Un'estate da ricordare (i "quattro moschettieri" di Villalunga)
Castellarano è un piccolo centro di appena cinquemila anime, in gran parte artigiani (falegnami) e contadini. Si trova a quasi trenta chilometri dal capoluogo, Reggio nell'Emilia, nella valle del fiume Secchia, non molto distante dal confine con la provincia di Modena. Era l'estate del 1944, la scuola oramai un lontano ricordo: nonostante fossimo in guerra da diverse stagioni e nonostante all'ordine del giorno, in diverse zone della bassa emiliana, fossero i rastrellamenti, ci aspettava (secondo le nostre ingenue intenzioni e le nostre ancor più ingenue e vane attese) un periodo di sospirate vacanze, e di altrettanta sospirata spensieratezza, più o meno duraturo. Io e i miei compagni, Aldo Balugani e Giovanni Piacentini, i quali mi chiamavano "il turacciolo" per via della mia statura ridotta oppure "il segaiolo" per ovvi motivi, e sono, a loro volta, più grandi di me di un anno soltanto (avevano appena frequentato la prima avviamento ‐ mentre io ero ancora alle elementari ‐ alle scuole Virgilio di Scandiano, comune che sorge quindici chilometri più a nord rispetto al nostro, sulla destra del torrente Tresinaro: da sempre una acerrima ma sana rivalità ci legava agli "scandianesi" i quali, per chi non lo sapesse, sono, purtroppo ‐ per loro colpa, non certo a causa nostra ‐ concittadini dell'illuster poeta Matteo Maria Boiardo e dell'altrettanto lustrissimo naturalista Lazzaro Spallanzani) eravamo nel parco a giuocare, insieme ad altri dieci o dodici putei reduci tutti dalle fatiche didattiche dell'anno scolastico appena scorso, in gran parte all'insaputa dei nostri genitori e dopo aver sterminato, col famoso ed infallibile metodo del "cappio sempre pronto", ranocchie e lucertole del circondario: con un pallone di pezze e stracci rammendato dalla nonna materna di Aldo, la Caterina Zampieri, di certo la più abile sarta e cuoca del paese (prepara, bontà sua, tortellini di zucca al bacio, inoltre le più buone tigelle e crescentine col pesce fritto nella zona) alla bella e meglio (o "alla carlona", come era solito dire mio nonno paterno Casimiro, ultra ottuagenario ancora arzillo e pimpante, col radar "avvistafemmine" sempre all'erta e grande fumatore di toscani nonché bravissimo, sino a qualche anno prima, a suonare l'ocarina ai Festival del Popolo, alla "sagra del vino" di Castellarano e Roteglia in settembre o nelle balere della bassa reggiano‐modenese, site a nord ed a sud del Secchia, finanche nella valle dell'Enza). Quella mattina era serena e tersa, la prima della stagione, in verità, di tempo bello; la notte precedente, invece, un temporale aveva squarciato il cielo per diverse ore ed allagato la campagna in alcune zone vicine. Correvano le nove e quaranta quando, ad un tratto, mentre io e Giovanni discutevamo su un tiro alla palla venuto male, l'Aldo fischiò forte e gridò poi a squarciagola (sembrava peggio del Ligabue di Gualtieri quando è fuori di testa!): ‐ Ragazzi, presto, guardate là, dietro di voi.
Al che, io e Giovanni ci girammo (così pure fecero gli altri) e...per poco non ci venne un colpo, a noi ed a tutta la sgangherata combriccola. Aveva proprio ragione, cazzo, quel malandrino del nostro compagno: quattordici aerei a due code, i famigerati "stuka" tedeschi della Luftwaffe avanzavano, infatti, a tutto spiano e dritti dritti verso di noi.
