UNA LUCE NELLA NOTTE

Marina chiuse il libro e lo appoggiò sul divano accanto a sè. Abbandonò la testa sullo schienale e si mise a fissare il soffitto. Il soffitto verde sembrava di velluto, era caldo e rendeva intimo quel salottino che lei e suo marito avevano prima immaginato, e poi realizzato con tanto entusiasmo, scegliendo l'arredamento con cura: divano e poltrone anch'essi di un morbido verde scuro rallegrato da cuscini fiorati, una solida libreria di legno scuro, il pianoforte.  Ma ciò che lei aveva desiderato di più era il caminetto angolare, e poi quel tavolino ovale di madreperla con le gambe di ferro battuto che riportavano il disegno del lampadarietto a lanterna. Il pavimento di legno scuro completava l'intimità dell'ambiente. Lì tutto parlava d'amore, di avvolgente dolcezza, di ore felici, di grande unione. Marina distolse lo sguardo dal soffitto e sospirò silenziosamente. Per quasi nove anni in quella stanza lei e suo marito si erano raccontati le loro giornate; semisdraiati sul divano l'uno di fronte all'altra con le gambe intrecciate, avevano letto e commentato decine di libri, oppure avevano suonato insieme il pianoforte ascoltandosi a vicenda. Avevano affrontato i problemi man mano che si erano presentati, senza tacersi mai nulla e nella massima sincerità. Nel momento in cui avevano deciso di sposarsi, avevano anche concordato il modo del loro vivere insieme: lui non desiderava avere figli e lei era daccordo; per tutto il resto trasparenza assoluta, amicizia, complicità. Avevano acquistato l'appartamento, l'avevano arredato e, visto che lui non aveva necessità di uno studio, avevano trasformato quella che di solito diventa la camera dei bambini, nel luogo dove aggregarsi l'uno all'altra in perfetto relax. Tutti e due erano molto impegnati professionalmente e a volte capitava che Marina dovesse rimanere lontana da casa anche per un mese. Il marito Giorgio attendeva impaziente il ritorno di lei; gli mancava moltissimo la sua presenza, magari la raggiungeva per mezzo del computer, ma senza esagerare perchè non voleva essere soffocante. Quando lei tornava dai suoi viaggi di lavoro, lui le faceva trovare una cenetta fredda già pronta, da consumare direttamente in salotto dove tutti e due facevano a gara per raccontarsi tutto del periodo in cui erano stati lontani.
"Quasi la perfezione" pensò Marina mentre il suo sguardo andava a posarsi sul profilo del marito concentrato nella lettura. Seduto a quel modo sulla poltrona, con le gambe penzolanti da un bracciolo e i piedi nudi, sembrava ancora un ragazzo, un bel ragazzo. L'espressione leggermente corrucciata, qualche ruga sulla fronte e ai lati degli occhi scuri e umidi, e quelle ciglia così lunghe, femminili, per cui lei lo derideva un po'. Marina sentì che si stava commovendo e guardò altrove proprio nel momento in cui Giorgio si era voltato verso di lei.
"Parto domani mattina" gli disse subito "non so ancora di preciso quando tornerò. Te lo farò sapere. Al mio ritorno deciderò dove andare a vivere."
"Forse dovremmo parlarne ancora" provò lui.
"No, non c'è più nulla da dire. Hai ragione tu. Si era detto niente figli. E proprio perchè hai ragione tu, sarò io ad andarmene. Io sono cambiata e non mi basta più questo matrimonio a due. Desidero una famiglia: ho voglia di prendermi cura di un bambino, speravo nostro, voglio non dormire la notte per correre a consolare mio figlio quando metterà i dentini o avrà mal di pancia o sentirà la mia mancanza. Insomma, lo sai. Ne abbiamo già parlato tanto. Mi ero illusa che col passare degli anni anche tu avresti cambiato idea, ma visto che non è così, è meglio troncare."
Marina si alzò dal divano.
