Una Epifania particolare
Quando ero piccola vivevo in una grande casa dove l'unico riscaldamento era dato da una stufa strategicamente posizionata in una zona dell'ingresso che avrebbe dovuto consentire una buona distribuzione del tepore anche al piano superiore. Però questo sarebbe stato pretendere troppo poichè gli inverni erano molto rigidi e le nevicate abbondanti e frequenti. Faceva così freddo che io avevo preso l'abitudine, al mattino, di vestirmi sotto le coperte prima di alzarmi dal letto. Ci fu un anno, dovevo avere otto o nove anni, in cui il freddo fu veramente eccezionale. Ricordo i miei fratelli che spalavano la neve dal vialetto davanti casa ed io che, per uscire ed entrare, passavo fra due pareti di neve che erano alte come me. Certo allora lo trovavo divertente, non rendendomi conto dei problemi che la neve causava a chi doveva muoversi per lo svolgimento della vita di tutti i giorni. La neve aveva coperto i prati intorno a casa mia ed io mi divertivo a camminare, anzi ad affondare i piedi e le gambe nella coltre di un bianco incontaminato che si perdeva a vista d'occhio.
"Torna qui" gridava mia madre "che ti prendi un malanno!" Ma io non ci pensavo neppure a darle retta, e così quando finalmente tornavo in casa, dovevo essere spogliata di scarponcini calzettoni e quanto di altro ero riuscita a infradiciare, e il tutto veniva posizionato, non senza brontolii, accanto alla stufa affinchè si asciugasse.
"Menomale che queste vacanze di Natale sono finite! Devi ubbidire quando ti chiamo! Possibile che non si sappia mai dove sei?"
La mamma era davvero adirata e io intuivo che era arrivato il momento di stare zitta e di farmi piccola piccola. Nel frattempo lei mi aveva sollevata di peso e seduta su una sedia vicino alla stufa: anch'io dovevo essere asciugata, e mentre mi "strigliava" dappertutto con un asciugamano, lasciandomi quasi senza respiro visto che la delicatezza non era certo da lei, scuoteva la testa contrariata:
"Guarda qui come ti sei ridotta! Adesso ti devo pettinare!"
"NO, il pettine no!!" Ora sì che sarebbe arrivato il peggio. Io avevo i capelli lunghi, tanti e robusti, e quando mia madre prendeva il pettine sapevo che la tortura era assicurata. Sia che mi facesse le trecce, sia che decidesse per la coda di cavallo, quando infilava il pettine nei miei capelli procedeva come una schiacciasassi, per niente preoccupata di fermarsi quando i nodi di capelli aggrovigliati cercavano di sbarrarle la strada. Nulla le resisteva e certamente non la intenerivano i miei continui "Ahia! Ahi! Ahia! Mi fai male!"
"Ma che male e male, dai che ho finito!" Quando finalmente aveva davvero finito io per un po' avevo il torcicollo, e lei faceva un bel sospirone di sollievo e se ne andava soddisfatta. Così anche quel pomeriggio superai la tortura e me ne rimasi seduta sulla sedia dondolando le gambe avanti e indietro, e sognando i capelli corti. Mi annoiavo, ma non potevo fare altro che aspettare. Da dove ero seduta potevo vedere l'albero di Natale,vero ed alto fino al soffitto, ed ormai quasi completamente spoglio. Soldi non ce n'erano molti ai tempi, e così l'albero veniva addobbato anche con mandarini, monete di cioccolato e altri dolcetti vari, tutte goloserie che io cominciavo a razziare da subito.Quando ero sola in casa, armata di sedia o sgabello, a seconda della necessità, inziavo dalle leccornìe più nascoste internamente fra i rami in modo che nessuno se ne accorgesse, correndo poi a mangiarmele in santa pace nascosta nell'angolo più lontano dell'orto. Ma col passare dei giorni, ruba oggi ruba domani, l'albero ormai era spoglio e, in considerazione del fatto che lui non faceva certo la spia e nessuno mi diceva niente, oggi penso che tutta la famiglia sapesse, ma tutti facessero finta di niente, anche perchè i miei fratelli e mia sorella erano già ragazzi....e la piccola ero io!