La sigla stuka (dalla parola composta e quasi impossibile da leggere, Sturzkampfflugzeug) indicava il famoso aeroplano da bombardamento in picchiata, di cui fecero largo impiego i tedeschi nella seconda guerra mondiale. Questo aereo, noto anche con la sigla di Ju 87 (dalle iniziali dell'ingegnere Hugo Junkers, appunto, che cominciò a costruirli nella sua fabbrica sin dai primi anni del Novecento), ebbe come caratteristiche medie: lunghezza m. 11,6; apertura alare m. 13,8; un motore di 1400 HP; due uomini di equipaggio; due mitragliatrici calibro 7,9 come armamento e la possibilità di trasportare una o più bombe sino ad un massimo di 2000 kg. di peso complessivo.
Facemmo in tempo a nasconderci dietro alcune grosse balle di fieno arrotolate nel campo e loro [gli stuka maledetti, s'intende], dopo aver sorvolato rapidamente il castello, cominciarono a sganciare bombe per abbattere il ponte alla periferia del paese, quello che tutti dalle nostre parti eran soliti nominare "il ponticello", ed il quale collega Castellarano alla frazione di San Michele dé Mucchietti, sul versante modenese del Secchia (ovvero, uno dei molteplici affluenti destrorsi del Po). A dire il vero, quella mattina molti di noi (anzi, direi proprio tutti!) non capirono affatto il perché ai crucchi fosse balenata l'idea malsana di bombardare quell'insignificante ponte: alcuni, però, lo capirono in seguito alle spiegazioni dei genitori oppure diversi anni dopo a guerra finita, in età adulta. Quel ponte, infatti, proprio quel precipuo ponte aveva una importanza strategica notevole ed ai tedeschi, si sa, quelle cose, ossia i particolari irrilevanti ai più, non sono mai sfuggite nel corso della storia: esso, infatti, immette il traffico pesante, militare o meno, a nord‐est, sulla statale 486 delle Radici che porta a Sassuolo, a Rubiera, infine a Campogalliano, importantissimo snodo viario e doganale alle porte di Modena; mentre, in direzione opposta conduce, lungo la statale 467, a Reggio Emilia...Ecco chiarito, dunque, l'arcano!
‐ Copritevi le orecchie con le mani, ‐ esclamò Aldo a noi tutti, agitatissimo. ‐ Altrimenti rischiate di diventar sordi! (Per me, quello, sarebbe stato un inconveniente mica da poco, visto che già rischiavo di diventare orbo: a furia di troppo segarmi, infatti, i più grandi, compreso mio padre Augusto e mio nonno, dicevano che avrei perduto l'uso della vista da entrambi gli occhi!). Aveva ragione, diamine, quel testa matta di Aldo, ancora una volta: le bombe cadute facevano proprio un bel baccano d'inferno. Tutti ci coprimmo le orecchie con entrambe le mani: nel caso opposto, sicuramente i timpani sarebbero saltati ad ognuno di noi. A un certo punto del ballo in maschera...pardon, del balletto, uno di noi (era Saverio, il più matto di tutti), rischiando letteralmente le palle e la pelle, salì sulla balla più alta ed alzandosi in piedi esclamò:
‐ Se avessi una pistola ve la farei vedere io, maledetti! (come se una pistola avrebbe potuto scalfire mostri volanti di siffatta forza e dimensione!). A quel punto gridammo in coro:
‐ Ehi, testa d'un asin, scendi giù di lì se ci tieni alla tua testaccia vuota! ‐ Saverio, così, a quelle parole, forse rinsavito all'improvviso o colto, chissà, da un momentaneo lampo di ragione, ci ascoltò e si nascose insieme a noi.