"Vado a dormire. Domani devo alzarmi presto. Buonanotte."
Il tono della voce di lei scoraggiava ogni tentativo di confronto, e daltronde uscì così velocemente che Giorgio non ebbe modo di darle a sua volta la buonanotte. Rimase lì, lui, sulla poltrona, indeciso se raggiungerla o trascorrere la notte in salotto. Provava imbarazzo al pensiero di ritrovarsi nel letto accanto a lei, senza potersi addormentare rassicurato dall'abbraccio della moglie e da quella "buonanotte" che lei gli sussurrava accarezzandogli i capelli, ranicchiandosi poi vicino a lui. Giorgio non aveva mai pensato di poter perdere l'amore di Marina per cui questa nuova situazione gli era piombata addosso come un macigno, imprevista e imprevedibile, visto che era stato deciso prima del matrimonio da tutti e due di non avere figli. Come aveva potuto lei accettare e condividere la sua decisione se non ne era convinta? Si sentì irritato ripetendosi per l'ennesima volta di avere ragione, di essere sempre stato sincero, semmai era Marina che aveva "tradito". Certo, pensò, ma a cosa serviva avere ragione se adesso lei se ne andava? Decise di rimanere in salotto e si distese sul divano. La sua sofferenza diventò fisica e si sciolse in lacrime silenziose. "Solo" pensò "di nuovo solo, come sempre." Pianse fino a quando si addormentò.
Quando si svegliò si rese conto immediatamente che era già mattina. Corse in camera da letto sperando che Marina fosse ancora lì per poterla salutare, ma lei era già  partita. Si sedette sul letto lasciando che il vuoto e il silenzio della casa lo investissero con violenza. Lo specchio sul cassettone gli rimandava l'immagine del suo viso disfatto, degli occhi ancora gonfi,e si rese conto di avere mal di testa. Non era in condizioni di affrontare la giornata di lavoro perciò decise di rimanere a casa. Pensò che forse più tardi, dopo un caffè e una compressa di antidolorifico, sarebbe riuscito a riflettere. Il telefono cellulare gli segnalò un messaggio e lui si precipitò a leggerlo:
"Ciao, non ho voluto svegliarti. Sono in aeroporto e sto per partire. Mi faccio viva io."
"Ciao, avrei voluto salutarti. Buon viaggio. A presto." Giorgio le rispose subito. Istintivamente avrebbe voluto aggiungere "ti amo", ma non lo fece. Bastò quel breve messaggio di lei però a farlo sentire meglio e a dargli l'illusione per un attimo che tutto fosse come sempre e che il baratro che si era creato fra loro due fosse solo una fantasia. Più tardi, quel mattino, sdraiato sul letto con le braccia sotto la testa, cominciò a prendere atto di quello che stava capitando: c'era tutta la sua vita in gioco, e l'amore che le aveva dato un senso, il futuro che aveva sognato. Donna molto particolare, Marina. Non aveva voluto sapere nulla del passato. Lui era riuscito a dirle soltanto di non avere parenti, ma quando aveva tentato di confidarsi lei glielo aveva impedito. Non le interessava, e pensava che il passato di una persona è solo suo e di nessun altro. Per lei lui era nato nel momento stesso in cui era cominciata la loro storia, e solo da quel momento ambedue avevano il diritto reciproco di sapere tutto l'uno dell'altra. Un modo di pensare che l'aveva stupito, ma che aveva condiviso volentieri trovando in esso una certa coerenza. Spesso capita che proprio dal passato nascano motivi di litigio e incomprensioni che poi sono difficili da gestire  perchè i fatti sono già avvenuti e non si può fare più nulla per rimediare ad essi o addirittura evitarli. Ora però non si sentiva più tanto sicuro che fosse stata la scelta giusta perchè forse se Marina avesse saputo la sua storia avrebbe potuto capirlo meglio.
