Un uomo... morto?
Il tredici di maggio pattugliammo il West Side, tra South Pulaski Road e West Pershing Road. Eravamo in due, io e il mio compagno Joeil Black. Potevano essere le mie ultime ore nella Polizia. Avevo esaminato ogni incartamento sulle accuse che mi avevano mosso nei due casi di corruzione. Ovviamente erano false ma non potevo dimostrarlo. Questo comportava l’aggravarsi della mia posizione professionale.
Ero scoraggiato e non sapevo come uscire da questa situazione. Avevo una fiducia incrollabile in John. Lui mi aveva avvertito che le cose sarebbero precipitate ancor più a fondo. Tutto ciò che mi stava accadendo era solo l’inizio della mia discesa all’Inferno. Non c’era di che stare allegri. Se non fosse stato per Maddie, per l’amore che nutrivo per lei, molte delle prove che avevo superate, e che stavo sforzandomi per prepararmi ad affrontare, mi sarebbero state sicuramente fatali.
Inchiodai l’auto all’istante, quasi automaticamente, mentre ero ancora assorto nei miei pensieri. Lo stridio dei freni e l’odore di gomme bruciate sull’asfalto bollente si diffuse nell’aria. Un anziano pellerossa era sbucato improvvisamente in mezzo alla strada.
Ma che diavolo, Joeil stava per far scattare il meccanismo di apertura della portiera per uscire dall’auto ma io lo invitai a rinunciare a questo proposito e a fermarsi.
Aspetta dissi come in trance. Il vecchio voltò lo sguardo verso di me, si mise una mano sul petto e la distese in avanti. Fatto ciò, in lacrime, tornò a rivolgere la sua attenzione verso la strada, la attraversò e scomparì dalla nostra vista, disperdendosi tra la folla di pedoni. Stava per accadere qualcosa di molto brutto, di terribile. Non avevo mai visto John piangere. Per un attimo una sensazione di terrore si impadronì di me. Tanti piccoli aghi mi trafissero la spina dorsale e gocce di sudore cominciarono a imperlare la mia fronte.
Riavviai la macchina. Percorremmo la Montrose in direzione Harwood Eights e ci giunse una chiamata alla radio della Polizia. Erano le otto e trenta circa della mattina. Una coppia di ladri aveva rapinato una drogheria ed era fuggita con una macchina rubata, la quale dopo poche centinaia di metri li aveva lasciati a piedi per mancanza di carburante. Accendemmo la sirena e ci dirigemmo speditamente verso la Cinquantanovesima e California.
Quando arrivammo sul posto fummo i primi tra i colleghi. Trovammo l’auto, una vecchia Buick Skylark del Novantotto. Uno dei due rapinatori aveva preso la Cinquantaduesima per Marquette Park e se ne sarebbe occupato il mio compagno Joeil, di una decina d’anni più giovane di me. Io avrei inseguito il secondo, che dopo aver rubato uno scooter, stava zigzagando per la Cinquantanovesima in direzione Midway.
Abbandonato il mezzo sulla strada, dopo essere finito in terra e aver evitato miracolosamente la collisione con un tassì, si mise a correre. Io lo inseguii. Cercò di seminarmi ma dopo alcune centinaia di metri rinunciò all’idea. Non lo persi di vista un solo istante. Riuscivo anche a sentirlo ansimare e imprecare. Correva davanti a me. Mi mancavano solo quattro metri per raggiungerlo e acciuffarlo. Non conosceva bene la zona, probabilmente, e cambiava spesso direzione per cercare una via di uscita e scrollarsi di torno il suo inseguitore. Quando lo raggiunsi in un vicolo desolato, dimostrò un sospetto sangue freddo. Gli intimai di fermarsi, di voltarsi lentamente con le mani alzate e incrociate dietro la nuca.
Lui eseguì l'ordine, sorridendo in modo strafottente. Qualcosa non sembrava andare per il verso giusto. Non sarebbe dovuta andare così. Ma non ebbi troppo tempo per preoccuparmene perché fu allora che sentii un fortissimo dolore alla nuca e cominciai a perdere conoscenza.
Quando mi risvegliai vidi che ero in un letto di ospedale e di fianco a me, seduti, oltre all'infermiera e al dottore che mi stava visitando, vi erano due uomini vestiti in modo elegante con giacca e pantaloni grigi, camicia bianca, una cravatta rossa. Erano agenti in borghese. Lo si intuiva dal rigonfiamento nel taschino sul petto. Il distintivo non è facile da nascondere.
