Una cosa a quattro (il mago di...Azz) - prima parte
A Monicelli Mario, regista toscano (Viareggio, Lucca, 1915‐ Roma, 2010), spirito libero del cinema e uomo
dotato di tre fondamentali doti, sempre più rare al mondo: sarcasmo, ironia e auto ironia.
Il mio amico Alfredo (come me) toscanaccio dalla battuta sempre a tiro (e dall'uccello sempre in resta, per usare termine di ma...eufemisticamente marinaresco), aveva successo con le donne sin da età adolescenziale a causa (o per via) della sua loquace brillantezza, appunto, nonché della sua verve caratteriale. Era sempre stato estremamente simpatico alle rappresentanti del gentil sesso (un vero "tombeur des femmes", lo avrebbero senza dubbio alcuno etichettato i francesi), oltre che arr...arrapato perenne (proprio come i ghiacci dell'Alaska o del Polo Nord, quelli in Siberia o di alcune zone della Patagonia, nell'emisfero sud, i quali non si sciolgono neanche in estate). E' tuttavia da dire come le due cose (la peculiarità del carattere di Alfredo e quella fisiologica) non siano sistematicamente da intendersi sincrone o all'unisono l'una con l'altra: ovvero, non è al cento per cento sicuro che siano conseguenziali tra loro. Per capire di cosa stia parlando, mi permetto di esibire il seguente paragone che ritengo calzi a pennello: avete presente cosa succede colle slot‐machines quando qualcuno (disgraziatamente) riesce a vincere qualcosa? (Pure mi domando se questo accada soltanto nei famosi mega hotel‐palace di Las Vegas, negli States, con annesso casinò al seguito, o nelle pellicole cinematografiche hollywoodiane, appunto? Booh! è la risposta che riesco a dar...lasciam perdere, allora: credo sia molto meglio!). Ebbene, in quel malaugurato (o disgraziato) caso sulle finestrelle della slot poste in alto, compaiono i simboli tutti uguali (tre o quattro, a seconda delle dimensioni stesse della slot) a testimoniare l'avvenuta vincita. Al fortunato vincitore, dopo di che, altro non resta così che chinarsi a prelevare le monetine fuoriuscite da una fessura della slot posta in basso: genericamente quelle sono abbastanza ma mai così tante da non poterle trasportare colle proprie mani. Alcune volte, però, accade (casi algoritmicamente remotissimi, questi, e di cui neanche il Guinness dei Primati potrebbe tener conto, a mio avviso) che non basti la vanga a raccoglierle ma... servirebbe invece un vero e proprio vagone ferroviario per prelevarle e trasportarle altrove (magari, chissà, in una banca svizzera, degli Emirati Arabi o di Israele, il quale non a caso vien definito stato "cassaforte", anche se per ben altri motivi). I simboli che appaiono sulle finestrelle di cui sopra sono in genere frutti, fiori, animali, oggetti vari oppure il simbolo del denaro (una esse con due strisce verticali che la attraversano per intero), vale a dire sua maestà re Guglielmo...il dollaro, cioè la moneta per eccellenza nonché quella che più di ogni altra in tutto il globo terracqueo lo sta a simboleggiare (ed anche su Marte e dintorni, a onor del vero, visto che nel caso in cui vi fossero andati dei terrestri e ivi incontrato degli alieni...dei marziani in giacca e cravatta, avrebbero senza dubbio alcuno pagato a suon di bei dollaroni verdissimi!): essi, appunto, attestano l'avvenuta vincita. Ebbene, Alfredo, al posto del simbolo del denaro (o del dollaro, o di qualsivoglia d'altro) portava invece negli occhi sempre fissi (e luccicanti pure come stelle) ben altri simboli: quello di due grosse e tonde tette e di un culo di donna, sodo ed altrettanto tondo. Meglio sarebbe dire, però, che oltre che negli occhi quei simboli, lui li portava scritti sempre in testa: è per questo, probabilmente, ch'era tanto simpatico e tanto arrapato. Magari, chissà, qualcuno pur potrebbe asserire che si trattasse di un bell'esemplare di filibustiere...figlio di puttana; ma era fatto così, il povero Alfredo, volenti o meno, e vedeva tette e culi, beato lui, dappertutto: diciamo, allora, che vedeva del buono ovunque ed in ogni persona, soprattutto in quelle con la passera stampata davanti. Accadde una volta, in estate, mentre mi trovavo nella mia villetta al mare (a dire il vero essa era per metà mia, per l'altra di mio fratello Antonio), che lui venne a trovarmi per propormi