Pensavo quel giorno, guardando l'albero, che ormai era il cinque gennaio e l'indomani sarebbe stata l'epifanìa: ultimo giorno di vacanza. Il sette gennaio si tornava a scuola. Che tristezza! Certo la scuola non era la mia passione!
Mia madre si stava dando un gran dafare, daltronde eravamo in otto, per preparare il pranzo dell'epifanìa, festa da lei particolarmente sentita a causa della sua origine toscana. Profumi di ragù e di arrosto transitavano sotto il mio naso, ma il profumo che preferivo era quello dei bomboloni: ciambelle che lei impastava e friggeva in abbondanza e che erano una vera delizia, anche perchè, dopo aver posizionato il vassoio coi bomboloni caldi in mezzo al tavolo della cucina, non se ne occupava più, e ognuno poteva mangiarne quanti ne voleva: "ognuno" ero io!! che naturalmente bazzicavo sempre dalle parti della cucina.
Venne la sera del cinque gennaio ed ero molto agitata perchè il mattino dopo avrei trovato i doni che la Befana mi avrebbe lasciato nella notte sotto l'albero. Non era facile addormentarsi con tale ansia, ma era fuor di dubbio che prima mi fossi addormentata, prima sarebbe arrivato il mattino seguente. E il mattino seguente arrivò: non ricordo quali fossero i regali proprio di quell anno: di solito erano giocattoli ma anche sempre un libro per ragazzi o anche due, che mia sorella si preoccupava di regalarmi: e, come ho già detto diverse volte, non la ringrazierò mai abbastanza per avermi dato la possibilità di leggere tanti libri!
Ma quello doveva essere un giorno dell'epifanìa molto speciale, segnato da un piccolo "giallo" che ora vi racconto.
Erano forse le undici del mattino e tutta la famiglia era in fermento: solo la cucina era disabitata e silenziosa. Pentole e tegamini stazionavano sui fornelli spenti, ma col cibo pronto già cotto.Anche il pentolone con l'acqua per far cuocere i ravioli era già posizionato sul fornello più grande, e sulla credenza, bene allineati su una tavola di legno costruita appositamente da mio papà che si dilettava con lavori di falegnameria, un gran numero di ravioli freschi fatti in casa riposavano sotto un telo di lino, in attesa di essere cotti. Che meraviglia...e che profumi! Mia sorella e i miei fratelli stavano finendo di vestirsi, e naturalmente, discutevano rumorosamente per la conquista dell'abbigliamento più in buone condizioni. Mio padre era andato in pasticceria a comperare le paste fresche. Ma cosa c'era di strano? Non riuscivo a stabilire cosa ci fosse di strano, fino a quando all'improvviso mi resi conto: mia madre non c'era. Non era in cucina, nè in sala e neppure al piano di sopra. Corsi fuori a guardare nell'orto, ma non era nemmeno lì.
"La mamma, avete visto la mamma? Dov'è la mamma?"
"Ma non so, sarà in bagno!" i miei fratelli non mi davano retta.
"No, non c'è da nessuna parte! Non c'è!"
"Ma va! Figurati! Dove vuoi che sia!"
Però mia sorella cominciò a cercarla, e la mamma...non c'era.
Nel frattempo tornò mio padre con un grosso cabaret di paste e non gli fu dato neppure il tempo di posarlo sul tavolo.
"Papà, la mamma non è in casa, non è in casa!"
L'agitazione era tanta anche perchè mia madre non usciva mai, ma proprio mai, figuriamoci poi la mattina dell'epifanìa con tutti noi da mettere a tavola. Così quando sentimmo una voce dire" Permesso...si può" nell'ingresso, in un attimo fummo tutti lì: era la vicina, la signora Lena:
"Ha visto mia mamma?" parlammo quasi tutti contemporaneamente.
