bruciare e poi il mio cuore smise di battere. Con me si estinse la razza umana.
Senza troppo rancore.
Senza ipocrisia.
Senza gloria. Io non li biasimo.