Ultimo Giocattolo
Fu una Ferrari rossa il primo regalo importante che ricevetti. Avevo sei anni ed il mio mondo era confinato nel pertugio della mia camera ricca di futili gioie da bambino. Quella macchina ai miei occhi acerbi appariva il miglior dono che un fanciullo potesse ricevere, e nessun difetto evidente sminuiva la bellezza incontrastata che rivestiva la sua carrozzeria. Sterile e priva di evidenti tecnologie sbalorditive assumeva perfezione fra le miei mani minute. Passavo ore inseguendola per le strade che magicamente percorreva, vincendo gare contraffatte dalla corruzione generata dalla mia fantasia, amavo quel dono tanto quanto amavo chi per me aveva avuto un così bel pensiero. Mia madre. Non potevo chiedere altro dalla vita, nulla che un’altra famiglia potesse darmi, nulla che un bambino di sei anni potesse avere, mi bastava lei. La mia macchina.
Il ricordo di quel giorno è ancora vivo in me, vive con me, cresce con me e con me morirà.
Una mattina come le altre, una mattina d’estate, ove il sole alto nel cielo celeste tempestava di insofferenza le strade e minacciava gli anziani costringendoli a rimanere chiusi nelle loro abitazioni. Un giorno stampato con il divieto d’accesso. Non potevo rimanere chiuso, non potevo impedire alla mia macchina di volare tra le vie, di trionfare sotto il sole e di essere bagnata dallo spumante dei vincitori. Uscii. Quando nessuno poteva, quando i bambini dovevano dormire, quando mia madre era incatenata alla sedia del suo ufficio e non poteva impedire le mie marachelle. Uscii. Balzai fuori dalla porta di casa, tra le mani la mia amica a quattro ruote e nel cuore l’eccitazione di chi sa che sta violando una regola. La follia infantile mi spinse violentemente tra le strade consumate del mio paese, gaio di poter tramutare le abitazioni, i tombini, i marciapiedi e tutto ciò che spiccava, in un parco giochi personale. Paffuto nelle forme e distratto nei vestiti, corsi lontano dagli occhi indiscreti dei miei vicini, temendo una loro soffiata. Diedi la massima forza alle mie gambe minuscole e chiesi un impegno notevole ai miei piedi nudi e per niente intimoriti dall’arsura dell’asfalto che calpestavo. Faticai parecchio ad allontanarmi dalla zona controllata dai miei nemici, quanta gioia mi causò quella corsa, quante immagini passarono nella mia testa e tante furono le parole scimmiottate da film polizieschi famosi durante il tragitto. Poi finalmente la pace. Sostai alla prima fontana, nota nel mio paese poiché meta di chi l’acqua non può permettersi di acquistarla. Verde e metallica, grave nelle forme e difficile da aprire per un bambino dalla forza limitata. La sete era troppa e la mia maglietta bagnata dal sudore eccessivo mi fece impegnare a tal punto da riuscire a far sgorgare l’acqua tanto desiderata. Ero felice, lo ricordo come se fosse ieri. Stetti dieci minuti seduto sul bordo della fontana, immobile, calcificato dalla stanchezza, pugnalato dalla calura. Aspettai nuova linfa per il mio corpicino e poi finalmente la tanto attesa gara.
Una piccola discesa fu il mio obiettivo, la corretta pendenza per dar vita alla feroce corsa della Ferrari. Dopo essermi rimboccato le maniche mi diressi con passo svelto verso la partenza designata. Pochi passi mi separarono. Giunsi in fretta e carico come una molla. La discesa era coperta d’ombra da un palazzo che come una madre proteggeva quella lingua d’asfalto dalla crudeltà del sole. Preparai con meticolosa precisione la macchina, pulendo prima le gomme, poi i paraurti ed infine anche i vetri temendo che il pilota all’interno non potesse vedere bene il tragitto. La poggiai al suolo e la caricai con parole di incoraggiamento degne del miglior coatch. Uno starnuto, un’aggiustata ai pantaloni calanti, una grattata alla testa e via. Iniziò la gara. Con una grossa spinta lanciai la macchina verso il suo gran premio. Veloce si gettò sulla discesa facendo ingrossare di euforia i miei occhi. Urlai a squarciagola la grandezza di quella corsa, gridai nell’aria tutta la mia veemenza da infante, prima di vederla scomparire ingoiata da una strana oscurità che celò la fine della galoppata. Impossibile è descrivere cosa un bambino può provare in certi istanti, in quei frammenti di vita che ti fanno sentire re, imperatore di un regno così fragile da poter cadere in qualsiasi istante.
Non dimenticherò mai il volto di quell’uomo. La sua bruttezza, la sua pancia grossa, i peli sul viso ed il sudore che flagellava la sua fronte. Non dimenticherò mai come mi guardava, con quegli occhi demoniaci, da perverso, da diavolo. Stringeva in mano la mia Ferrari con fermezza e l’osservava con soddisfazione, furbo e scaltro nell’aver capito che un bambino è indifeso, geniale nell’aver compreso che la sua forza fisica era superiore alla mia. Mi pietrificò. Ghiacciò il fuoco della mia gioventù, lasciandomi basito dinanzi alla crudeltà del genere umano. Si avvicinò con fare amichevole, avvolto in una maglietta che faticava a racchiudere il suo lardo, accarezzandomi dapprima il viso per poi passare ai capelli bagnati dal terrore di essermi perso. Grondavo disperazione. Capii subito che in quella persona albergava il male, quello puro, quello vero, quello che Dio condanna, quello che tutti dovremmo condannare.
Mai la mia mente potrà cancellare la felicità di aver ricevuto quella Ferrari, ma sono cresciuto con la morte come compagna, con il desiderio di accoglierla per dimenticare quegli istanti, quei momenti dove un bambino viene derubato e schiavizzato e la sua crescita naturale viene interrotta da una persona incapace di stare al mondo, indegna di condividere ciò che gli uomini hanno creato. Mi violentò senza pudore, lasciandomi poi sanguinante al suolo. Sono cresciuto nelle lacrime di mia madre, osservandola piangere ogni ora della sua vita ripensando a quel che era accaduto. Tanti sono stati gli psicologi che mi hanno accolto in cura da loro. Non vi è stato giorno che non abbia riudito i gemiti di piacere di quell’uomo. Non un solo minuto è passato libero dalle catene di quelle scene di rabbia e vigliaccheria. Sono malato ora. Non ho moglie, perché tutte le donne che ho avvicinato sono fuggite dalla mia rabbia repressa che mi ha sempre spinto ad una violenza incontrollata. Sono solo. Vent’anni sono passati dall’abuso ed ancora lacrimo sangue, vomito tutte le notti e cerco il suicidio tutti i mesi. Ma lui dov’è ? Lui che con la sua virilità mi ha rubato l’esistenza. Ha scontato la sua pena. Quindici anni di carcere, dodici con la condizionale. E’ libero. Libero di fare ancora male, libero di essere un perverso, libero di farsi soggiogare ancora dall’inferno che alberga in lui. Non ho mai chiesto molto alla vita, non sono mai stato viziato né sono nato con particolari virtù…
… Volevo solo essere un bambino.