Una Giornata Di Lavoro parte II
Anche con Rino l’aveva sfangata a suo vantaggio: aveva bisogno di cartucce nuove per le stampanti e un paio di toner per quel marchingegno che a momenti gli faceva pure il caffè – o qualcos’altro – ma che lui non avrebbe mai imparato ad usare. Tutta roba non originale, ovviamente; quei cinesi ci sapevano fare proprio, con la contraffazione, doveva ammetterlo, nonostante non potesse sopportare la loro vista e tantomeno quel loro odore di olio rancido, e i prezzi erano veramente fuori da ogni ipotesi di competizione, per i prodotti occidentali.
La sua attività procedeva abbastanza bene, tutto sommato. Gli sembrava sempre più di essere un trapezista costretto alle manovre più al limite, per poter sopravvivere; lui viveva di quell’applauso che viene subito dopo la presa finale, in un numero da circo che non aveva più fine. Era come una droga, era drogato delle imprese che si possono compiere con il denaro, con la visibilità, si sentiva il lottatore più accanito e la pecorella più sperduta e impaurita, riuscendo a cambiare umore e atteggiamento più velocemente di quanto il trapezista fosse in grado di roteare sul proprio asse d’equilibrio orizzontale per compiere il salto mortale triplo. Era nel giro, ormai, e non si poteva scendere – a meno di schiantarsi per terra, ovviamente – e non ci sarebbe stata la confortante presenza della rete sotto di lui, ad accoglierlo.
Il pomeriggio si presentava fiacco. Neppure una telefonata da mezz’ora ed erano già le 15:30. Abbandonò le sue attività di social networking su internet, dove bazzicava cercando la prossima pollastrella da castigare, consapevole in ultima analisi del fatto che sarebbe stata lei a castigare lui, ad usarlo, a tenere le redini del gioco, e non viceversa, come amava illudersi da qualche anno a questa parte. Era appena uscito dall’internet caffè quando squillò il cellulare, facendolo trasalire e svegliandolo di colpo dalla sua indolenza spruzzata di lussuria.
Un pigro e sospirato “Pronto?”, strascicato quasi quanto i suoi piedi sul marciapiede malmesso, lo introdusse come un biglietto da visita al suo prossimo cliente, sintetico ma efficace, nel dipingerlo con imbarazzante veridicità. “Salve, Cesare.”, risuonò dal minuscolo altoparlante la voce all’altro capo dell’etere. Era piatta, quasi atonica – tanto che poteva benissimo trattarsi di un messaggio registrato – pensò velocemente Cesare mentre aguzzava le orecchie e il suo viso si raggrinziva in una smorfia di eccessiva attenzione e concentrazione.
“Chi parla?”
“Sono un tuo… cliente.”, rispose la voce, scandendo in particolare l’ultima parola.
“Ok, bene…. Quale cliente? Sai, io sento un sacco di persone al giorno…”
“Oh, sì… sei un uomo molto impegnato, un vero manager!” Il tono si era lievemente innalzato, prendendo la piega dell’ironia, ma il suo retrogusto suonava tutt’altro che spiritoso. Cesare finse di non coglierne l’inquietudine sottesa alla cordialità. Doveva decidere velocemente, e finì per propendere per l’evasività, cercando di prendere tempo in attesa di capire che diavolo volesse questo tipo. L’esperienza gli aveva insegnato a drizzare le orecchie e sollevare il ponte levatoio anche e soprattutto avendo a che fare con clienti o potenziali tali. Mai prostrarsi, mai abbassare la guardia. Il cliente ha sempre ragione, ma solo finchè il castello non è sotto assedio.
“Senti, non riesco a sentirti bene, amico… Come hai detto che ti chiami?”
“Non l’ho detto.”
“Ah, certo. Allora, cosa..”
“Passa da me, più tardi. Ho un affare da proporti. La mia officina è sulla statale 17, proprio in fondo, prima di imboccare l’autostrada. La riconoscerai dall’insegna.”