Venti minuti, forse mezz'ora dopo, chissà, (nessuno di noi aveva la benchè minima percezione del trascorrere del tempo dato che, tra l'altro, un orologio non sapevamo neanche di che forma fosse fatto!), tutto l'ambaradan era bello e finito. I danni, purtroppo, e le vittime, furono tanti: si contarono ben trentadue morti e centoventi feriti tra i civili, nel circondario. La casa di ognuno di noi subì danni rilevanti: quella di Saverio fu del tutto distrutta e lui, insieme alla sua famiglia, andò via da Castellarano. Qualche mese dopo sapemmo che erano espatriati in Francia, nella zona di Mentone, regione della Provenza (quella famosa per il profumo ricavato dalla lavanda), dove abitava una sorella della madre. Anche il campanile della chiesa madre del paese subì danni rilevanti: don Matteo Salvini, il parroco, originario di Cerreto dell'Alpi, paese a novecentoquindici metri sul livello del mare (tutti lo chiamavano in paese "il montanaro" o "prete della montagna"), nell'alta valle della Secchia, di fianco all'Alpe di Succiso e ai magnifici laghi Cerretani, da mane a sera bofonchiava e sbuffava come una vecchia locomotiva. Due giorni dopo, lo stesso Giovanni lo sentì, nascosto che era dietro un'aiuola nelle vicinanze della chiesa, proferire queste peccaminose parole:
‐ Maiale cristo, che muoiano secchi tutti i tedeschi ed i loro figli!
Evidentemente tutti siamo esseri umani, e siamo, chi più chi meno, imperfetti a questo mondo: altrettanto evidente è il fatto che "l'abito, quasi mai faccia il monaco" (o, in questo caso, il prete). Per la cronaca, però, è da dire, solennemente, che noi tutti (il gruppo di quei discolacci) finimmo la partitella, dopo il bombardamento (è proprio il caso di dire: "incoscienza dell'adolescenza!"), quella mattina: la maggior parte di noi, al ritorno dalle famiglie a casa, subì rimbrotti e randellate col manico di scopa (con pieno merito visto che avevamo rischiato la nostra vita e messo a repentaglio, seriamente, quella dei nostri genitori a causa di un coccolone che li avrebbe potuti cogliere per lo spavento di saperci in pericolo). La mamma di Giovanni rischiò addirittura la galera a vita, mentre lui, invece rischiò letteralmente di essere decapitato: colei, infatti, li lanciò contro, quando rientrò a casa, il ferro da stiro in lega di ghisa e ferro senza far centro...la testa fu salva, ovviamente!
Quella, purtroppo, non sarebbe stata la sola disavventura a capitarci durante quella fatidica estate: che noi tutti, invece, credevamo (immaginavamo, speravamo) sarebbe trascorsa abbastanza tranquilla. La terra, nella valle del Secchia come lungo tutto il confine reggiano‐modenese, nonché in gran parte dell'Emilia‐Romagna e della bassa, continuò a tremare (non certo a causa di movimenti tellurici!): da noi, in paese, il rione Brisighella, vicino alla stazione ferroviaria, andò completamente distrutto, così come il bar Trinchetto (quello tra i due esistenti a Castellarano, più frequentato), in via Salvarola, e la pensione Palladini, in piazza Garibaldi. I bombardamenti portavano, ogni volta, urla, pianti e poi silenzi: sempre in questa assurda seppure logica successione, come nel copione di un film già scritto. Mio padre faceva il mezzadro sotto i Gazotti, la famiglia del padrone: erano proprietari di terre e bestiame in tutto il castellaranese, ma anche nei comuni limitrofi di Salvaterra, Casalgrande ed Arceto. Il figlio più grande di quelli, poi, Dante, (in tutto erano quattro: due maschi e due femmine), aveva comprato una azienda di mobili in quel di Formigine, nel modenese. A seguito degli eventi di quell'inizio estate, mio padre decise di mandare noi tre fratelli più piccoli (io, Andrea, quello di mezzo, e Luigi, il più piccolo) e la mamma Eleonora nel capoluogo come sfollati, a casa della zia paterna Adelina. Mio fratello più grande Sandro, invece, rimase con mio padre, insieme col nonno Casimiro, ad aiutarlo in campagna. Le cose, però, non andarono come previsto; anzi: passammo dalla padella alla brace! In agosto, infatti, cominciarono i rastrellamenti dei fascisti e dei tedeschi: un giorno, era di giovedì, quello antecedente il ferragosto, verso la "mezza" una camionetta si fermò proprio davanti a casa della zia (che si trova in via Emilia), sulla piazza Prampolini, dove sorge il Palazzo Vescovile. Un capitano delle SS scese insieme a due soldati e cominciò a gridare a tutto spiano, impugnando una Luger parabellum 9 mm.: ‐ Schnell, schnell, cameraden! Cominciamo da lì!