una cosa di cui rammento. In estate, infatti, solevo trascorrere le vacanze al mare insieme a mio fratello ed alla sua famiglia (alcuni preferirebbero usassi le parole "in combutta" ma è meglio non sottilizzare!). Antonio ha tre figli (un maschio e due femmine), oggi cresciutelli e sistemati anch'essi, all'epoca del "fattaccio" poco più che pischelletti (o putei) imberbi. La villetta, si intende, non era nulla di speciale: una semplice costruzione di 220 metri quadri a due piani, compreso un piccolo giardino con qualche albero piantato di pino domestico. Essa era posta sulla litoranea, appena qualche chilometro fuori dal centro abitato, Castiglione della Pescaia, il quale, a sua volta, si trova ben vicino alla Marina di Grosseto ed al Parco Regionale della Maremma, a nord; a Punta Ala a sud, in posizione nord‐ovest rispetto al capoluogo, Grosseto, lungo la famigerata statale 322; lo era per due motivi: in primis perché spesso, durante la bella stagione, vi si creavano, in diversi punti e non solo in orari serali o notturni, ingorghi paurosi di macchine e camion con coppiette alla ricerca della assoluta felici...intimità; in secundis, perché vi razzolavano battone e checche di ogni ordine e gra...eterogenee e in cerca, anch'esse, della felicità ma a pagamento. In paese, per circa tre lustri, si narrò (nessuno, però, ha mai saputo se si trattasse di verità o di leggenda metropolitana) la storia tramandata dai netturbini Aurelio Gini e Diocleziano Bonci, i quali affermavano che una mattina di settembre, nella pineta del Tombolo, poco fuori l'abitato, sulla statale, avessero raccolto la bellezza di tremiladuecentoquattro preservativi: l'eccezionalità della storia sta nel quantitativo di preservativi (presumibilmente) raccolti ma anche nel fatto che fossero stati trovati tutti privi di un pur piccolo forellino (cosa davvero, davvero incredibile!). La buon costume del capoluogo non era mai in grado di gestire in meglio la situazione e chiedeva sovente aiuto alle sezioni di Pisa e di Firenze. Noi tutti chiamavamo la nostra villetta (ironicamente e in onore di un vecchio regista di Hollywood) "Stalag 17", e in paese (con altrettanta ironia ed in onore, probabilmente, di un'altro grande regista, però russo) ci definivano quelli della "Potemkin"; prossimi ad essa erano una pinetina ed un canneto, superato il quale ci si immette dritti dritti su una spiaggetta ("Sun Beach", chiamano il posto ancor oggi, in paese) e si parano innanzi, agli occhi di chi guarda ed in tutto il loro magico splendore, in rapida successione, il mar Tirreno, carico del suo blu intenso, l'arcigno Arcipelago Toscano e più lontano ancora la misteriosa isola d'Elba. Oggidì la villetta non appartiene più a noi: io e mio fratello, infatti, la vendemmo qualche anno dopo il racconto di cui scrivo a causa di una delle tante tempeste che accaddero alla nostra famiglia e imperversarono sulle nostre esistenze (ma quelle sono tipiche della vita di ognuno, di ogni famiglia che si rispetti e non sono prerogativa e dominio assoluto soltanto di noi Vannucci). Mio fratello ha lasciato il paese dopo la morte della moglie (mia cognata), la quale avvenne in un fatale incidente in barca, per trasferirsi in Corsica dove in seguito aprì un circolo di tavole a vela che li da di che vivere attualmente. L'espatrio di mio fratello avvenne a malincuore, oltre che con la morte nel cuore. Io, invece, oggi vivo dove vivevo allora, nel posto cioé in cui sono nato sessantadue anni addietro. Quell'anno, quella estate di tanti anni fa ‐ per fortuna, è da dire, alla luce di come proseguirono le cose ‐ mio fratello decise di recarsi in trasferta per una intiera settimana, insieme alla moglie ed ai figli: la classica crociera ai Caraibi, per sedare la voglia di esotico repressa in ognuno; dicasi pure, nella fattispecie di Antonio, "far fronte" allo sghiribizzo della consorte il quale da diverse stagioni pendeva, oramai, sugli incolpevoli suoi coglioni...sulla testa sua, o sul capo, tal quale ad un pesantissimo pendaglio da forca. Mi ritrovai, a quel modo, ad esser solo e soletto proprio nel frangente topico della stagione estiva oltre che il più vacanziero e ad avere, ordunque, tutta quanta per me a disposizione la villetta e la pinetina