Strano, molto strano. Non erano venuti a controllare come stavo, per sincerarsi delle mie condizioni di salute, perché non li conoscevo affatto e non mi facevano alcuna domanda. Non potevano essere stati mandati da qualche collega. Non sarebbe stato un problema venire personalmente.
No. Ci doveva essere una ragione importante per cui si trovavano al mio capezzale. Uno dei due si alzò, per dirigersi verso il corridoio, non appena uscirono l'infermiera e il dottore. Per quanto potevo crederlo pazzesco questi agenti sembravano essere stati incaricati di proteggere il personale ospedaliero... da me. Ma come poteva un agente di Polizia essere pericoloso, ancorché convalescente per i postumi di un forte colpo alla nuca probabilmente inferto con un oggetto metallico. Forse il calcio di una pistola.
Non capivo nulla. Doveva essere capitato qualcosa di increscioso in quel vicolo per giustificare un simile trattamento. Qualcosa che mi riguardava profondamente, anche se ero stato svenuto fino a quando non avevo riaperto gli occhi in quel letto di ospedale.
Tanto più che non avevo ancora visto Maddie. Se fosse stata avvertita si sarebbe certamente precipitata a verificare il mio stato di salute. Per qualche strana ragione non sapeva del mio ricovero in ospedale o qualcuno le stava impedendo di vedermi. Poteva significare una cosa sola. Ero stato arrestato.
Cosa è successo? Chiesi ai due poliziotti. Mi guardarono sorpresi per alcuni istanti, poi, il più vecchio di loro rispose malvolentieri:
Tra South Archer e South Homan, dietro un’auto in sosta, abbiamo trovato il cadavere di John Derek e il suo corpo svenuto pochi metri più in là. Stava impugnando la pistola con cui è stato ucciso l’imprenditore che l’aveva accusata di corruzione. Mi fissò quasi schifato. Capirà… che la sua posizione è alquanto delicata.
Il suo collega prese la parola: siamo stati incaricati di sorvegliarla. E non ci dispiacerebbe vederla commettere qualche altra sciocchezza.
George lo ammonì seccato l’agente anziano. Volevo solo avvertirlo che se tenterà di fuggire ribatté il collega non ci faremo troppi scrupoli nei suoi confronti.
Ero perduto. Mi avevano incastrato uccidendo quel povero diavolo e poi colpendomi alla nuca. La mia situazione stava diventando sempre più drammatica. Ero solo e sorvegliato da una coppia di agenti bigotti e moralisti. Passai ventiquattro ore nel letto di ospedale meditando su come muovermi ma non mi venne in mente nulla che potessi fare per uscire da quella folle, incredibile situazione.
I due agenti mi fecero rivestire e, sempre senza togliermi gli occhi di dosso, mi scortarono per i corridoi dell’ospedale. Uscimmo e ad attenderci c’era una macchina con un’altra coppia di agenti. Nessuno fino ad allora mi aveva ancora ammanettato. Sapevo che nessuno lo avrebbe fatto. La speranza dei miei colleghi era che io tentassi la fuga. Questo avrebbe fornito loro l’occasione per usare la forza e quindi spararmi per finirmi e risolvere l’incresciosa situazione nella quale avevo messo il mio Dipartimento. Io ero innocente. Non avrei mai tentato la fuga in quel modo. Eppure sentivo che dovevo escogitare qualcosa.
Entrai nell’abitacolo dell’auto. I due agenti che mi avevano scortato entrarono nella propria e ci seguirono a breve distanza. Cominciammo a percorrere i diversi isolati che mi separavano dalla prigione. Tutti eravamo in attesa di un evento che in qualche modo soddisfacesse i nostri desideri. E fu proprio ciò che il destino ci riservò, con tutti i suoi macabri effetti collaterali.
Quando arrivammo quasi all’altezza di Lincoln Wood, tra Mc Cormick e la Lincoln, a un semaforo fummo affiancati da un’auto. L’agente che era alla guida abbassò il finestrino e disse: Polizia, stiamo trasportando una persona pericolosa. Vi preghiamo di scostarvi e di allontanarvi dalla vettura. I quattro occupanti della Cadillac che ci aveva affiancati sembrarono non dar troppo peso alle parole del poliziotto, il quale si spazientì.