Mia zia, nel balcone di casa, disse a me e ai miei fratelli:
‐ Entrate in casa, ragazzi. ‐ I miei due fratelli si nascosero sotto il letto ma io rimasi dietro i vetri a guardare. I tre tedeschi, allora, entrarono nell'albergo Posta, in piazza Cesare Battisti: venti persone, tra cui due bambini, furono caricati sulla camionetta, nessuno li rivide più. Alcune persone cercarono di scappare: furono falciate all'istante da una sventagliata di mitra. Io, che ero uscito di nuovo in balcone, insieme a mia zia ed a mia madre assistetti alla scena. Mia madre, così, a bella prima mi mollò un ceffone e disse:
‐ Sei voluto restare, allora ricorda per filo e per segno ciò che hai visto oggi.
A quel punto, visto che non avevo capito il senso di quelle parole, chiesi:
‐ Perché mamma?
‐ Perché ciò che hai visto oggi, ‐ rispose lei, senza esitazione e con voce alta ‐ devi augurarti che non accada mai più! Dopo di che rientrammo in casa, tutti e tre. I miei fratelli, intanto, erano riemersi dal nascondiglio sott'acqua (cioè, da sotto il letto). Nei giorni e nelle settimane successive i rastrellamenti si succedettero con frequenza sempre maggiore e con precisione quasi chirurgica, invece, le camionette dei nazifascisti erano riempite di uomini, donne e bambini, i quali venivano poi portati via per destinazioni sconosciute: senza distinzione alcuna!
A fine agosto, in corso Garibaldi, di fronte alla Madonna della Ghiara, l'imponente e massiccia basilica eretta tra la fine del XVI° e la prima metà del XVII° secolo, avvenne un drammatico scontro a fuoco tra tedeschi e partigiani: due soldati furono uccisi, gli altri riuscirono a dileguarsi. Nei giorni seguenti i tedeschi trafugarono dalla basilica alcuni preziosi dipinti del Carracci e del Guercino. A fine guerra, per fortuna, quelli tornarono in Italia. Per rappresaglia ci furono altri rastrellamenti: uno di questi avvenne al ristorante Italo, noto ritrovo di antifascisti e sovversivi socialisti ed anarchici. La prima settimana di settembre si svolse regolarmente la sagra della Madonna della Ghiara, in centro: io e mia madre comperammo alcuni libri di poesie, tra cui una edizione rara dei Canti di Castelvecchio di Giovanni Pascoli (la seconda pagina di copertina, quella che di solito fa da ouverture alla prefazione o alle note prima dell'inizio vero e proprio di un libro ed è sempre bianca, recava una scritta, a lapis, anonima: "Italiani coglioni: Pascoli era anarchico!"), e alcuni fumetti di Cino&Franco e del Signor Bonaventura (gli avrei letti con voracità al rientro a casa dalla zia, insieme ai miei fratelli). Due sere più tardi, dopo cena, mia madre ci lesse, a noi tre fratelli e a mia zia, una poesia (si intitolava "Inno alla gioventù condannata a morire") di Wilfred Owen, ufficiale dell'esercito e poeta gallese che morì nella Grande guerra a vent'anni, una settimana prima dell'armistizio (lei, nonostante fosse figlia di contadini analfabeti, aveva studiato al Collegio di San Carlo, a Modena, dove riuscì a prendere la licenza liceale, ed era appassionatissima di lettere e arte):
Quali campane a morto per coloro che muoiono come bestiame?
Soltanto la mostruosa rabbia delle armi.
