Un sogno operaio
Quel reparto in quanto tale non esiste più, da molti anni. Svuotato di impianti e di persone è stato trasformato in un magazzino di approvvigionamenti della linea Ut. A regime, lì dentro, nel grande salone centrale lavoravano a turni oltre 1500 persone: attrezzeria, macchine transfert a controllo numerico, trapani, trance, presse, piegatrici, tornî automatici e semiautomatici, frese, puntatrici, banchi di controllo e di montaggio. Ai lati del grande capannone, la termoplastica, la manutenzione, la galvanica, il magazzino. Era la prefabbricazione, il cosiddetto Prefa, reparto delle produzioni metalliche necessarie alle centrali di commutazione di tipo elettromeccanico. Eppure dagli stessi anni ‐ anzi no, dapprima ‐ ritorno spesso in quel grande capannone, nottetempo, alla ricerca della mia sala di tornî e di frese, la mitica 1148. Sono assente ormai da troppo tempo e ho sempre il patema d’animo per come potrei essere accolto dai miei compagni di lavoro che invece sono sempre lì, laboriosi e caciaroni. Mi guardano, mi sorridono e mi salutano con gli occhi e mai che da una voce salga un rimprovero, una presa in giro. É rarissimo che io mi fermi, lambisco i confini del reparto e mi allontano per risolvere qualche altro problema sindacale. Loro non chiedono mai nulla, sanno che le novità ‐ se ci fossero ‐ gliele avrei già contate da me. La garanzia per loro é che io ci sia e che mi ricordi della loro esistenza. Mi é successo, per la prima volta, che un operaio senza volto mi contasse un sogno dentro il mio sogno. Mi invitò a entrare nel suo laboratorio, una stanza con finestroni che, dal primo piano, davano sul verde, e banchi di lavoro, appoggiati ai muri dirimpettai, sopra cui erano disposti gli strumenti del mestiere. Discosto, un grosso impianto in metallo di colore verde ne completava la gamma. Un luogo che non ricordavo di aver mai visto sebbene la struttura mi rimemorasse le aule della vecchia scuola aziendale, prima della ristrutturazione. L’operaio che mi aveva accolto indossava la tuta in giacchino e pantaloni blu. Non mi raccontò del suo specifico lavoro né della mansione a cui era adibito. A occhio e croce, poteva avere la qualifica di operaio specializzato provetto o, addirittura, quella di categoria speciale. Al mio interlocutore premeva narrarmi un’altra storia. Debbo ammettere che la mia attenzione, pur essendo tutto un po’ sfumato, fu subito attratta dalle pareti su cui erano appese teche in legno strette e bislunghe dentro cui faceva impressione una lunga sfilza di cd musicali con tante copertine multicolori, contrassegnati da un numero progressivo. Di questo mi voleva parlare e me ne parlò. Lui suonava la chitarra, con una certa maestria, da molti anni ormai. Sfornava un cd a proprie spese ogni anno e ne erano trascorsi ben 17. Nel suo carniere ne aveva una ventina e la sfasatura era spiegata dai cd speciali per straordinarie occasioni e da un “greatest hits”. L’operaio ogni anno, da 17 anni, inviava il suo cd all’Ufficio Risorse Umane dell’azienda. Non chiedeva nulla nella lettera che accompagnava la spedizione, solo i saluti di prammatica e i propri dati di riconoscimento aziendale. Non ricevette, per anni, alcuna risposta ma non si diede per vinto: ogni anno, a disco nuovo, effettuava la solita spedizione. Il decimo anno, gli arrivò con la posta aziendale una lettera in cui un tal Vattelapesca lo ringraziava a nome dell’azienda per il dono ma pure gli sentenziava che la società non aveva nel suo “core business” nulla che si avvicinasse al campo musicale. L’operaio ripose il nuovo cd nella teca del reparto, aggiunse con un pennarello il numero progressivo e l’anno e tornò ad applicarsi al proprio core business lavorativo. Trascorso un anno, la sua fervida inventiva si esplicò in un certo numero di brani musicali per un nuovo cd che, appena stampato, inviò per posta interna al solito Ufficio Risorse Umane. Due anni prima, al quindicesimo anno, gli arrivò un’altra lettera che lesto mi mostrava. Un altro Vattelapesca lo ringraziava di nuovo a nome dell’azienda per il dono, gli rimemorava che la società non aveva nel suo core business nulla che si avvicinasse al campo musicale e gli suggeriva una serie di indirizzi a cui sarebbe stato più consono spedire il risultato del suo ingegno armonioso. Si trattava ovviamente di informazioni minime che ogni buon musicista conosceva a menadito, a cui probabilmente era ricorso più di una volta. Gli anni successivi, senza demordere, a nuovo cd nuova spedizione. Mi diceva poco convinto: <<Capiranno prima o poi se non...>>, <<son tarlucchi!>> toccò a me concludere. L’operaio non fu mai chiamato a colloquio, nessun megadirigente si sognò di effettuare un’indagine per comprendere se e quanto l’operaio fosse appagato nella sua specifica mansione e gratificato nel proprio ambito lavorativo. A fronte delle 17 lettere in 17 anni che ti arrivavano in bottiglia, le tre letterine aziendali non spiccavano per sagace intuito e per efficace gestione di una risorsa umana. A me la morale del sogno, anche nel sonno, é stata subito chiara.