Un sindaco
Lungo la strada bianca che percorreva discendendo la vallata della Murgia, disegnando una S serpentina fra le collinette di terra e chianca, tra le verdi e gialle sterpaglie e le rocce affioranti, i bianchi muretti a secco ricoperti di muffa e sotto al sole d’arancia ormai al tramonto, andava solo un cavallo con una grigia ed elegante sagoma con cappello.
Teneva le briglie allentate e il cavallo andava da solo, i suoi polsini macchiati del marrone del terreno e le mani solcate da profonde rughe, nonostante la non tarda età, sfioravano ogni tanto la criniera del cavallo quasi accarezzandolo.
Il Sindaco quel giorno percorreva quella strada di periferia che perdendosi nell’agro verso la vicina cittadina, portava alla masseria di don Ferdinando, faccendiere e precedente assessore del Comune da lui presieduto.
Il Sindaco aveva ansia di andare a discorrere con il suo vecchio amico e collega per alcune serie faccende che si stavano sovrapponendo in quel periodo.
La Guerra, le rivendicazioni dei braccianti, il cambio di rotta che stava prendendo l’assetto dello Stato tutto, le lotte politiche interne al Comune, il trasformismo e la collusione di molti suoi colleghi con la bassa criminalità e soprattutto con l’allegro associazionismo criminale operato da molti possidenti locali.
Si presagiva uno strano clima di tensione nella società, un inquietante movimento sussultorio avvertibile in un digrignar di denti del bracciante, in un’occhiata penetrante in più del vecchio possidente a cavallo, nell’attenzione severa e nel mento irrigidito dello sbirro, nell’irreperibilità di molti noti barboni e fuorilegge, che da alcune settimane non davano più segno di vita.
Il Sindaco aveva un sentore di quello stava accadendo, ma non riusciva di certo a decifrarne tutti i segnali.
Sapeva benissimo che le cose dalle sue parti si erano messe bene in un certo senso, ma che comunque le diatribe, i conflitti personali, e soprattutto le lotte di potere per i possedimenti e per le poltrone politiche continuavano senza sosta, anzi si rafforzavano con l’andare del tempo.
Egli sapeva di essere inattaccabile da molti punti di vista. Aveva solamente fatto del bene a quella cittadinanza: aveva ampliato e sviluppato il misero ospedale cittadino, aveva inaugurato piazze e strade e soprattutto aveva agevolato i lavoratori cittadini, sostenuto gli artigiani e sempre cercato di gestire le diatribe fra possidenti e braccianti in modo equo, senza scontentare né gli uni né gli altri.
Tant’è che buona parte del popolo lo amava. Ma egli sapeva benissimo – con il suo mite, discreto ma giusto operato – di aver scontentato molti di coloro che avrebbero voluto rinverdire il proprio status quo e magari accrescerlo grazie alle solite magagne e fili deviati.
Le contingenze esterne e il passato burrascoso di quella zona, mettevan sempre sul chi va là la popolazione; ogni elemento della società veniva visto come un possibile amico o come un possibile nemico; si era sempre pronti a vedere qualcuno sfoderare il coltello per un’inezia o per questioni passionali, o qualcun altro a sfoderare il fucile per questioni economiche ed ereditarie.
In città il bracciante arricchito diventato possidente sfoggiava l’eleganza e l’arroganza dell’ uomo che ce l’ha fatta; l’artigiano faceva il suo lavoro in tranquillità sprecando gli inchini e i ringraziamenti per i don; i braccianti andavano e venivano con la miseria nella testa e un coltello sempre in tasca. I preti incensavano la chiesa e benedivano i fratelli, che tutti si conoscevano, tutti si amavano e nel contempo tutti si odiavano, parlando male l’un dell’altro, meditando vendette e agguati, contro l’infame o contro la zoccola.
Il figlio del massaro aveva sposato sua cugina, era nato uno storpio, ed era stato dato a una coppia di braccianti senza figli, in cambio di due galline e quattro conigli; il parroco aveva la comare poco d’innanzi alla chiesa, e c’è chi sospetta che anche i figlioletti della genitrice fossero stati accolti troppo teneramente fra le sue braccia; il massaro Capraro aveva sedotto la figlia di don Onofrio, i due erano scappati, ma mentre lei dormiva in un fienile, lui pendeva da un albero, ancor più pallido della luna che lo illuminava; un brigante aveva stuprato la figlia d’un bracciante, i fratelli lo scovarono e lo arsero vivo ficcandolo in un forno.
Tutti casi di cronaca che affollavano la gazzetta locale e che riempivano gli occhi del nostro Sindaco ogni mattina.
Ma poi giravi a piedi, in piazza o per le vie del centro, e tutto pareva normale: il lattaio faceva l’inchino, il fruttivendolo salutava con un sorriso bonario a trentadue denti, il parroco benediva mansueto, il massaro si toglieva il cappello e stringeva con allegria la mano al compaesano.