Ad occhi chiusi ripensò a quello che gli avevano raccontato:  raccolto da un'infermiera sulla scalinata d'ingresso di un orfanatrofio, dove era stato abbandonato. Di solito allontanava il pensiero, ma questa volta  non fuggì e volle affrontare le sue emozioni. In orfanatrofio era rimasto fino ai diciotto anni. Lì gli avevano fornito un nome e un cognome, una data di nascita e un luogo di nascita presunti; avevano provveduto al suo sostentamento e l'avevano fatto studiare. Di quel vecchio solido edificio rivide le camerate con tutti i lettini in fila, il refettorio, il parlatorio dove i parenti incontravano i bambini. Stanzoni enormi mai abbastanza riscaldati che a lui da piccolo erano sembrati ancora più grandi. Nessuno l'aveva mai maltrattato, ma due braccia che l'avessero stretto al petto lui non le aveva mai conosciute fino all'incontro con Marina. Quante volte si era chiesto angosciato:"Chi sono?" Per anni si era sentito un fantasma, un essere respinto già appena nato da chi avrebbe dovuto amarlo al di sopra di tutto, un nessuno a cui era stata data in prestito un'identità affinchè potesse far parte della società. Si aspettava che un giorno o l'altro qualcuno gli avrebbe chiesto in restituzione nome cognome e tutto il resto. Ma poi Marina si era accorta di lui, gli aveva dato il suo amore, gli aveva consegnato il suo futuro, fiduciosa, rendendolo consapevole di esistere, di essere qualcuno. Giorgio pensò a lungo e, dopo aver trascorso la mattinata a riflettere, arrivò alla conclusione che era arrivato il momento di tornare là dove aveva trascorso tutta l'infanzia e l'adolescenza. Sentiva che era qualcosa che doveva fare, doveva rivedere quel posto adesso, da adulto e vivere fino in fondo ogni sensazione, anche il dolore. Si alzò dal letto spinto da una nuova energia e poco dopo la sua automobile usciva dal vialetto del giardino per andare là: doveva smettere di pensare "là", doveva pronunciare la parola "orfanatrofio". Si sforzò fino a che finalmente riuscì a dire ad alta voce "Sto tornando all'orfanatrofio dove ho vissuto." Lo ripetè più volte durante il viaggio, fino a prendere coscienza del significato di quello che diceva.
Quando arrivò riconobbe subito il grande cancello, e quando una voce metallica gli chiese chi fosse attraverso il videocitofono, rispose senza esitazione:
"Sono venuto a rivedere quella che è stata la mia casa per diciotto anni."
Il cancello si aprì e Giorgio percorse il viale alberato fino al grande piazzale.  Parcheggiò l'auto e salì verso l'ingresso pensando che quella era la scalinata dove trentotto anni prima qualcuno l'aveva abbandonato. Era emozionato ma anche intimidito, quasi fosse tornato bambino. Subito si avvicinò un addetto alla portineria e all'improvviso Giorgio si rese conto che dopo vent'anni sarebbe stato improbabile incontrare qualcuno che conosceva. Allora chiese al portinaio se ci fosse ancora qualcuno in servizio lì da più di vent'anni, ad esempio Antonio oppure Carla. Il portinaio sorrise e gli spiegò che erano cambiate molte cose in vent'anni e comunque il personale era stato tutto sostituito. Giorgio era imbarazzato e d'un tratto si sentì ridicolo, quindi salutò, deciso ad andarsene subito.
Proprio mentre stava per uscire però il portinaio lo fermò:
"Se le può interessare uno dei medici che era  in servizio nell'istituto molto tempo fa, abita non molto lontano da qui. Posso darle l'indirizzo."
"Certo, grazie mille, lo vedrei davvero volentieri."
Il portinaio gli spiegò come trovare la casa del dottore e poi si salutarono con una stretta di mano.
La casa del dottore in effetti era in una via laterale non lontana dall'orfanatrofio. Una casetta di paese con il giardino recintato, modesta ma molto carina. Un vialetto centrale divideva il giardino in due parti e conduceva ad un piccolo patio dove c'era la porta d'ingresso e di lato un dondolo, un tavolino e due sedie in ferro battuto.