Il ‘click’ che seguì segnò la fine della conversazione. E decretò definitivamente chi fosse dei due a tenere le redini del gioco. L’officina sulla statale 17… Certo che quel tizio non gli diceva niente, non ci era mai stato lì. Non era mai stato suo cliente, eppure aveva il suo numero di cellulare, quello per del lavoro, quantomeno. Dopotutto, sarebbe bastato piombare alla sua maledetta officina e interrogarlo di persona.
La telefonata lo aveva messo in agitazione e l’adrenalina era sufficiente per rimetterlo in moto, come un motore ingolfato che ha bisogno della scintilla della giusta potenza.
Il pomeriggio scorse via scivolando senza sobbalzi, fra una telefonata e l’altra, che arrivarono a stralci man mano che si avvicendavano chilometri e viali alberati, zone industriali e micette a cui rivolgere occhiate fameliche, un paio di giri a vuoto, che tuttavia non riuscirono a destabilizzare il suo chiodo fisso. Non c’era perdita di tempo che potesse smuoverlo dalla curiosità mista a inquietudine che aveva evocato in lui quella telefonata. Un affare, una voce senza nome e senza tono, un’officina, un affare.
Doveva andare, immediatamente. I pensieri si susseguivano rapidi come fotogrammi di uno di quei vecchi film, in cui le immagini non procedono fluide, ma a scatti, come se la precedente desse una spintarella alla successiva per forzarla a mostrarsi in pubblico, piena di pudore per il suo significato tutt’altro che immediato, quasi imbarazzata di se stessa. I suoi collegamenti mentali lo imbarazzavano e allo stesso modo lo spingevano verso una nuova meta, assetato com’era di un evento per cui valesse la pena di alzarsi la mattina da quel letto solitario e di affrontare ancora una nuova giornata. Non era una questione di soldi, o meglio, non solo. Certo, i dindi facevano sempre comodo e per di più avevano lo strano potere di non essere mai abbastanza, come una moltiplicazione all’incontrario. Non erano mai abbastanza per uno come lui, che non avrebbe mai saputo rispondere ad una domanda diretta su cosa volesse davvero comprare, come avrebbe speso quei soldi, di qualunque somma si trattasse. Fosse solo anche dieci euro, per lui era una questione esistenziale decidere dove bruciarli, e per questo i suoi acquisti o investimenti finivano per risultare impulsivi almeno quanto il gesto, ripetuto all’infinito, di estrarre una paglia e accendersela.
Cesare Pietrucci arrivò rallentando gradualmente presso il piccolo stradello scosceso di acciottolato che era già iniziato il tramonto. Il resto del pomeriggio era volato via quasi senza farsene accorgere, e d’un tratto si risentì con se stesso per permettere alle giornate di scivolargli via così dalle dita come piccoli granelli di sabbia, tutti uguali, stessa forma, dimensioni e colore, senza nessun valore particolare, se non quello di rimanerti appiccicati addosso nel modo più fastidioso e opprimente, infilandosi in ogni pertugio fra lo strato più esterno di vestiario e quello che avvolge la maschera quotidiana, creando attriti, irritazioni, disagio goffo.
Il misterioso interlocutore aveva ragione; c’era un’insegna colorata che campeggiava in fondo allo stradello e si poteva vedere fin dalla strada principale, costeggiata da campi incolti, betulle e rifiuti sparsi ai due lati della carreggiata. L’insegna recitava “Officina Marconi”, balzando fuori dal fondo giallo nel suo rosso scarlatto, banale quasi quanto la denominazione sociale dell’attività – il titolare non doveva brillare per immaginazione – pensava il Pietrucci mentre svoltava bruscamente a sinistra, immettendosi lungo il viottolo in discesa, e accompagnando la manovra con un ghigno obliquo e irriverente.
L’edificio era un capannone grigio e anonimo che spezzava con il suo pesante volume a base quadrangolare l’andamento morbido e orizzontale della pianura circostante, fatta di sterpaglie, humus e cespugli sempreverdi. Si era sollevato già da alcuni minuti un vento pungente, annunciatore della stagione invernale imminente, che contribuì a scompigliare i pochi capelli mai in ordine dell’uomo, appena sceso dalla sua auto, fedele compagna anche in quell’avventura, che non lo avrebbe mai tradito, una via di fuga efficiente e un rifugio sicuro da qualsiasi emergenza.