adiacente ad essa: quest'ultima, infatti, pur non appartenendo a noi, è raramente frequentata da turisti di passaggio, al pari della spiaggetta vicina, dagli abitanti del paese o da coppiette automunite in cerca della felici...di intimità. Mi sono sovente e volentieri chiesto, nel corso del tempo, se (e se si, come?) Alfredo fosse a conoscenza della mia libera "uscita", ossia del fatto che la nostra villetta (mia e di Antonio) sarebbe stata a mia completa disposizione per una intera settimana, proprio in agosto: non sono mai riuscito a darmi risposta alcuna, sebbene le coincidenze avessero davvero dell'incredibile. Erano appena scoccate le due di un torrido pomeriggio (le quattordici pomeridiane, invero, per i puristi, o p. m. ‐ che non sta per post‐mortem, come qualcuno potrebbe intendere senza volere ‐ e son soliti indicare i sudditi della regina d'Inghilterra e gli anglosassoni in genere) ed io, che da pochi minuti avevo consumato frugale pasto a base di yogurt allo zenzero, frutta e formaggio, ed ero tutto bello e spaparanzato sopra il divano nel soggiorno al piano superiore, pronto ad intrapendere la mia dolce siesta o pennica estiva, venni letteralmente scosso e quasi sbalzato per terra da tre squilli del citofono esterno: non sapevo chi fosse, ovviamente, l'autore colpevole dell'accaduto, ma degli squilli cotanto forti, i quali avevano all'improvviso squarciato il silenzio dell'ameno luogo e, soprattutto, profondamente turbato i miei incolpevoli timpani, non li avevo uditi mai. Mi sollevai, così, faticosamente dal divano, bestemmiando più volte tra peste e corna (lo feci usando alcuni intercalari tipici della parlata maremmana, di cui è meglio non parla...dir nulla!) e mi recai sul balcone che si affaccia in stradina. Scorsi, allora, e con profonda sorpresa nonché disappunto estremo, la inconfondibile sagoma di Alfredo, mio miglior amico: egli era in basso, ad attendere con nonchalance ed il ghigno beffardo, strafottente, canzonatorio e goliardico che portava perennemente stampato sul volto. Il mio disappunto, però, non traeva origine dal fatto che fosse stato proprio lui a suonare (altre volte, infatti, Alfredo era venuto a trovarmi in estate alla villa), bensì dall'ora insolita e, soprattutto, dal modo in cui aveva suonato al citofono: mai, infatti, lo aveva fatto con tanta cura...intensità, prima di quel pomeriggio, tutte le volte che veniva a trovarci, a casa in paese o al mare; una maniera insolitamente "squillante", debbo dire, come a voler preannunciare, chissà, qualcosa di eccezionalmente importante.
‐ Cavolo! ‐ Li dissi, urlando non poco. ‐ Ti rendi conto dell'ora in cui siamo? Hai deciso mica di rompere il citofono, suonando a quel modo? E i miei timpani, pensi siano rivestiti di gomma o di acciaio isolante? Non capisco davvero cosa mai ci possa essere di così importante da dirmi alle due del pomeriggio!
‐ Una cosa a quattro! Ho per le mani una cosa a quattro! ‐ rispose Alfredo, senza farsi pregare né dire null'altro. (Lui era così: immediato e senza peli sulla lingua; in quanto alla zona pubica, non ci giurerei, perché...mai saputo se la portasse al naturale o rasata né ebbi l'esigenza, del resto, durante la nostra lunga conoscenza, di constatarlo de visu!).
‐ Ma di cosa parli? ‐ chiesi io, ancora. ‐ Vuoi mica fare una partita a poker? Ti sovviene, magari solo un pò, che siamo quasi a ferragosto e no sotto le feste di Natale? Sai che lo odio, il poker! Mi sa che devi averla presa proprio brutta l'insolazione! (casualmente, quell'estate, era stata la più calda che si ricordasse negli ultimi trenta e passa anni, in agosto, in Maremma: le temperature, allora, sfiorarono spesso i quarantadue gradi e neanche la brezza marina, proveniente dalla Sardegna e dalla Corsica, riusciva ad alleviare la calura). ‐ In verità, Alfredo lo sapeva che odiassi il poker; è da aggiungere anche quanto io odiassi non solo quello ma tutti (quando scrivo così intendo proprio così, no diversamente!) i giuochi di carte e di società, come la roulette, il monopoli, la tombola, il tombolone ed affini...forse, chissà, le uniche simpatiche mi sarebbero state proprio le slot, se avessi avuto modo ‐ in vita mia ‐ di averne sottomano qualcuna, in qualche modo, e perderci un pò di soldini.
