Un uomo più sincero
La targhetta dell’infermiera diceva “Rossana”. Lui la chiamava sempre Dora, per via dei guizzanti boccoli rossicci che gli ricordavano la prima femmina con cui in un bordello aveva fatto l’amore.
“Dora, Dora, è ancora presto, stai ancora un altro po’” le diceva per ischerzo.
“Signor Bauer, lo sa che lei è proprio un mascalzone?”
Lo era. Aveva fatto della “mascalzonaggine” la sua dote migliore.
Quand’ero più piccolo, i miei genitori si erano raccomandati a lui, affinché mi lasciasse alla parrocchia di S. Croce, per il doposcuola.
“Sì, Mariuccia, non preoccuparti, alle quattro e mezza ce lo porto”.
Mi portava invece al campetto degli ulivi, a insegnarmi a calciare i rigori; al mercato di piazza Curo, dove comperai per pochi soldi da un rigattiere suo amico il pupazzo originale dell’Uomo Ragno, condito di accessori; oppure andavamo a mangiare i più buoni buccellati di tutta Catania, quelli della nonna Enna, e a bere una granita al cioccolato al chioschetto delle vergini.
“Perché non vieni a stare con noi?” una volta gli chiesi.
“No, no, molto meglio così”.
L’orario delle visite era inflessibile; due ore al giorno, dalle sei alle otto di sera, non più di due persone alla volta, e niente sconti.
Nel suo caso non c’era rischio di andare contro i regolamenti; le sue visite eravamo sempre noi, io e Gabriele, la mia pesticella di tre anni.
Facevo picchiettare Gabriele alla sua porta, tenendolo in orizzontale per le gambe, come se stesse svolazzando;
“Oh, l’angelo Gabriele qui da me! Chi ti manda angioletto?”
“Papammio!” gli annunciava Lele fra i sorrisi.
Avevo lasciato a mio padre una ventina di messaggi in segreteria. Niente.
“Il nonno sta molto male; vieni su a Padova. Ti vengo a prendere alla stazione”.
“Cosa dovrei pensare di te? Non puoi arrivare a tanto; richiamami”.
Del mutismo di mio padre, facevano parte un ciglio obliquamente calato, la fronte rigida, le mani che mi piazzavano la “scoppola” per una domanda inopportuna; allora mi pareva d’averli tutti dinanzi, che volevano dirmi una sola cosa; smettila, è tempo perso.
“Il signor Bauer non è nella sua stanza”.
“Come? Allora… perché non mi avete chiamato!”
“Si calmi; è di sotto nel cortiletto con l’infermiera; fa un giro in carrozzella”.
Era la sua “Dora”, c’era da scommetterci.
L’ho aspettato per circa un’ora nella sua camera; tornato, aveva le guance infiammate e un’aria più sbarazzina.
“Nonno, ti ha fatto bene la passeggiata?” gli feci maliziosamente.
“Oh, non sai quanto!”
L’indomani ero al suo capezzale. Non gemeva, non dava alcun segno particolare.
“Vittorio, non biasimo tuo padre. A molta gente non sono piaciuto”.
“Piaci a me nonno, e anche a Gabriele”.
Mi ha raccontato in pochi scampoli quello che in tanti anni non avevo neppure immaginato: iscrittosi alla massoneria, ottenne “per amicizia” un impiego municipale, destinato per procura a un amico ex‐attendente che di lì a poco si sarebbe ucciso.
Non era vero che aveva fatto la Resistenza; era stato mandato in Spagna ad appoggiare le truppe di Franco e si era stabilito lì, sotto false generalità.
Era tornato negli anni Sessanta, si era sposato con mia nonna, ma soltanto perché era ricca.
“Muoio come un vigliacco. Mi è mancato essere un uomo più sincero.”
“Nonno, vorresti venire a stare con noi?”
“Sì, grazie, ne sarei felice”.