Il capannone era aperto, il grande e pesante cancello di metallo spalancato, e invitava ad entrare e dare un’occhiata. ‘Non mi pare tanto sveglio, il telefonatore pazzo! Così gli entra anche Gesù con tutti gli apostoli!’ pensava Cesare quasi ad alta voce, mentre entrava nell’ambiente di lavoro spazioso e cercava con lo sguardo un segno di vita. C’era qualcosa di insolito, nell’immobilità da museo di quel posto, ma sulle prime non diede molta importanza alla cosa. Quell’atmosfera d’altri tempi lo stava già risucchiando nel vortice di curiosità e di morbosa aspettativa per la pregustazione di un nuovo affare potenzialmente redditizio, una chance di sbarcare finalmente il lunario e smetterla di fare il trapezista con i pochi spiccioli che gli passavano mensilmente sotto al naso. Regnava un silenzio da assenza di gravità, e persino i pochi oggetti visibili, immersi in buona parte nella semioscurità del crepuscolo che filtrava attraverso le finestrelle sbarrate, poste in alto, inaccessibili. Lo avvolse una claustrofobia paralizzante, che lo spiazzò. Tuttavia, non poteva smettere di camminare, focalizzando il suo sguardo sulle sagome dei macchinari fermi, di cui non avrebbe saputo dire la funzione.
Un ronzio da alta tensione imperversò improvvisamente nello stanzone, facendolo trasalire. Eppure, non aveva spinto nessun interruttore o leva di alcun genere vagamente somigliante a quella di un circuito elettrico. Il cuore gli rimbalzava dentro al petto con ritmo incalzante, noncurante della sua ricerca spasmodica di mantenere un’espressione indifferentemente pacata. Gli occhi diventavano due fessure luccicanti di paura dietro le lenti circolari dei suoi occhiali usurati, mentre il ronzio di sangue eccessivo si mescolava nei padiglioni auricolari a quello nella stanza, rendendo quasi impossibile distinguerli nettamente. La botta di adrenalina improvvisa lo risvegliò come dal tepore infido di un sonno per la mente. Ma era troppo tardi. I suoi sensi si erano svegliati in ritardo, assopiti dalla superfluità evolutiva di un istinto di sopravvivenza vigile. E si ritrovò schiavo, senza aver mai saputo cosa fosse la libertà.
Cesare Pietrucci non poteva muoversi. Fu quell’unico pensiero ad accompagnare il suo risveglio da un sonno senza sogni che, per quanto era in grado di discernere, poteva essere durato un attimo, come molti anni. La sua mente era svuotata, e per un considerevole periodo di tempo non riusciva che a concepire quell’unica, imbarazzante verità: aveva perso il controllo del suo corpo, e non sapeva quale santo ringraziare di ciò.
‘Che diavolo succede? Mi hanno legato? Mi hanno immobilizzato? Ah, non posso muovermi, questo è sicuro! Ma dove sono? Non possono avermi portato molto lontano dall’officina… Oppure sì… Cazzo, non ricordo un accidente! Ma qui non c’è nessuno! Figlio di puttana… mi hai teso una trappola, eh?! Maledetto ragnaccio… e io sono finito nella tua tela!’ I pensieri negativi e le imprecazioni si susseguivano senza che potessero modificare la sua attuale situazione.
“Dove sei? Fatti vedere, vigliacco!!”, gridò sbavando, mentre si divincolava nel buio, non potendo distinguere le varie parti del suo corpo. Cominciò ad ansimare. L’aria stentava a raggiungere i polmoni, il clima era asfissiante. Il suo corpo era come intossicato da un gas invisibile e inodore, tanto era indebolito. Cesare, che prima di quel momento non aveva mai sperimentato la sensazione di totalizzante frustrazione generata dall’impotenza fisica, si convinse alla fine a fare il minor numero di tentativi possibile di muovere il suo corpo per non incrementare la probabilità di comprometterlo definitivamente.
L’ambiente era un luogo chiuso, questo era certo. Cesare non sentiva l’aria scivolare sul suo viso. Ma del resto, non riusciva neppure a percepire le singole parti del suo corpo attaccate le une alle altre. No, non era possibile… Non aveva neppure sentito la sua voce, eppure era certo di aver gridato, pochi attimi prima.
