Un posto dove restare

Assonnato come quel mercoledì mattina, Emilio probabilmente non lo era mai stato. Faticava a tenere lo sguardo vigile sulla lavagna, mentre la professoressa finiva di trascrivere le costruzioni del periodo ipotetico in latino. A dire il vero, pochi nell’aula sembravano prestare una convinta attenzione; Carmine non era tra questi. Approfittando del posto in ultima fila, ben coperto dalle voluminose spalle di un compagno, si era messo ad ascoltare pacificamente la musica dal suo lettore MP3, comperato il giorno prima.
“Bene, ragazzi: prima di andare vi ricordo che domani è giorno di versione in classe. Non accetto ritardi, a meno che il motivo non sia grave".
Storia già sentita, mormorava tra sé  Emilio mentre oltrepassava l’uscita con passo liberatorio.
Lontani abbastanza da non percepire più i vocii della folla dinanzi al portone della scuola, Carmine ed Emilio presero a dialogare con scarsa partecipazione; solo qualche rapido scambio di battute sulla situazione critica del Catania in classifica.
“E Domenica c’è la Juve”, salutò distrattamente Carmine che imboccava una viuzza stretta e in salita, lasciando Emilio divincolarsi da solo nel tran tran di passanti che assediavano i marciapiedi di via Etnea.
Ogni persona che lo urtava, gli suscitava istintivamente un senso allarmante di rancore, che riusciva a contenere soltanto tenendo bassa la testa, concentrata sull’asfalto uniforme del marciapiede.
Capitò dinanzi ai tavolini esterni del Bar Caprice, e su una delle seggiole lasciò cadere tutto il peso del corpo. Poggiò il gomito destro sul tavolino all’altezza della nuca, indeciso se fermarsi lì, o proseguire la camminata.
“Beh, che ci fai qui? Vattene a casa, forza, la mamma ti aspetta”, sussultò in tono greve un uomo che sfumacchiava  un mozzicone di sigaro.
Finito di mangiare, Emilio allungò verso la madre uno sguardo che tratteneva una richiesta di qualche tipo; la donna, impegnata a sparecchiare, non tardò comunque ad accorgersene: “Emi, è uscito quel nuovo gioco della Play… come si chiama… Fantasy… che dici, ti porto al negozio di pomeriggio? ”.
Emilio non le prestò la benché minima attenzione, e andò a rifugiarsi caparbiamente nella sua stanza. Dalle pareti da poco ritinteggiate, strappò via poster e insegne di  giochi e personaggi virtuali; dopodiché, senza altre esitazioni, agguantò la cornetta:
“Pronto, Carmine, io ci rivado.”
“Quando?”
“Subito, vediamoci lì.”
“No, non voglio mettermi nei casini. E poi quella roba non mi piace.”
Emilio affrontò, superandole con astuzia, le domande della madre, che lo vide sparire in fondo alla tromba delle scale.
Di gran corsa percorse un reticolo di vie somiglianti l’una all’altra, che lo condussero dinanzi a un garage malridotto, pieno di scritte offensive lasciate con le bombolette spray.
Bussò freneticamente, con il cuore che gli scattava come una mitraglietta:
“Ah, sei tu; e il tuo amico?”
“No, lui non è venuto.”
“Entra dai, fai in fretta.”
Si sedette a gambe incrociate sopra un ampio tappeto di stoffa variopinta, in quell’ambiente tanto differente da casa sua, illuminato da vibrazioni sfumate di lampade etniche, maschere appese ai muri con espressioni sofferte, odori che serpeggiavano nell’aria, in modo tanto denso, che a Emilio parve quasi di poterli sfiorare con le dita.
Kofi, riprese il libro adagiato su una mensola;
“Mosi, Semelo come on!”
Due ragazzi di colore sbucarono da dietro una poltrona in bambù, per ricomporre il cerchio, di cui adesso anche Emilio era entrato a fare parte.