Un libro sconosciuto
Esiste un libro nascosto, o per meglio dire custodito, all'interno di un grande albero. Questo libro non ha mai conosciuto altri lettori oltre allo scrittore e all'albero stesso. Il titolo inciso sulla copertina recita Merle, mentre al suo interno è contenuto quanto segue: Prefazione Esiste un unico libro che non ho mai voluto pubblicare. Il motivo non è qualcosa di chiaramente definibile, ognuno di noi nella sua vita vive momenti che gli penetrano nella carne e si posizionano accanto al cuore. Rimangono dentro di noi e diventano un punto particolarmente sensibile del nostro animo. Come una ferita aperta, il cui solo sfiorare ti fa sobbalzare, non tanto per il dolore, quanto perchè senti che li sei vulnerabile e che tutte le barriere da te costruite a difesa del tuo essere in quel punto perdono ogni loro solidità. Non c'è nulla che debba essere mantenuto nascosto di ciò che è scritto all'interno di questo libro, eppure una parte di me teme di ciò che il mondo potrebbe fare con queste informazioni. Io, che ho raccontato di guerre e tradimenti, io che mi sono macchiato di crimini che ancora oggi mi perseguitano la notte eppure si trovano vergati più col sangue che con l'inchiostro in molte biblioteche del nostro mondo, io che ho affrontato demoni, draghi, sempre con il dovuto timore, ma mai esitando e mai lasciandomi cogliere dall'indecisione, io che mi sono trovato al cospetto di dei il cui solo sguardo poteva annientarmi.... io temo a raccontare la storia contenuta in questo libro. Una storia innocente che parla più di sogni che di fatti. L'animo dei mortali può raggiungere confini agognati anche dagli dei stessi eppure è fragile nel suo essere e se si vuole mantenere una parvenza di dignità in questa vita, bisogna fare i conti con questa insuperabile debolezza.
Tutto avvenne più di 200 anni fa. A quell'epoca Yondalla non mi aveva ancora benedetto con il dono dell'immortalità e io non ero nulla di quello che sono oggi. Al tempo giravo il mondo più per necessità che per dedizione e la mia fama più che ai racconti era dovuta alle bricconerie che mi contraddistinguevano. Ero nulla più che un ladruncolo di strada, avevo un gran talento nel cercare guai compensato dalla mia stessa capacità di uscirne, il più delle volte correndo. Fu proprio in fuga da alcuni mercanti molto interessati a rivendere la mia pelle che raggiunsi per la prima (ed ultima) volta le foreste della vita. Non so quanto sia noto al lettore di questa locazione, quindi cercherò di illustrarla brevemente. Le foreste della vita sono quello che si potrebbe definire il cuore pulsante della natura. Chi di voi non ha mai sentito i racconti dei druidi parlare della vita che si trova nell'ambiente, negli alberi, nella terra e persino nelle rocce? Solitamente questi racconti vengono considerati come una lieta novella volta a far amare la terra che gentilmente ci ospita, ma all'interno della Foresta della Vita, tutto questo è pura verità. Immaginatevi un luogo in cui l'aria è talmente pregna di vita che ogni cosa intorno a voi sembra respirare. Un luogo in cui le piante e gli alberi sembrano sussurrare linguaggi che voi non potete comprendere, fatti di vento, scricchiolii e fruscii di foglie. Un luogo in cui gli animali scambiano il copione con gli umani e osservano gli intrusi con curiosità, come se la paura più che a loro dovesse appartenere a chi valica quel confine sacro. Un luogo in cui la luce che penetra dalle fronde degli alberi è poca e nell'aria si alternano impercettibili bagliori colorati la cui fonte è sconosciuta, sebbene molti druidi la attribuiscono agli spiriti dell'aria. Più volte è stato fatto il paragone di questo luogo con la foresta eterna, patria degli elfi, ma si tratta di due cose completamente diverse. Nonostante anche tra gli alberi argentati che ospitano le razze silvane