Ho detto: Polizia, stiamo traspor… non fece in tempo a terminare la frase che una bomba lacrimogena venne lanciata contro la nostra auto ed entrò dal finestrino aperto. In una frazione di secondo fu il panico. L’abitacolo della nostra auto si trasformò in una enorme pentola a vapore. Uscimmo tutti e tre con gli occhi doloranti e i polmoni in fiamme. Sputammo e tossimmo mentre cercavamo di allontanarci dal fumo. I due agenti che avevamo alle spalle arrivarono velocemente sul luogo facendo stridere le gomme nella frenata. Era cominciato l’inferno.
Dall’auto che ci aveva affiancati e dal marciapiede scesero degli sconosciuti, armati fino ai denti, i quali si misero a sparare all’impazzata. Fu una carneficina. Potei scorgere il sangue dei poliziotti riversarsi sull’asfalto e rimbalzare sulle auto in coda o in sosta. I passanti, uditi i primi spari, cercarono di allontanarsi dal luogo correndo e urtandosi gli uni con gli altri. Dovunque mi sforzassi di guardare vedevo poliziotti e passanti cadere come mosche. Gli attentatori risero in un modo da far accapponare la pelle. Non si fecero scrupolo di mirare prima di tirare. Il loro obiettivo era il caos. I vetri e le carcasse delle auto furono crivellati di colpi. Negozi, attività commerciali, persino appartamenti, ogni essere vivente e ogni oggetto inanimato, nel raggio di una cinquantina di metri, fu bersagliato da una tempesta di proiettili e malridotto.
Quegli uomini non erano stati mandati da John Littletrees e non erano certamente poliziotti. Non eravamo nemmeno capitati in mezzo a una lotta tra bande di delinquenti. Chiunque avesse organizzato quella strage non aveva badato a spese e non aveva il benché minimo timore del clamore che stava suscitando. Rimaneva un’unica risposta alla domanda che mi stavo ponendo mentre ero ancora disteso in terra a pochi metri dalla strage.
Un pensiero terribile stava facendosi strada nella mia mente. Gli assassini erano venuti per me. Stavano inscenando una finta liberazione del loro compagno e le, ovvie, conseguenze della strage sarebbero state addossate a me. Con questa orribile consapevolezza e immaginando che sarei stato ucciso in ogni caso, in un secondo momento, mi alzai ignorando le grida, gli spari, i corpi stesi in terra, le miriadi di frammenti di metallo, vetri e calcinacci, che si trovavano in strada, e mi misi a correre, a scappare. Udii quasi subito le urla di quei pazzi omicidi. Quelli che dovevano essere i comandanti del gruppo ordinarono ad alcuni altri di inseguirmi e riacciuffarmi. Come avevo già immaginato ero io la causa di quella strage. E mi volevano vivo. Questo non mi fece sentire meglio perché ero certo che, se mi avessero preso, la mia vita sarebbe finita per mano loro.
Fuggii per i vicoli finché potei ma alla fine venni raggiunto. Due energumeni cominciarono a picchiarmi al volto e alla testa, ripetutamente e con violenza. Quando mi accasciai a terra, un terzo prese a colpirmi con dei calci all'altezza dello stomaco e dei fianchi. Cominciavo a diventare insensibile al dolore, a causa delle percosse che stavo ricevendo. I tre continuarono a picchiarmi per almeno un quarto d'ora.
Dopodiché, presero quel che restava del mio corpo dolorante e sanguinante e mi trascinarono per una ventina di metri, fino a che non raggiunsero una strada dove, pochi istanti più tardi, arrivò un quarto complice con un’auto. Mi infilarono nel bagagliaio come fossi stato un sacco di patate e si avviarono verso destinazione sconosciuta.
Non sentii più sparare ma non riuscii a distinguere se fosse per le percosse o perché gli assassini avevano deciso di interrompere la carneficina. Non avevo alcuna speranza di cavarmela. Questi individui sembrarono essere professionisti esperti e io non ero in condizione di cercare una via di fuga. Potevo solo sperare che mancasse ancora parecchio tempo prima dell’ora della mia esecuzione. Se mai mi fossi salvato, se mai avessi potuto tirarmi fuori da quella tragica situazione, sarebbe stato solo in un momento in cui il mio fisico si fosse rimesso dai traumi del selvaggio linciaggio che aveva subito.