"Sì, l'ho vista, sarà un'ora fa, stava attraversando il prato per dirigersi verso la stradina che porta alla cascina. L'ho chiamata ma non mi ha sentita. Aveva una grossa borsa, sembrava pesante da come la portava."
Ci guardammo tutti, mio padre e noi, mentre già ci mettevamo scarponcini e cappotti per andare a cercarla.
Intanto la vicina era stata dimenticata nell'ingresso.
"Scusate, scusate...volevo solo chiedere se avete un bicchiere di sale grosso. Sono rimasta senza ..e oggi è tutto chiuso"
"Sì certo, certo." Mi sorella le diede in fretta il sale e lei se ne andò.
Inutile che mio padre cercasse di lasciare a casa qualcuno. Tutti eravamo già imbacuccati pronti per andare a cercare mia madre e lui non provò neppure a farci desistere.
Attraversammo il prato pieno di neve,imboccammo la stradina...ma di lei nemmeno l'ombra. In realtà non sapevamo neppure dove andare. L'unica cosa da fare era continuare a camminare fino alla cascina. Alla cascina mio padre chiese (in paese ci conoscevamo tutti, come si può immaginare) e gli dissero che sì, l'avevano vista passare da circa un'oretta e l'avevano salutata, ma non si era fermata da loro. Be' non c'era altro da fare che proseguire. Arrivammo fino ad un piccolo incrocio di campagna dove c'era una cappelletta con una Madonnina, cosa che capita spesso di vedere nei paesi. Non lontano da lì la strada si allargava in uno spiazzo. Si stava avvicinando un signore in bicicletta che, quando fu vicino, riconoscemmo: era il signor Andrea, anche lui un nostro vicino.
"Buongiorno, per caso ha visto mia moglie?" Mio padre aveva la fronte aggrottata e cominciava ad essere davvero preoccupato.
"Sì che l'ho vista: guardi, è entrata là!"
Guardammo tutti nella direzione indicata: "Là... ma è sicuro?" Disse mio padre."Certo! Proprio là! L'ho vista con i miei occhi."
Là.... c'era un accampamento di zingari: cinque o sei roulottes in mezzo alla neve, ma non si vedeva nessuno.
Mio padre, e dietro tutti noi, si affrettò verso una delle roulottes e bussò forte alla porta.
Chi venne ad aprire capì subito di cosa si trattava e ci accompagnò verso un'altra roulotte; bussò e disse qualcosa in una lingua per noi sconosciuta, anche se con noi aveva parlato italiano. Subito la porta si aprì e una ragazzina con grandi occhi neri e uno scialle tutto colorato sulle spalle ci invitò a entrare. Seduti intorno a un tavolo c'erano altri bambini, quattro o cinque, che giocavano con dei sassi e ridevano fra loro. In fondo alla roulotte c'era un letto e nel letto c'era una donna che poteva avere forse una cinquantina d'anni, e che, si capiva benissimo, era ammalata. Seduta su una sedia accanto al letto c'era mia madre. Eravamo sbigottiti e senza parole: oggi non si può immaginare l'effetto che potesse fare trovare nostra madre seduta in una roulotte di un campo nomadi, in un'epoca (parliamo del 1956/57) in cui perfino i nostri connazionali che dal sud venivano al nord per lavorare nelle grandi industrie, erano duramente discriminati. Ma, lo compresi anni dopo, per lei non esistevano colori o provenienza delle persone: per lei erano semplicemente individui che avevano bisogno di aiuto.
Anche mia madre era stupita di vederci lì, e chiaramente in ansia, tanto che subito sentì di doversi giustificare:
"Pensavo di tornare subito...ma quando sono arrivata qui..." E allargò le braccia come per dire che non aveva avuto il coraggio di andarsene alla svelta.
"Ci hai fatto stare in pensiero!" Mio padre sembrava parlare più a se stesso che a lei mentre si guardava attorno visibilmente imbarazzato. Era la prima volta che lo vedevo in difficoltà, e non sapevo cosa aspettarmi.