si possa percepire la vita, questa è dovuta più alla bellezza del luogo. L'aria che traspira tra i bianchi cancelli di Lohndnimm trasmette nobiltà, fierezza e tranquillità, ciò che si trova all'interno della Foresta della Vita è qualcosa di più selvaggio e istintivo. Sono in molti a temere di avventurarsi nella patria della natura e i loro non sono timori infondati. Ma torniamo al nostro racconto o il lettore penserà che si è trasformato in un trattato geografico. Entrai nella foresta senza sapere cosa mi aspettasse. Li per li non ebbi timore, le mie attenzioni erano tutte rivolte agli inseguitori piuttosto che a rimirare il paesaggio circostante, ma quegli umani avevano già abbandonato l'inseguimento quando videro che mi addentravo nella vegetazione. Quando pian piano mi accorsi del luogo in cui mi trovavo, la morbosa curiosità che contraddistingue gli appartenenti alla mia razza ebbe la meglio sulla prudenza e sulla paura. Continuai ad avanzare sempre più nel folto della vegetazione, ma più andavo avanti più la mia presenza diventava scomoda ed evidente come una torcia nella notte. Dopo diverse ore di cammino mi imbattei in una donna che, stesa a terra, sembrava sull'orlo di varcare il sottile confine fra la vita e la morte. Mi precipitai al suo fianco e istintivamente presi la sua testa fra le mie braccia, ella aprì gli occhi e mi guardò intensamente. Non dimenticherò mai quello sguardo. I suoi grandi occhi color ambra scavarono dentro la mia anima strappando, come fosse un ciuffo d'erba novello, una compassione che nemmeno io credevo di possedere all'interno del mio animo. Venni colto dal panico, volevo aiutarla ma non sapevo che fare, provai ad urlare aiuto ma il grido venne soffocato, quasi volontariamente, dagli alberi intorno a me. La donna prese le mie piccole mani nelle sue e le strinse forte, potevo rispecchiarmi nei suoi occhi lucidi che mi fecero sentire nudo ed impotente, dopodichè il suo sguardo si spense e le sue mani caddero senza vita. Incredulo continuai a fissarla per qualche istante, probabilmente tremavo ma non me ne accorsi, ero incapace di distogliere lo sguardo da quella creatura che giaceva d'innanzi a me. Quando dopo qualche istante ripresi coscienza mi accorsi che nelle mani stringevo una piccola ghianda. Mi guardai intorno, ero circondato. Animali, alberi e altri spiriti mi fissavano con sguardo truce. Non ebbi nemmeno la forza di reagire quando un ent, mi raccolse come fossi nient'altro che un sassolino e mi portò nel cuore della foresta. Mi trovavo ora al cospetto della vera essenza della Foresta della Vita, uno spirito chiamato dagli elfi Enil'Andur, molti ritengono si tratti dello stesso spirito del mondo, quello che viene comunemente chiamato Gaia, ma tutti i druidi smentiscono la cosa. All'apparenza sembrava essere un gigantesco albero traslucido, ma capii che era solo la forma che aveva deciso di assumere per colloquiare con me, in realtà avrebbe potuto assumere qualsiasi forma avesse desiderato. Mi intimò di consegnargli la ghianda e io pretesi spiegazioni in merito. Decise di rispondere alla mia insolenza con pazienza, e mi spiegò l'infausto spettacolo a a cui avevo presenziato. Il tutto gettava le sue radici secoli prima. A quell'epoca, come ora, la foresta considerava un intruso qualsiasi essere umano, o halfling, come nel mio caso, e benchè non attaccasse a vista chi si addentrava al suo interno, lo osservava con attenzione, pronta se necessario a rispondere alle offese. Alcuni druidi e ranger si presentarono al cospetto di Enil'Andur, dichiarandosi al suo servizio e spiegando che volevano dedicare i loro sforzi e la loro esistenza a difendere e preservare tutto ciò che si trovava all'interno della Foresta della Vita. Il primo impulso fu ovviamente di respingere questa proposta, poiché è comunemente noto che le creature