Mi sentii sballottato. Le mie ossa e i miei muscoli urlavano dal dolore mentre mi trovavo rannicchiato, al buio del vano dell’auto. Dopo circa mezz'ora di viaggio si fermarono e aprirono il portellone del bagagliaio. Venni sollevato di peso e trascinato dentro un buio capannone. Qui mi legarono con delle manette a una sbarra di ferro.
Rimasi seduto in quella posizione per diverse ore. Mi addormentai. Quando mi risvegliai la temperatura si era notevolmente abbassata. Doveva essere sopraggiunta la notte. Cominciai a udire i primi suoni. Le mie orecchie stavano riprendendo a funzionare fino a riconoscere, chiaramente, il rumore provocato dalle pale di un elicottero che fendevano l’aria a poche decine di metri di distanza da dove mi trovavo. Un concitato vociare di diversi uomini fu il preludio all’apertura delle saracinesche di quella che, ora che anche i miei occhi cominciavano a scorgerla, doveva essere una vecchia fabbrica abbandonata. Venni nuovamente strattonato. Un ragazzo in giacca scura aprì con le chiavi le manette, me le sfilò dai polsi e mi prese per le spalle. Mi trascinò, senza tanti complimenti, verso l’esterno. Mentre ci stavamo avviando verso un gruppo di auto, voltai lo sguardo verso l’elicottero. Non riuscii a scorgere qualche indizio importante sull’identità delle persone che stavano salendovi sopra ma vidi che erano tre coloro che, per i capi di abbigliamento che indossavano, si distinguevano dai miei carcerieri.
Arrivati a una Chevrolet Epica beige, il giovane aprì il bagagliaio e, con una consuetudine a me ormai nota, mi ci scaraventò dentro. Dopo qualche minuto di un vociare concitato, l’auto e probabilmente anche le altre più vicine cominciarono a mettersi in moto e a far rombare i propri motori. Viaggiai sperando che mi venisse concessa la possibilità di riprendermi, così da poter vender cara la pelle, ma il viaggio durò solo pochi chilometri. Quando ci fermammo, i motori delle auto restarono accesi. Il gruppo si preparava a tornare indietro in breve tempo. Il bagagliaio si aprì e io venni afferrato da almeno tre paia di mani. Venni portato dentro l’abitacolo dell’auto. I miei carcerieri mi legarono al posto di guida, con la cintura di sicurezza, e spinsero la macchina, con il motore in folle, verso un piccolo dislivello. L'auto cominciò a prendere velocità. Probabilmente questa sarebbe stata la mia fine.
Dopo una ventina di metri circa mi ritrovai nel vuoto pronto a sfracellarmi chissà dove. Cominciai a pregare nei secondi che mi separavano dall'eterno oblio. Con sorpresa sentì un tonfo morbido e un improvviso calo della temperatura con rumori gorgheggianti giungere da ogni punto dell’auto. La mia istantanea conclusione fu che ero stato scaraventato nel Lago Michigan.
Con le mani e le braccia che pesavano come macigni, e il freddo pungente che intorpidiva ancor di più i miei muscoli, sfilai la cintura di sicurezza, poi, ponendomi di traverso tra i sedili, puntai con i piedi la portiera anteriore destra e spinsi più forte che potei con la schiena quella del lato del guidatore, mentre con le dita della mano sinistra facevo scattare il meccanismo di apertura.
La pressione era fortissima e il dolore lancinante ma complice la disperazione, al terzo tentativo, riuscii ad attuare il mio proposito e a lasciare l'abitacolo dell'auto che si inabissava sempre di più. Trattenendo il respiro, vincendo il dolore, la fatica e il freddo pungente, mi spinsi con i piedi e le braccia verso l'alto, verso la superficie.
Passarono lunghi e interminabili secondi in cui credevo di non farcela più. Poi sentii un leggero tonfo e l'aria premere delicatamente le mie narici. Non riuscivo nemmeno ad aprire gli occhi tumefatti per i colpi ricevuti e pressoché inutili dato che di notte sulle rive di quel tratto di acqua del lago non c'era alcuna luce. Nuotai faticosamente, cercando di capire se la corrente provenisse da uno dei fianchi o dalla schiena.
Dopo tre interminabili minuti mi accorsi che le mie mani afferravano qualcosa di solido.
Ero giunto sulla terraferma. Mi trascinai per alcuni metri lungo la scogliera, poi, abbandonato completamente dalle forze, mi arresi e persi conoscenza. (Tratto da Gateland).