Soltanto il rapido crepitio delle carabine balbuzienti
Può recitare le loro frettolose preghiere.
Non ci sono prese in giro per loro, tanto meno predicatori o campane,
Neanche una voce di dolore salverà i cori,
Gli striduli, demenziali cori delle granate che gemono,
E le fanfare che chiamiamo per loro dalle natie contee.
Quali candele possono essere accese per dire addio a tutti loro?
Nessuna nelle mani dei ragazzi, ma nei loro occhi
Brilleranno barlumi di arrivederci.
Il pallore sulle fronti delle ragazze sarà il loro lenzuolo funebre;
I loro fiori la tenerezza di silenziose menti;
Ed ogni lenta oscurità un chiudersi di persiane.
Dopo l'ascolto, nella sala da pranzo cadde un silenzio tombale, fino a quando...una luce illuminò il cielo (era soltanto una stella cadente: la notte di San Lorenzo, in fin dei conti, non era trascorsa da tanto). Nostra zia esclamò:
‐ Per fortuna, ragazzi: credevo proprio fosse...‐ Non a torto aveva immaginato qualcos'altro (di più brutto, purtroppo!): i bombardamenti erano ormai all'ordine del giorno, un po' dappertutto. Le notizie di Radio Londra, che anche zia ascoltava, di nascosto da tutti, in soffitta (tutti noi, però, sapevamo lo facesse!) non erano affatto rassicuranti.
‐ Andiamo, su, ragazzuoli, ‐ fece la mamma. ‐ E' ora di andare a letto!
L'indomani mattina, però, una notizia bruttissima turbò ancor di più il nostro train train reggiano; infatti, una lettera, recapitata alla zia dal portiere Gino ed indirizzata alla mamma, recava scritte le seguenti lapidarie parole (ce la lesse, ad alta voce, la zia stessa): "Vostro marito e vostro figlio, insieme al nonno, sono stati rastrellati. Li hanno portati a piedi a Nonantola, vicino Modena, alle Caserme rosse". Firmato "il Tanin".
Quello [il tanin], era un taglialegna, amico (fidato) di mio padre: anarchico sino al midollo, nel 1939, a Villalunga, frazione di Casalgrande, aveva sparato in pieno volto ad un fascista che era andato, con suoi camerati, a prenderlo a casa. Poi si era dato alla macchia: da allora non l'avevano più preso; viveva in casali abbandonati lungo l'argine del Secchia: alcuni anziani, a Castellarano, dissero, una volta, che dormisse nei cimiteri, ovvero: nelle tombe sfitte all'interno di essi per essere al sicuro (voci di popolo, quelle, che giravano nel circondario: a nessuno mai, infatti, fu data occasione di constatare il fatto de visu vista la malsanità...i luoghi poco ameni frequentati probabilmente dall'uomo). Mia madre, così, parlò con mia zia e nel pomeriggio ci disse (a me e ai due fratelli):
‐ Ragazzi, vostro padre ed il nonno, insieme a Sandro, sono stati presi, li hanno portati vicino Modena: dobbiamo andar via da Reggio!
‐ Dove? ‐ feci io. ‐ Proprio adesso che si stava meglio!
‐ Non discutere! ‐ replicò lei. Si tornò, così, tutti indietro. In viale Trento e Trieste, nelle vicinanze della stazione, prendemmo una corriera per Nonantola: in paese arrivammo verso le tredici, il silenzio ed il deserto assoluti regnavano, visto anche l'orario. Alcune donne anziane, nei pressi di un negozio di scarpe in via Veneto si avvicinarono a noi e chiesero: ‐ Cercate forse qualcuno?
‐ Sì, buone donne! ‐ rispose mia madre. ‐ Sapreste indicarci dove sono le Caserme rosse? Hanno portato lì mio marito, suo padre ed il figliuolo più grande.
‐ Certo, ‐ fece una di loro: quella più corpulenta ed anche la più simpatica; ‐ è poco fuori l'abitato, in località Rubbiara. A piedi sono dieci minuti di cammino. Auguri di cuore!