appartenenti alle razze sono incapaci di adattarsi al ciclo della natura e spesso lo sconvolgono per i propri bisogni. Lo spirito accolse tuttavia la loro proposta, come mi spiegò, per dare una possibilità se non a tutte le creature, almeno a quelle che sembravano voler rispettare i dogmi da lui imposti. Per secoli la convivenza si dimostrò un successo, con il passare del tempo nacquero nuove generazioni di alberi, animali e folletti, ognuno di loro considerava questa situazione come la normalità, tanto che presto i fantomatici intrusi divennero invece dei fratelli. E' in questo contesto che si introducono i due personaggi principali della vicenda: Nhel e un ranger il cui nome non mi fu mai riferito poiché bandito per sempre dalla Foresta della Vita. Nhel era una driade nata nel periodo di convivenza con i druidi, la stessa che morì fra le mie braccia, l'innominato invece fu la causa diretta o indiretta della sua morte, ma procediamo con ordine e limitiamoci per ora alle parole di Enil'Andur. Era ormai consuetudine che spiriti e folletti trascorressero le giornate in compagnia dei druidi e quindi, come lo stesso spirito ribadì a causa delle mie insistenti domande, non si diede mai molto peso agli incontri fra Nhel e il ranger senza nome. Le giornate sembravano susseguirsi liete e tranquille, scandite dal canto degli uccelli unito a quello delle fate, ma i più attenti già si erano accorti di un cambiamento all'interno dell'innominato. Mi raccontarono di quest'uomo come di un personaggio tranquillo e gentile. Questo prima della pazzia. Così la definirono. Nessuno seppe dare una motivazione in merito, l'umano di punto in bianco iniziò a covare dissapore verso la foresta e le sue leggi, dapprima con il semplice malumore poi con litigi sempre più frequenti e per motivi sempre più banali. Il culmine si ebbe in una sorta di consiglio organizzato per affrontare la sua questione. Scoppiò un diverbio fra l'umano e i suoi fratelli e questo degenerò fino alla violenza. Alla fine della baruffa, che coinvolse non solo i druidi, ma anche alcuni abitanti del bosco, l'uomo spirò in quello stesso letto di foglie che mi accoglieva mentre io incredulo ascoltavo l'evolversi della storia. La gravità di questo fatto servì a provare ad Enil'Andur che non poteva esserci coesistenza tra il popolo della natura e le razze umane. Se un solo uomo aveva creato un tale disastro, temeva al solo pensiero di cosa sarebbe potuto accadere se altri avessero seguito il suo esempio. Decise che nani, elfi e umani sarebbero dovuti tornare al loro luogo d'origine, lontani dalla foresta della vita. Fu una decisione molto sofferta, sia dallo spirito stesso sia da tutti gli abitanti della natura che ormai si erano affezionati ai visitatori. I druidi sebbene con rammarico, accettarono la decisione e si allontanarono pacificamente dalla foresta per non tornarvi mai più. I giorni seguenti furono i più difficili. La foresta sembrava aver perso una parte della sua catena e per la natura questo significava riflettere un imperfezione inaccettabile a molti di loro. Gli anni passarono, seguiti dai decenni fino ad arrivare al secolo. Ormai solo alcuni alberi ricordavano cos'era accaduto e tutto era tornato alla normalità. Tutto tranne Nhel. La driade fu quella che soffrì di più per l'allontanamento dei druidi, o come io credo, per l'uccisione dell'innominato. Quando avvenne, il suo albero si ammalò di un mare incurabile, anche per i poteri dello stesso Enil'Andur. Le foglie cominciarono a cadere e il legno a marcire, una lunga agonia che durò per un secolo, finchè, inaspettatamente, compì il folle gesto di fuggire dal suo albero, una cosa che significa morte certa per una driade, poiché esse sono magicamente vincolate alla loro controparte arborea e l'allontanamento le porta ad ammalarsi e morire poco dopo. Anche in questo caso