Percepì ad un tratto un calore improvviso che gradualmente gli stava infiammando il volto, solo il volto. Eppure ancora non riusciva a vedere niente, e il tempo passava e si sentiva sempre più come una piccola barca malandata alla deriva in un mare di cui non avrebbe mai compreso le correnti e l’andrivieni delle tempeste. Si sentiva spazzato, sconvolto da quel vento che non aveva direzione, né scopo, quella mano invisibile che lo stava trascinando sempre più alla deriva da se stesso, pur rimanendo immobile. Fu allora che accadde qualcosa. Se ci fosse stato altro spettatore, quella notte, ad assistere all’evento, oltre a Cesare Pietrucci e al suo aguzzino, avrebbe visto gli occhi del prigioniero lampeggiare nel buio del capannone, per poi venire a sua volta abbagliato dalla luce improvvisa, che illuminò a giorno l’ambiente, rendendogli di nuovo una parvenza di attività umana.
Lui comparve, come teletrasportato lì assolutamente per caso da un universo parallelo, facendo capolino da dietro il tornio, che giaceva pigro e indifferente all’angolo superiore sinistro del capannone, soddisfatto di aver portato a termine lo scopo della sua esistenza anche per quella giornata. Il suo aspetto era assolutamente comune, addirittura mediocre, nella sua tuta blu da lavoro sporca di grasso e olio e sudicio da asfalto, i capelli ingrassati quasi quanto i motori, tirati indietro quasi per mimetizzare i riccioli neri e invadenti, nel tentativo di domarli attraverso un semplice gesto ripetuto talmente tante volte durante la giornata da assumere le proporzioni di un vero e proprio tic nervoso, a lasciare scoperto un viso scarno e pallido, che presagiva un fisico emaciato, apparentemente inoffensivo. I suoi occhi emanavano una luce sinistra e opaca e pareva che schizzassero letteralmente fuori dalle orbite incavate e incorniciate fra un bel paio di occhiaie marcate, come disegnate da un fumettista noir.
Cesare Pietrucci non lo vide arrivare, non poteva vedere. I suoi sensi erano ormai stati intorpiditi, anestetizzati. L’intenso calore sul volto era infatti magicamente svanito.
“E’ inutile, non ti puoi muovere. Non dovresti sprecare i rimasugli delle tue facoltà mentali cercando di liberarti o di insultarmi. Fossi in te le utilizzerei per qualcosa di più… costruttivo.”
Cesare sentì partire l’impulso di parlare, di mandare quell’ombra di cui non poteva udire i movimenti nel posto per il quale di solito riservava un biglietto di prima classe solamente per i clienti che non pagavano e per i molti automobilisti che non seguivano le sue personali regole della strada. Ma si sentiva come un pesce rosso che annaspava vistosamente dalla sua boccia trasparente, un prigioniero che non può vedere le sue sbarre, vittima di un ragazzino viziato che ha finalmente ottenuto il suo sollazzo temporaneo, che avrebbe poi lasciato morire, nella più assoluta indifferenza e noncuranza, appena avesse ricevuto un giocattolo più stimolante.
La sua bocca si muoveva su e giù, seguendo i movimenti dei suoi muscoli della mandibola, eppure non udiva alcun suono, parola, rantolo. I suoi occhi si spalancarono in un’espressione di atroce, improvvisa consapevolezza. Il pesce rosso che acquisisce autocoscienza e comprende che la sua vita non ha altro scopo se non il diletto di altri esseri viventi. E’ un giocattolo, nient’altro che un simulacro di quello che prima era un essere senziente.
“Bravo. Dalla tua espressione noto che hai seguito il mio suggerimento. E hai capito. Ma non sei neanche lontano anni luce dalla verità, non ne sfiori che la superficie. Ovvero che ora sei in mano mia e posso fare di te quello che voglio. Nessuno ci disturberà. Sarà grandioso.”
La sua voce non aveva inflessioni, ma Cesare non lo sentì, non seppe ricollegare quella voce alla telefonata di quel pomeriggio. La vista lo stava abbandonando di nuovo, annebbiandosi e creando macchie di Rorschach con quella ormai faticava a definire la realtà circostante, mentre il pensiero cosciente scivolava sempre più verso l’oblio.