‐ Grazie a voi, donne! ‐ fece mia madre. Dopo di che ci avviammo. Giunti alla meta, mia madre domandò alla guardia nella garitta:
‐ Senta, vorrei avere notizia di mio marito e di mio figlio: so che li hanno portati quì, da Castellarano.
‐ Ma lei, scusi, non è mica la moglie di...‐
‐ Sì! Sì! Sono proprio io. ‐ Mia madre lo interruppe, intuendo che la guardia stesse parlando proprio di mio padre. ‐ Avete per caso notizie?
‐ Signora, ‐ fece, allora, quello, ‐ suo marito è fuggito ieri mentre suo figlio l'hanno portato via, i tedeschi: penso l'abbiano portato a Bologna. Anzi, è sicuro: lo hanno portato via ieri, a Bologna, in treno.
‐ Ma come a Bologna? ‐ ribattè mia madre. ‐ Ma di mio marito ha altre notizie?
‐ Mi scusi, ma io non sono autorizzato a dirle nient'altro ‐ fece quello. ‐ Eppoi, crede che un fuggitivo lasci il recapito quando scappa? ‐ Dopo queste parole la guardia salutò militarmente (stranamente non con il saluto romano). Mia madre prese per mano i miei fratelli e disse a me: ‐ Andiamo a Bologna!
Riuscimmo a trovare un passaggio di fortuna, su un biroccio trainato da due cavalli neri alsaziani. Alle diciassette e trenta, minuto più minuto meno, arrivammo alle porte della città felsinea e in poco più di un quarto d'ora eravamo nella zona della stazione centrale, in piazza Medaglie d'oro. Mia madre decise di portarci in pensione, l'indomani saremmo andati da una cugina di nostro padre, a chiedere notizie di lui, in via Zanolini, nei pressi della stazione San Vitale. Alloggiammo, così, alla pensione Roma, in via d'Azeglio, in pieno centro.
L'indomani mattina, però, un imprevisto accadde. Alle sette e trenta, quando mia madre era già bella e sveglia da un pezzo, ed io ero intento a far colazione, con gnocco fritto, polenta e latte di pecora (i miei fratelli, invece, dormivano ancora nella stanza della pensione come due ghiri imbaciucchiti), cominciarono i bombardamenti: cadeva il 12 di ottobre, ma quelli non eran dei tedeschi bensì degli anglo‐americani; la cosa andò avanti fino a sera. Le ricerche furono, perciò, rinviate. Il giorno dopo ci recammo dalla cugina di mio padre, la Giuliana e lì, graditissima fu la sorpresa, questa volta: vi trovammo proprio lui. Si era rifugiato da quella dopo essere scappato dalle Caserme rosse a Nonantola. Si abbracciò affettuosamente con la mamma (lei piangeva), per qualche istante, poi prese in braccio, uno dopo l'altro, ognuno di noi. Alla fine si sedette e prese a raccontare quanto li era accaduto.
‐ Son venuti di notte, in cascina (si riferiva ai tedeschi ed ai fascisti) e ci hanno portati via colle camionette. Hanno sparato, da noi ed in altri casolari, in campagna. Ci sono stati alcuni morti: il papà di Emilio e la mamma di Giovanni, credo!... ‐ A quel punto mio padre si interruppe, preso da un nodo alla gola; in cucina entrò Giuliana, portando un vassoio pieno di pane e salame. Cominciammo tutti a mangiare: il clima si rasserenò un pochino. Dentro di me, dopo aver ascoltato mio padre, ero arrabbiatissimo piuttosto che triste, pensai: ‐ E dire che questa sarebbe dovuta essere la nostra estate: invece...‐
Mio padre, dopo esserci rifocillati, riprese a raccontare:
‐ Sono riuscito a fuggire da Nonantola, una notte. Il nonno e Sandro li avevano già portati via, la mattina prima, con una camionetta insieme ad altri. ‐ Mia madre a quel punto lo interruppe:
‐ Come via, Augusto? Dove? Siamo stati a Nonantola, la guardia ci disse che erano quì, a Bologna. Invece tu, ora, dici...‐
‐ Non lo so, Eleonora. ‐ La interruppe, allora, mio padre. ‐ Credimi, non so null'altro!