‐ No! ‐ seccamente mi rispose e con la verve che lo contraddistingueva ribatté: ‐ te sei grullo per intero! ‐ mentre proferiva questa frase (più che una frase, tuttavia, essa suonava più che altro come impietosa e fredda sentenza!), Alfredo si batté l'indice della sua mano destra sulla tempia tre volte, dopo di che ancora disse:
‐ Parlo di una cosa a quattro tra me, te e tre donne. Allora, dimmi, ci stai? Si o no?
‐ Ahhhh! Va bene! ‐ esclamai. ‐ Mi sembrava d'aver inteso male (era davvero così, del resto: non dissi tanto per dire ma perché effettivamente mai e poi mai avrei potuto immaginare tale cosa, pur conoscendo le doti del mio amico in fatto di donne). Chiamani domani e ti fò sapere. Ma ora, dai, lasciami riposare. Ci sentiamo domani per telefono. ‐ Alfredo, dopo aver ascoltato le mie parole disse:
‐ D'accordo! Come vuoi tu! Ci sentiamo domani, Sandrokan! (lui e tutti i miei amici in paese mi chiamavano a quel modo: un mix e una via di mezzo tra il mio nome di battesimo, Sandro, e quello di Sandokan, la famosa tigre della Malesia e personaggio della saga dei racconti d'avventura di Emilio Salgari, autore mio prediletto). ‐ Mi raccomando, però, decidi e fallo per il meglio! ‐ Alfredo, ahilui!, mi conosceva molto bene (del resto eravamo amici sin dalle elementari, frequentate insieme alla scuola del XII°circolo intitolata col nome di "Otello Carraresi", sindaco di Castiglione dal 1953 al 1961 e nel biennio 1977‐78, sita nei pressi dell'albergo "Luxor" e del cinema‐teatro "Alhambra", dove si andavano a vedere gli spogliarelli delle donnine francesi e le performances da cafè chantant ed ante litteram dei travestiti); sapeva infatti quali fossero le mie principali peculiarità caratteriali: la eterna indecisione e l'insicurezza, mentre lui era agli antipodi da me essendo un tipo essenzialmente deciso e risoluto. Ci salutammo, così, e ci congedammo dopo le ultime parole di Alfredo: lui andò via, in macchina, io rientrai in soggiorno. Mentre rientravo blaterai, tra me e me, alcune frasi: ‐ Boia d'un mondo! Alfredo ne sa una più del dia...di Alain Delon e Giacomo Casanova messi assieme! ‐ Una volta sdraiatomi sul divano, prima di appisolarmi mi sovvenne la sua agendina "rosso special" che una volta mi mostrò egli stesso e che gelosamente custodiva come fosse una vera e propria preziosità: così la chiamava in onore di una Lamborghini rossa (le auto veloci erano una passione di Alfredo, secondaria rispetto all'altra, quella per le belle donne, ma notevole anch'essa), regalata da un lontano parente a suo figlio e che lui era riuscito a guidare, non si sa come né per volere di chi. Quella agendina era piena di nomi e numeri di donne tanto che...da sembrare quella del Presidente degli Stati Uniti o del Premier russo. Invece, io, ahimé! A quel tempo (ma oggi debbo onestamente dire come non sia cambiato granché da allora!) avevo un numero soltanto di donna: quello di Giovanna, anziana addetta alle pulizie nell'agenzia funebre "Quì tutti uguali", vicino casa, in paese. Il giorno dopo puntualmente Alfredo mi telefonò, come insieme avevamo concordato. ‐ Cosa hai deciso? ‐ Mi chiese seccamente, senza neanche concedermi il tempo di proferire una acca, al momento in cui sollevai la cornetta e la poggiai sul mio orecchio sinistro.
‐ Ci sto! ‐ risposi io, altrettanto deciso.