Mia madre intanto si era alzata dalla sedia e aveva posato la borsa sul tavolo aprendola e rivolgendosi alla donna:
"Guarda, ti ho portato un sacchetto di zucchero e uno di farina, e un po' di pasta, e anche del riso; e poi un po' di dolci per i bambini e dei mandarini" Intanto che parlava le si era avvicinata e le aveva preso tutte e due le mani fra le sue.
Dovete sapere che allora i sacchetti di farina e di zucchero non erano come quelli di carta che comperiamo al supermercato adesso, da un chilogrammo, bensì erano veri sacchi di tela da cinque e anche da dieci chilogrammi. In casa nostra solo mio padre lavorava e non eravamo ricchi, ma neppure benestanti, e la grande casa in cui abitavamo era bella, ma casa popolare assegnataci dalla ditta in cui lavorava mio padre che le aveva fatte costruire a sue spese per i dipendenti. La vita non era rose e fiori nemmeno per noi perciò io mi chiedevo inquieta, guardando tutta quella roba, cosa sarebbe successo a casa.
Intanto mia madre continuava a parlare tenendo le mani della donna fra le sue.
"Adesso devo andare perchè, come vedi, anch'io ho una famiglia di cui devo occuparmi, ma tornerò presto a trovarti.Tu però non ti alzare, stai sotto le coperte al caldo se no non guarisci, tanto lei è in gamba e può fare tutto" si riferiva alla ragazzina con gli occhi neri che doveva essere probabilmente la figlia maggiore.
Quando mia madre aveva detto "stai sotto le coperte" il mio sguardo si era posato automaticamente sulle coperte e avevo notato che mi erano familiari.....arrivavano da casa nostra! Mi chiesi quante altre volte lei fosse stata lì, senza che nessuno di noi ne sapesse nulla.
La donna continuava a ripetere "Che Dio ti benedica" sottovoce e con le lacrime agli occhi.
Poco dopo salutammo e ce ne andammo.
Il ritorno a casa fu silenzioso: nessuno di noi sapeva cosa dire. Veramente io avrei avuto mille cose da dire e da domandare, ma sapevo per esperienza personale che era meglio tacere visto che quando c'era qualche tensione da scaricare, era la rompiscatole piccola e petulante a prendersi la papina, cioè io....e se tutti avessero avuto necessità di scaricare..si sarebbe trattato di sette papine. Troppe per avere voglia di parlare!
Mia madre era preoccupata: sapete, le donne di una volta non erano come quelle di oggi e avevano un certo timore dei mariti, o soggezione, comunque una forte inclinazione all'obbedienza, ma mio padre, che io sbirciavo di nascosto, aveva l'espressione tranquilla, quasi allegra.
"Menomale" pensai, perchè quando si arrabbiava......insomma se non si arrabbiava era meglio per tutti!!
A casa ci aspettava un pranzo davvero invitante e la giornata si preannunciava serena. Non si parlò dell'accaduto e tutto andò benissimo; mio padre fu gentile con la mamma: il massimo della tenerezza che veniva esternata davanti a noi figli erano i complimenti per il cibo: "Ma che buono questo, ma che capolavoro quello, ma come ti è riuscito bene quest altro ecc.ecc." Quando sentivo parole del genere..avevo la certezza che tutto filava a meraviglia!
Capii solo quando fui più adulta che quella era stata davvero" l'epifanìa": una festa a cui mia madre aveva dato l'autentico significato. Anche se poi, in realtà lei era una donna generosa e buona sempre, che si privava spesso del necessario per offrirlo a chi stava peggio.
Tutti i giorni della sua troppo breve vita furono dedicati alla famiglia e a chiunque si presentasse alla sua porta in cerca di qualunque cosa: chi avesse bussato avrebbe trovato cibo, vestiario, ma anche solo consolazione e parole buone se di questo avesse avuto bisogno.
E noi figli non avremmo potuto avere insegnamento migliore.