La guardia, evidentemente si sbagliava o non sapeva bene neanche lui.
Qualche giorno dopo, la zia Adelina telefonò da Reggio; disse a mio padre che il nonno e Sandro erano a San Sabba, nel triestino: lo aveva appreso da un amico che a sua volta era riuscito a saperlo da un pezzo grosso della milizia di Rubiera. Mio padre era già allertato: nel giro di un giorno o due sarebbe partito per il Friuli, in cerca di notizie del nonno e di Sandro. Ma il venerdì, la sera seguente la telefonata della zia, ne arrivò un'altra, da Castellarano, ben più ferale, era il Tanin, questa volta, che disse a mio padre: "Sandro e Casimiro li hanno fucilati i tedeschi, qualche giorno fa". Poche parole ma chiare. L'amico di mio padre lo aveva saputo da alcuni partigiani di Bologna. Mio nonno e Sandro, sapemmo in seguito, a nostra volta, erano stati fucilati, insieme ad altre quindici persone, da un plotone di SS e alcuni elementi della 10^ Mas per rappresaglia ad un attentato avvenuto a Villalunga, frazione di Casalgrande, durante il ferragosto. Mio padre, allora, mollò la cornetta e gridò:
‐ E' finita! Mia madre corse ad abbracciarlo e si mise a piangere anch'essa. La Giuliana, da par suo esclamò:
‐ No! No! No! Non si può morire così!
Il giorno dopo i miei genitori, di comune accordo, decisero che saremmo tornati tutti a Castellarano. Prendemmo il treno fino a Reggio, poi da là fino a casa saremmo andati all'avventura. Lungo il tragitto, a piedi, riuscimmo a salire su un grosso camion che trasportava pere. Scendemmo, poi, a Villalunga per riposarci. Attraversammo il paese, lentamente e con circospezione sospetta per paura di incontrare fascisti o tedeschi. Nei pressi della chiesetta, ai cancelli delle villette dirimpetto, c'erano quattro partigiani impiccati col filo spinato: i fratelli Benassi (Marco, Rino, Loris, Dario), dalla gente soprannominati i "quattro moschettieri di Villalunga" per la lunga militanza di lotta contadina ed operaia in paese e nel circondario. Sopra ognuno di loro un cartello recava scritto "partigiani infami e traditori". Mia madre, dopo aver coperto colle sue mani gli occhi di Luigi, gridò a me:
‐ Va via, porta lontano tuo fratello! ‐ Poi, insieme a mio padre si commosse e pianse.
Di notte arrivammo a casa. In autunno le scuole restarono chiuse (laddove erano rimaste in piedi). L'inverno seguente fu rigidissimo, trascorse però abbastanza tranquillo. Il capoluogo, poi, venne dichiarato "città aperta": non veniva più bombardato. Seguirono, di lì a poco, Reggio e Modena. Nell'aprile del 1945 i polacchi e gli anglo‐americani liberarono tutta l'alta Emilia. La guerra, finalmente, era finita! Nell'estate del 1945 superai l'esame di ammissione alle medie. In autunno, quando riprese la scuola, ero compagno di Aldo e Giovanni (loro erano già in 2^) all'istituto Virgilio di Scandiano.
Spesso, io e loro, pensavamo all'anno prima, in particolare all'estate; a quell'estate del 1944 che sarebbe dovuta essere spensierata per tutti noi ragazzi del campetto di Castellarano, ma che non lo fu affatto: fu, però, a suo modo, un'estate da ricordare.
da: "Storie e racconti della bassa".
Taranto, 10 marzo 2017.