L’uomo accompagnò il suo gesto con un ghigno di soddisfazione asimmetrico, che attraversava il viso sottile e ceruleo come una cicatrice che disturba la vista e fa distogliere lo sguardo. Era un sorriso sintetico, meccanico, proprio come la leva azionata dal suo gesto semplice come l’acqua, sorgente di un meccanismo che, come una cascata, trasformava l’energia e la faceva piombare al suolo. Quell’energia che erodeva la roccia e la plasmava, ma che si abbatteva infine sulla terra con un boato assordante, con la potenza che avrebbe schiacciato qualunque creatura si fosse avventurata sotto di essa.
Aveva richiesto molto tempo elaborare il piano. Soprattutto, aveva dedicato anni allo studio dei potenziali collaboratori, un’attenta e accurata selezione che lo aveva reso un profondo conoscitore, suo malgrado, della mente umana, dei tipi di persone più disparate. Non era un assassino, no. I serial killer agiscono per esistere, sono spinti ad uscire dall’ombra di una mera sopravvivenza dall’esigenza spasmodica di rispondere alla loro natura, che, in quanto biologica, è per definizione istintiva. Per questo gli assassini seriali saranno sempre una mossa in svantaggio, sempre un passo indietro, per quanto intelligenti, rispetto al colpo di pistola che segna l’inizio della corsa contro le strutture sociali. Il loro agire è istintivo, la loro ragione offuscata dal bisogno di cibarsi delle loro prede. Lui non era spinto dagli stessi bisogni, ergo, non avrebbe commesso gli stessi errori. Non lo avrebbero mai raggiunto. Non avrebbero neppure saputo chi fosse, intuendo solo vagamente dell’esistenza di un’entità che cambia le regole del gioco.
Avrebbe aspettato il momento opportuno, paziente, lasciando che lo sfiorassero con la loro dozzinale metodica, con le loro procedure, e poi sarebbe volato via mentre le loro energie si affievolivano sempre più, ma senza rimanere invischiato in quella loro burocrazia del vivere, che li faceva correre avanti e indietro come macchine. E se macchine si sentivano, senza libertà di pensiero, allora macchine li avrebbe aiutati a diventare.
Non era stato uno scherzo procurarsi la tossina, quella minuscola molecola biochimica che, alle giuste concentrazioni, era in grado di ridurre un uomo alla mera perpetuazione delle più semplici funzioni vitali. La corteccia cerebrale di Cesare Pietrucci era come se fosse stata asportata, inerte, incapace di rispondere alle invocazioni di soccorso del prigioniero che ormai la portava con sé come si porta un giubbotto quando fa caldo e non sai come trasportarlo senza che diventi un peso inutile, un impiccio che contribuisce solo a rendere più impacciati i movimenti. Lo avvolgeva come un caldo conforto di un cappotto di lana, il desiderio di morire, e altrettanto stretta lo avvolgeva la morsa del suo aguzzino che gli negava quest’ultimo, legittimo diritto.