Tutti sembravano agnellini sotto lo sguardo pubblico della morale comune, dell’autorità e degli sbirri.
II.
Così il Sindaco quel giorno a tavola andava parlando:
“ Ho concesso alla ferrovia di passare davanti al cimitero. Ho dato i permessi e tutto. E ora don Michele mi vuole morto perché gli ho tagliato la proprietà in due. E don Raffaele mi manda fiori e attestati di stima, promettendomi ampio sostegno nella prossima campagna.”
“ E tu?” – gli fece la mamma ottantaduenne, la rugosa faccia assonnata ma arguta avvolta nel cencio floreale annodato tipico delle matrone di campagna.
“ E io, cara madre mia, ho accettato i fiori, gli attestati, e se vuoi saperlo anche i soldi…
Perché io ho bisogno dei soldi per reggere i fili di questo paese di lupi affamati!... Io ho bisogno della protezione dei fucili dei massari e se ci è bisogno, ho bisogno pure dei briganti, degli sbirri e di tutti i Santi che ci sono in cielo!”
“ Chiudi la boccaccia, svergognato!” – eruppe la vecchia – “ Se tuo padre ti sentisse!... Mai un soldo ha preso lui… Mai a compromessi è arrivato lui!”
“ E lo so!... Mai a compromessi, eccome!... Me lo ricordo quando trucidò un terzo dei suoi braccianti per non volergli rendere il conto!... Un Sant’uomo, mio padre!”
La vecchia guardò il figlio con uno sguardo orribile, prima con rabbia, poi acchetatasi, quasi in segno di vergona, abbassò gli occhi e se ne andò, raccogliendo le scodelle sporche di minestra.
La campana della Chiesa di San Rocco suonava monotona, riverberando i colpi e scacciando gli uccelli verso il tramonto. Le rondini svolazzavano attorno al campanile festeggiando il miscelarsi dell’arancione all’azzurro. Qualche nuvoletta macchiata di colore si stagliava qua e là sulle casette bianche attorno al Castello.
E il Sindaco fumava scrutando l’orizzonte dalla terrazza.
La testa s’era completamente svuotata, e lui guardava come inebetito il succedersi nell’aria delle spirali di fumo, il cui leggiadro candore s’andava a fondere alle nuvolette, poi all’arancio e all’azzurro.
E la pace più chiara e inebriante si era impossessata del suo cervello, troppo oppresso dai mille pensieri della routine quotidiana che spetta ad una alta carica.
Quella notte gli era apparso in sogno un uomo in grigio, che guardandolo fisso negli occhi poi spariva in un grande cerchio giallo in mezzo alla completa oscurità. Pensò che fosse un sintomo di stress, o solamente uno dei tanti incubi che affrontava da mesi di notte, quando la solitudine e il timore hanno il sopravvento e quando tutte le preoccupazioni diurne si concretizzano in terribili spettri notturni.
“ Chi me l’ha fatto fare?” – l’unico pensiero che gli passò per la mente in quel momento.
Poi un sorriso ironico: “ Sono uno stupido”.
E la sigaretta cadde lenta sulla strada deserta.
“ Non credo di aver fatto una mossa sbagliata. Eppoi il popolo mi ama… Ho fatto solo del bene a questa comunità. Come potrebbero odiarmi?”
E rientrò in casa, socchiudendo la finestra dalla vernice verde che andava a poco a poco staccandosi.
Dentro era buio. La rivoltella giaceva sul tavolo, come ad aspettarlo.
Lui la prese, l’aperse, controllò la carica, fece scoccare la sicura. Poi la guardò.
Si guardò nello specchio. Appariva più pensieroso del solito.
S’infilò la rivoltella nella tasca ed uscì.
III.
La bianca strada in terra battuta continuava a discendere fra le chianche. Alla sinistra la grande collina verde e bianca e a destra una piccola cunetta di terreno incolto; e in lontananza una grande macchia bianca, accompagnata da altre due piccole poco più a est: le tre cittadine dell’Alta Murgia.
La serpentina tra le verdi e gialle sterpaglie, era irrorata dalla luce scarlatta del tramonto, che imbrattava la brecciolina di un colore sanguigno.
E il cavallo del Sindaco andava, andava da solo, quasi conoscendo a memoria la strada che portava alla masseria del vecchio e caro amico Don Ferdinando.
Il Sindaco guardava avanti, quasi assopito, con il grigio cappello dalle larghe tese dinanzi agli occhi. La sua mano rugosa continuava ad accarezzare il cavallo, e per un attimo il suo sguardo si posò sulle more nere e rossastre che adornavano il cespuglio che occultava lo sbocco della curva.
Così, una volta superata la curva, la strada proseguiva quasi rettilinea, ma a pochi passi dalla svolta, quasi in corrispondenza dell’imbocco di un carraro, proprio sotto una grande quercia, il Sindaco distinse qualcosa di insolito: tre persone in stallo, quasi in attesa.