‐ Bene! ‐ replicò Alfredo. ‐ E la prima volta, da quando ti conosco, che prendi una decisione tanto presto; debbo dedurre che tu non sia tutto quanto grullo come pensavo...probabilmente vi é anche della saggia insanità in te! Ci vediamo tra quattro giorni, alla mezza, in pinetina. ‐ Aveva ragione da vendere, il mio amico; anzi, c'é "l'aveva proprio da matti", come recita un intercalare delle nostre parti. Sono sempre stato un indeciso cronico, ma la mia indecisione, a volte, rasentava la parossistica assurdità: capitava, infatti, che non riuscissi a decidere se il giorno dopo avrei dovuto mangiare in bianco oppure più piccante, figurarsi se dovevo farlo in tema di...su una cosa a quattro, con tre donne insieme. Ero meravigliato (lo ero molto, direi), io stesso (dentro di me), della immediatezza mostrata in quell'occasione: ero stato deciso come non mai, prima di allora. Dopo aver proferito le sue ultime parole, Alfredo chiuse il telefono, senza altro aggiungere né darmi, anche questa volta, possibilità di replicare o salutarlo. Dopo neanche un minuto, però, sentii nuovamente squillare il telefono per tre volte di seguito. Andai di corsa a rispondere e, non appena ebbi sollevata la cornetta, la voce di Alfredo aggredì il mio povero orecchio come un vero e proprio tuono:
‐ Ehi, grullo! Non darti pena che i preservativi li porto io! ‐ Dopo queste parole, richiuse. Io, allora, ad alta voce dissi a me stesso, mentre mi specchiavo, contemporaneamente, nello specchio a muro posto sopra la mensola su cui poggiava il telefono:
‐ Che gran figlio di puttana! ‐ Scherzi a parte, comunque, è da aggiungere quanto segue: non avevo mai usato, sino ad allora, né mai lo farò dopo quella volta, il preservativo...facendo l'amore preferivo farlo nature, perché una volta infilato quello strano involucro lattiginoso il mio pisello diventava più moscio d'un cuscino imbottito di piume! L'incontro campale (o la cosa "a quattro", come la chiamò Alfredo) era previsto per il successivo sabato. Il mio amico, come al solito, giunse puntuale: spaccava le lancette dell'orologio al secondo oltre che i marroni, a volte (no quelli di Marradi, che pure sono belli grossi...mi riferisco proprio ai testicoli posti sotto il pene di ogni uomo e di molte trans). Arrivò in groppa (non era una moto ma per lui lo era, visto come la guidava: mi sembrò di vedere, quando arrivò alla villetta, Peter Fonda sulla sua Harley‐Davidson choppata, in "Easy Rider"!) alla sua "Dyane 6" della Citroen, color verde pisello, decappottabile e col tetto apribile: c'è l'aveva da più di dieci anni, oramai, da quando, cioé, il padre gliela regalò per festeggiare la maturità liceale. Egli la custodiva come fosse una reliquia, al pari della sua rosso‐special. Ne aveva viste di cose, quella vettura, sopportato su e giù a iosa e leggendari andirivieni. Soprattutto, però, possedeva sospensioni a prova di bom...sesso! Mi venne a mente, in quell'attimo breve ma allo stesso tempo interminabile (come fosse un lampo, un flash‐back luminoso), di quella volta in cui, io e Alfredo, ci mettemmo in viaggio ed arrivammo sino a Copenhagen, in Danimarca, a bordo della sua Dyane: Alfredo aveva conosciuto una ragazza del luogo, Krystel, attraverso un club di pen‐pals (amici di penna, tanto per intenderci) e volle conoscerla ed incontrarla di persona. Qualche ora soltanto ma ci costò tan...una scarrozzata della durata di oltre venti ore per percorrere più di 1500 chilometri, dop'aver passato il confine svizzero ed attraversato la Germania tutta intera. Un'altra volta, invece, insieme ad una sua particolare amica (un travestito che si chiamava Milù, a cui era affezionato, con cui ebbe una storia d'amore intensa ma travagliata ed il quale tragicamente morì di overdose alcuni anni dopo) fece una cosa, Alfredo, che sembrava quasi impossibile per chiunque altro: girò l'Europa, in lungo e largo, per tre mesi di fila. Alfredo non disdegnò mai, infatti, imprese pazze né, tanto meno, capatine e divagazioni nel mondo dei diversi e degli "strani", nella trasgressione e nel travestitismo. Non appena ebbe posteggiato l'auto nei pressi della villetta, saltò fuori dal posto di guida che sembrava un grillo, poi aprì lo sportello opposto e (così) saltaron fuori tre ragazze bellissime, una dopo l'altra. Non appena le vidi esclamai:
‐ Dove hai trovato queste meraviglie? ‐ Non dissi mai nulla ad Alfredo, ma nel momento in cui le tre ragazze eran saltate fuori dalla macchina, la sua Dyane verde mi era parsa essere il cappello a cilindro di un mago, dal quale invece che conigli venivan fuori belle donne.