nessuno seppe darmi una motivazione, ma l'esito mi è ben noto, visto che lo stesso giorno in cui fuggì fu quello in cui io, seppur per un breve istante, la conobbi. Ricordo che mentre Enil'Andur mi parlava un percorso si creò nella mia mente, un tragitto che congiungeva tutti i punti oscuri del racconto, fino a formare un chiaro disegno di ciò che era accaduto. Potrebbe non essere vero naturalmente, potrebbe essere solo la mia interpretazione dei fatti, ma io ed un'altra persona amiamo credere che le cose siano avvenute in questo modo. Nhel trascorreva molte delle sue giornate in compagnia del ranger ed egli trascorreva lunghe e interminabili ore a parlare dei viaggi che lo avevano portato sino in capo al mondo. La driade ascoltava rapita, pendendo da ogni parola, cullata da quella voce, che inspiegabilmente la confortava e allo stesso tempo la scuoteva, come il vento di un burrascoso temporale che scuote l'albero fino alle sue radici, ma porta seco il dolce nutrimento dell'acqua. Le sembrava tutto un interminabile gioco, affascinare il ranger non era come per tutti gli altri poiché verso di lui ogni gesto, ogni parola, assumeva un carattere totalmente diverso. Si accorgeva che il potere esercitato su di lui sortiva uno strano effetto di ritorno, come se ogni flirt fatto all'uomo si ripercuotesse su se stessa vincolandola, con un legame molto simile a quello che aveva con il suo albero. Le stagioni si alternarono insieme ai racconti; Nhel, sempre più affascinata, ascoltava le descrizioni di luoghi meravigliosi e totalmente diversi dalla foresta in cui viveva. Questa fu la scintilla della “pazzia” nell'umano. D'altronde, ciò che per Nhel era un gioco, per l'umano era qualcosa di molto più chiaro e devastante. Un'amore proibito verso una creatura che sarebbe per sempre rimasta vincolata ad un fazzoletto di terra da cui non avrebbe mai potuto allontanarsi. L'impossibilità di poterle mostrare tutti i luoghi di cui narrava lo portò a odiare le stesse regole naturali che aveva giurato di proteggere. Ogni volta che al termine di un racconto vedeva i grandi occhi color ambra della driade tornare a posarsi su quello stesso paesaggio che la accompagnava in tutte le sue giornate era per lui qualcosa di straziante. Io non so se al lettore sia mai capitato di sperimentare il complesso sentimento dell'amore, ma se così non fosse, donate fede alle mie parole quando dico che non esiste cosa al mondo che possa allontanare maggiormente la mente di un uomo dalla ragione. Nulla è banale in amore, le stesse leggi che hai sempre rispettato e seguito giorni prima, divengono inaccettabili quando tra loro si insinua il sentimento. L'umano non poté mai accettare ciò che il destino aveva disposto per la creatura che amava e questa sua utopistica battaglia, lo portò alla fine che già vi è nota. Per una battaglia che finiva un'altra cominciava. Nhel non aveva mai desiderato nulla di diverso dalla sua vita, perchè non aveva mai conosciuto nient'altro. Era felice in quello strano gioco che avvicendava le sue giornate e ora che tutto era terminato si sentiva più che mai smarrita. Gli unici ricordi che la avvicinavano all'innominato erano tutti luoghi lontani che non aveva mai neppure sfiorato se non con il lungo sguardo della fantasia. Persino gli altri abitanti di terre lontane, che tanto erano simili al suo compagno e con cui si divertiva a praticare la sottile arte della seduzione erano stati allontanati. Non era rimasto nulla nella foresta di ciò che aveva amato con tutta se stessa, si sentiva come una pianta a cui venisse strappata la terra dalle radici, per poi essere lasciata a morire su di un arido terreno. Un giorno non molto diverso dagli altri, in cui il dolore era insopportabile, decise che avrebbe visto i luoghi di cui le avevano parlato. Sarebbe uscita dalla foresta per esplorare il