Uno di questi guardava la strada proprio in direzione del Sindaco, l’altro, il più alto, armeggiava con le redini e delle borracce sul cavallo e il terzo lì di spalle a pisciare sulla quercia.
Il cavallo del Sindaco si avvicinava pian piano al trotto ai tre personaggi, cosicché gradualmente il nostro poté distinguerne le fattezze: l’uomo in avanguardia aveva un largo cappello marrone, abbastanza basso, tarchiato, la folta barba nera, naso aquilino, una borsa di cuoio a tracollo; il tizio che armeggiava con le borracce appariva essere il più alto, un elegante vestito grigio da notabile e una bombetta ugualmente grigia sulla testa; il terzo tizio, non appena voltatosi dopo la minzione, aveva il volto di un giovane bracciante sbarbato.
Ormai il Sindaco era a pochi metri dai tre: la mano rugosa arrestò il suo moto continuo verso la criniera del cavallo e rimase sospesa; l’altra mano spinse in sù il cappello per meglio osservare, poi passò in giù ad arricciare un baffo.
Un’espressione di curiosità ravvivò il suo volto.
I tre lo guardavano.
Poi l’alto notabile in grigio si fece in avanti, sorridendo a braccia aperte:
“ Carissima Eccellenza, quale onore incontrarla qui!”
Il Sindaco osservò che il notabile era particolarmente alto e slanciato. Sembrava avere poco più di quarant'anni: bocca stranamente storta, ben rasato, bruno, sopracciglia nere, una più alta dell'altra, ma soprattutto la cosa che lo colpì fu che al posto dell’occhio sinistro aveva un occhio giallo, finto, sembrava quasi di pietra.
“ Con chi ho l’onore di parlare?”
“ Mi chiamo Arcangelo del Sisto, Illustrissimo!... Appena arrivato nell’agro per assistere al lavoro delle vostre egregie terre con l’aiuto delle mie maestranze... Pirrocco!... Gianvito!... Salutate Sua Eccellenza il Sindaco!”
I due bifolchi sorrisero, evidenziando la disastrata dentatura giallognola piena di falle nerastre, poi fecero a turno un inchino.
Il Sindaco li guardò per un attimo con aria di sospetto. Quella stessa mano che accarezzava il cavallo ora accarezzava la rivoltella nella tasca della giacca. Poi la mano, quasi istintivamente, scalò il tessuto ed andò ad infilarsi guizzando con due dita all’interno.
Il Sindaco sentì fra i polpastrelli la superficie liscia del calcio della pistola.
Il signor Arcangelo, fissandolo negli occhi, in quel momento si fece tetro, con il guanto nero porse la mano al Sindaco, e con la voce secca proferì: “ Vorrei lasciarle le mie credenziali, Sua Eccellenza!”
Così dall’interno della giacca, con un unico movimento, estrasse l’arma, la puntò.
E sparò.
Il fiotto di sangue schizzò in aria, imbrattando i rami pendenti della quercia.
Solo per un attimo la mano del Sindaco si rizzò verso la criniera del cavallo.
Lo accarezzò per un ultima volta, poi cadde all’indietro, ed infine tracollò a terra, precipitando stecchito da cavallo con un tonfo.
L’Arcangelo Assassino fissava la sua vittima, agonizzante sul selciato, mentre le gocce di sangue colavano dai rami andando a riempire la sommità concava del suo cappello.
I due bifolchi avvicinandosi con occhi arrotati estrassero due lunghi coltelli, uno dalla borsa, l’altro dalla giacca, e presero a finire definitivamente il Sindaco, con ripetute coltellate sul petto e sull’addome.
Lo trafiggevano con ferocia, come se Egli avesse fatto loro un grave ed imperdonabile torto.
Ficcavano il coltello nel corpo fino a trapassarlo ed ogni coltellata era accompagnata da un grido di ferocia e un affanno da bestia affamata. Il sangue schizzava suoi loro volti e la mano pelosa e nerboruta, si alzava ripetutamente in cielo per poi infiggersi sul corpo straziato, ormai senza vita.
Il notabile, al contrario, dall’alto continuava a fissare la scena, con l’occhio funzionante non meno impassibile di quello finto. Quella gialla sfera nell’orbita oculare dell’assassino fissava la cruenta carneficina con soddisfazione ed un ghigno, un accennato sorriso leonardesco, apparve sulle labbra sottili ad esprimere la sua soddisfazione.
E le grida continuavano e le bestie continuavano a squarciare il cadavere, mentre tuttattorno sembrava regnare il silenzio. E nessuno s’accorse di niente, nulla fu avvertito dai massari vicini.
Anche se almeno quattro masserie erano situate solo a poche centinaia di metri dal luogo del misfatto.