‐ Dalle parti della Val Brembana! ‐ fece lui, ‐ o a Katmandu, chissà! ‐ dopo di che scoppiò in una grossa risata; un attimo soltanto, ma si riebbe subito e disse:
‐ Lo sai, vero? Sono un mago in fatto di donne! ‐ Le ragazze non erano certo dei luoghi nominati da Alfredo, anzi, erano invece fiole, struffelle delle nostre parti, con tanto di certificazione d'oc apposta sul culo di ognuna ad attestarne la prove...l'autenticità, tuttavia egli aveva usato la frase giusta al momento giusto: con lui, che ci si creda o meno, in fatto di donne si era...andavi sempre sul sicuro, per davvero. Io ero sempre stato, invece, una frana completa, irrimediabilmente sfigato cronico e...lasciamo perdere. Le tre ragazze le aveva conosciute ad un party per scambisti nei pressi di Firenze, settimane addietro: Micky, Francie e Ramona. Dissi ad Alfredo:
‐ Beh, allora ti chiamerò il mago di...Azz, d'ora in avanti! ‐ (nessuno dei due, però, poteva mai immaginare che quella sarebbe stata la prima e l'unica volta che l'avrei fatto!). Lui, allora, mi guardò senza dir nulla ma sorrise. Micky e Francie erano due lesbiche: la prima bionda, l'altra invece mora cogli occhi verde smeraldo; Ramona era una trans coi capelli ramati naturali. Micky e Francie erano amanti da alcuni anni (me lo rivelò Alfredo poco prima di cominciare...d'aprire le danze, ma la cosa non mi provocò alcun sussulto), mentre Ramona aveva scelto il "terzo" sesso sin da ragazzino, quando si accorse di non voler essere quello che era e decise di voler dare culo e pisello contemporaneamente, a destra come a manca. Aveva un bel corpicino (da controfiocchi, direi), invidiabile da moltissime etero: tette, culo e...pisello ben messi; ma anche le altre due non erano da meno, ovviamente. Alfredo, insieme a Ramona e a Francie, si avviò verso la spiaggetta. Io, invece, mi avvicinai a Micky e li diedi un bacio sulla guancia sinistra. Lei mi sorrise (fu uno di quei sorrisi belli, tanto da sembrare a ottantadue denti piuttosto che a trentadue!) e capii così che li piacevo. Dopo averla baciata la presi per mano e ci spostammo verso un albero al centro della pinetina. Indossava un vestito blu, se lo tolse in fretta e lo buttò per terra: aveva incarnato chiarissimo, su cui risaltava il disegno d'una piccola farfalla arcobaleno tatuata sulla scapola sinistra. I suoi seni erano turgidi e piccolissimi, immediatamente lo notai: essi sembravano due bigné alla crema, simili a quelli che mangiavamo di domenica o nei festivi, durante il pranzo in famiglia. Nostro padre Saverio, infatti, gestiva in paese un piccolo laboratorio artigianale di pasticceria e noi eravamo cresciuti a suon di peste e cor...croissants al cioccolato, cassatine e bigné, appunto. Non aveva reggiseno, Micky, portava invece un tanga bianco sottilissimo, quasi invisibile: glielo sfilai di scatto, in maniera alquanto istintiva, ma anche arrapante e voluttuosa; inoltre usando la stessa identica foga con cui si era lei tolta di dosso il vestito, poco prima. Dopo averlo fatto (non mi ero neanche accorto che il tanga, a causa del mio impulsivo gesto, s'era strappato) lo buttai per aria e quello, ricadendo si adagiò per terra ai piedi di un'altro albero (sembrava una foglia mor...strappata). La ragazza, nel frattempo, aveva poggiato entrambe le mani sul tronco dell'albero posto innanzi a sé e cominciò a dimenare il (suo) culo in maniera frenetica e sensuale, dapprima in avanti eppoi all'indietro, roteandolo contemporaneamente in modo che sembrava una trottola. Micky aveva proprio voglia di me, di essere penetrata per bene dal mio membro.