mondo, per alleviare quel cuore di legno stanco delle continue erosioni dovute alle tarme del rimpianto. Avrebbe portato con sé una ghianda, una figlia, ella non doveva patire la sua stessa sofferenza all'interno della foresta, una volta all'esterno sarebbe stata libera e avrebbe potuto crescere dovunque avesse preferito. Un ultimo sguardo al suo albero e poi corse via senza voltarsi. Corse. Corse per un tempo indefinibile e più correva più si sentiva esausta. Più avanzava più le gambe le dolevano, il respiro le mancava e la vista si annebbiava, fece ancora qualche passo, prima di accasciarsi al terreno, troppo stanca per comprendere cosa stesse succedendo. Le parole di Enil'Andur mi strapparono ai miei pensieri. Lo spirito voleva la ghianda. Era una loro sorella, gli apparteneva, e io un semplice ladro la cui vita e i cui diritti si assottigliavano ogni secondo che passavo in possesso di quel seme. Difficile descrivere cosa provai in quel momento, era come se per la prima volta nella mia vita sapessi cosa stavo facendo. Come se il mio solito tirare a campare fosse stato completamente spazzato via per forgiare nel mio animo quell'unico e incontrovertibile obbiettivo. Fuggii. Non so nemmeno io dire come feci, creai il più grande trambusto possibile, ricordo che più volte venni bloccato e immobilizzato e più volte mi dimenai fino a liberarmi, lasciando parte del mio sangue sulle mani dei miei assalitori. Non vedevo chi mi assaliva, vedevo solo il tragitto che cercavo di raggiungere e superare il più in fretta possibile. Correvo, saltavo, rotolavo, ogni modo, possibile pur di avanzare verso l'esterno della foresta. Inspiegabilmente riuscii nel mio intento. La fortuna deve aver giocato un ruolo fondamentale per consentirmi una fuga tanto improvvisata, ma il risultato rimane. Quando fui lontano un centinaio di metri dal limitare della foresta, caddi e rimasi a terra, incapace di muovere un qualsiasi muscolo. Mi doleva ogni parte del corpo e avevo più di un osso rotto, ma sopravvissi anche a quello. Intrapresi un viaggio che non aveva una meta, ma solo l'intenzione di allontanarsi il più possibile dalla partenza. Giunsi all'altro capo del continente in un posto a me noto chiamato Finrias, una piccola comunità di halfling che hanno perduto parte della loro inclinazione al viaggio, in favore di una comunità dove la tranquillità non è che qualcosa da fuggire. Scelsi un posto poco lontano dal villaggio e li, 187 anni fa, piantai Merle. A lungo mi sono domandato su cosa mi spingesse. All'epoca pensai fosse un atto di ribellione contro lo spirito e gli abitanti della foresta, ma è innegabile che la storia di Nhel ebbe un ruolo fondamentale nelle mie intenzioni. Probabilmente nel mio animo decisi di concederle quel sogno che le era stato negato, decisi che l'avrei portata a vedere quei luoghi tanto ambiti che non le era permesso di raggiungere. Merle crebbe subito, ansiosa di uscire dal terreno per potersi cullare alla luce del sole primaverile. Io continuai i miei viaggi ovviamente, incapace di rimanere stabile in un qualsiasi luogo, ma da allora, Finrias divenne una tappa fissa al termine di ogni mio pellegrinaggio. C'era un piccolo germoglio che mi attendeva ogni volta, saziandosi dei racconti delle mie avventure; ogni giorno cresceva forte e vigoroso. Il germoglio divenne pianta, la pianta divenne albero, passavano gli anni ed al ritorno c'era sempre il medesimo sorriso e il tocco delicato ad attendermi. Non ebbi mai l'occasione di conoscere Nhel o di constatare se la mia ricostruzione degli eventi corrispondesse o no a verità, ma una cosa è certa... Merle, sin da quando era piccola, ama ascoltare le mie storie di posti lontani e avventure entusiasmanti. Ad ogni racconto i suoi grandi occhi color ambra, gli stessi occhi color ambra, mi ringraziano profondamente per ciò che le regalo.