Aveva aspettato, acquattandosi fra i cespugli che circondano il parcheggio del centro di ricerca di farmacologia dell’università, lasciandosi permeare dai rumori della notte, dagli schiamazzi provenienti dalle auto coi finestrini abbassati, e i synt‐drums della musica house in sottofondo che accompagnava gli urli barbarici, preannunciatori della parentesi di liberazione di una notte in discoteca. Dalle abitazioni del circondario residenziale provenivano a pacchetti temporali i rumori delle stoviglie, il chiacchiericcio o in alternativa le grida durante l’ora variabile di cena, che talvolta lo distraevano. Aveva osservato paziente il fremere delle attività di laboratorio, come un formicaio al rallentatore, che andavano avanti di solito fino ad abbondantemente dopo l’ora di cena, perché si sa che i ricercatori non sottostanno agli orari lavorativi dei comuni mortali e possono permettersi di essere flessibili, o di sentirsi schiavi della loro passione. Nella sua mente rimaneva impresso il suo obiettivo come un marchio di fabbrica, indicatore dell’utilità di uno strumento. I suoi occhi rimanevano immobili, fissando quelle persone provenienti da un mondo a cui lui non avrebbe mai potuto accedere, perché la sua genialità sarebbe rimasta oscura, e non catechizzata. Questa nuova neurotossina, scoperta in una varietà di anemone marina situata a grandi profondità dell’oceano indiano, stava destando l’interesse del mondo accademico, e l’università di Firenze, ospitando il biologo marino che l’aveva di fatto reperita e fatta estrarre in quantità sufficienti da poterla studiare, aveva miracolosamente ottenuto il nulla osta europeo per i test preliminari e per la ricerca di base, far west estremo della farmacologia, dove è possibile trovare tutto e di più nel campo delle interazioni fra porzioni di una molecola e potenziali target farmacologici. Non c’era da biasimare quei ricercatori, se fare le ore piccole in laboratorio era diventata la prassi. Solo che con il loro stacanovismo stavano rendendo molto meno ampia la sua feritoia temporale di azione per trafugare la molecola. La fortuna sta a zero, se non hai la mente pronta per effettuare i giusti collegamenti, per sfruttare l’onda e cogliere un’occasione che altre persone non saprebbero vedere. Quella era l’occasione, quello era lo strumento di collegamento dei suoi studi, il pezzo mancante del puzzle. Una molecola di natura biochimica in grado di bloccare l’impulso nervoso selettivamente. Il gruppo di ricerca la stava testando in associazione con un anticorpo monoclonale specifico per legarsi solo con alcuni tipi di cellule cerebrali, quelle della corteccia.
Penetrò nell’edificio attraverso il parcheggio seminterrato che era già notte fonda e la frequenza delle automobili si era notevolmente ridotta, giù in strada, e le case erano sufficientemente lontane, da non invitare guardoni e perdigiorno in cerca di qualche scoop notturno fuori dall’ordinario. Nessuno avrebbe fatto caso a lui che tentava di identificare, alla luce di una torcia elettrica, il nome della proteina sulle eppendorfine conservate a 4°C, pronte per essere utilizzate l’indomani per nuovi test, o cercava di leggere sui protocolli il procedimento e le concentrazioni, rimettendo con cura i fogli sparsi sul banco da lavoro nelle stesse posizioni in cui li aveva trovati
L’uomo, che indossava la sua tuta da lavoro con disinvoltura, accingendosi ad iniziare la sua vera giornata di lavoro, si incamminò sogghignando a testa bassa verso il Pietrucci, quel fagotto inerme destinato ad un compito preciso, come tutti gli altri, i molti altri, che sarebbero venuti dopo di lui. Lo aveva scelto con cura. Lui doveva saperlo, quanto tempo e fatica gli erano costati, doveva se non altro provare a fargli capire la grandezza del suo piano.
“Ti ho osservato, per molto tempo. Intento com’eri a correre di qua e di là per sbrigare i tuoi miseri affarucoli da piccolo uomo di mondo. Un mondo in cui ti senti il padrone, che conosci come le tue tasche. Finchè non fai qualche chilometro in più del solito, fino ad una officina fuori mano, giusto?”
Se avesse potuto pensare, Cesare sarebbe giunto alla conclusione che l’attività dell’officina fosse una copertura per il suo disegno malato, un luogo seminascosto e isolato, senza vicinato, in cui poter disporre dei suoi giocattoli indisturbato. Invece, si limitò a sbattere le palpebre, con le pupille dilatate, un moto involontario dettato dal più puro istinto di conservazione, lo sguardo assente, e un rivolo di saliva che, scendendo lentamente dal lato destro della bocca serrata in uno spasmo di contrattura, si stava già seccando, portandolo inesorabilmente sempre più vicino all’abbrutimento dei malati. Questo lo avrebbe ucciso: sapere che il suo corpo era una carcassa senza libertà, incapace di pensare, persino di togliersi la vita. Dover dipendere dalla volontà e dalla disponibilità di qualcun altro gli avrebbe dato il colpo di grazia psicologico, per questo si rinchiuse nell’assenza, nello sgabuzzino della catatonia, mettendosi in trappola per non rendersi consapevole della condizione misera in cui era finito.