Giorgio riconobbe subito il medico nella persona seduta sul dondolo con un libro in mano. Certo era invecchiato un bel po', ma il viso rotondo e la bocca carnosa erano molto particolari. Non c'era il campanello per cui  spinse educatamente il cancello che cigolò attirando l'attenzione del dottore che si alzò subito aggrottando le sopracciglia.
"Buongiorno, posso entrare?"
"Lei chi è?"
"Sono stato un suo paziente dottore, anni fa, all'orfanatrofio."
"Ah, venga, venga avanti."
Giorgio arrivò fino al patio e porse la mano al medico che quasi l'abbracciò scrutandolo con i suoi occhi azzurri ancora molto vivaci.
"Aspetti, non dica niente, non dica niente" Il dottore lo esaminò qualche secondo, e poi gli puntò il dito sul petto:
"Lei è Giorgio, Giorgio La Rosa. Ricordo bene?"
"Sì dottore, ricorda benissimo, sono proprio io." In considerazione di quante centinaia di bambini e ragazzi erano passati dall'istituto, Giorgio rimase impressionato dal fatto che il medico l'avesse riconosciuto.
"Si sieda ragazzo mio, si sieda. Mi fa molto piacere che sia venuto a trovarmi, anche se confesso che mi chiedo perchè dopo tutti questi anni lei sia qui. Di solito quando i ragazzi lasciano l'istituto, non tornano più."
"Avevo bisogno di tornare qui, ma forse è inutile. Il fatto è che non sono libero, non mi sento libero, la mia vita è complicata....ma non vorrei approfittare della sua pazienza. Mi scusi."
"Niente scuse, ha fatto bene a venire, anzi voglio darti del tu, come quando ti curavo. Forse tu non ti ricordi però quando eri piccolo trascorresti qualche festa di Natale a casa mia."
"No, infatti non mi ricordavo però adesso che lei ne parla, mi sembra di sì. Lei aveva un'altalena nell'orto?"
"Sì, e c'è ancora. Vieni con me."
Giorgio seguì il dottore dietro la casa e, guardando la vecchia altalena, ricordò quei momenti lontani in cui si era sentito felice giocando sull'altalena e correndo nel giardino per poi recarsi a tavola in famiglia per il pranzo. Era la famiglia del dottore! I ricordi emergevano dal nulla, prima nebulosi e poi sempre più chiari; come diapositive scorrevano nella sua mente: i giochi, il cibo a tavola in compagnia, le corse in giardino.
Non potè trattenere le lacrime mentre fissava gli occhi azzurri del medico.
"E' stato qui, nella sua casa, che sono stato felice. Quando tornavo in orfanatrofio aspettavo impaziente che lei mi portasse di nuovo qui. Ora ricordo tutto. C'era una signora che mi preparava sempre una torta, oppure il budino, mi pettinava e mi aiutava a lavarmi il viso e le mani."
"Quella signora era mia moglie che ora purtroppo non c'è più."
Rimasero tutti e due in silenzio per qualche minuto, poi Giorgio domandò:
"Perchè io, dottore?"
"Ci fu un periodo in cui tu eri l'unico bambino che rimaneva in istituto a Natale. In un modo o nell'altro tutti avevano qualcuno con cui passare le feste, ma tu eri proprio solo, non avevi parenti, perciò io ti portavo a casa mia affinchè anche tu avessi il calore di una famiglia e non rimanessi solo quando gli altri bambini erano altrove. Ma spesso, quando mi era permesso, ti portavo a casa anche in altri periodi. Solo che c'erano regole molto severe ed esse valevano anche per me"
"Dottore, lei sa anche come fui trovato?"
"Certo. Allora ero entrato in servizio presso l'orfanatrofio da pochi mesi. Una sera verso le venti Carla venne all'istituto perchè doveva lavorare di notte. Sugli scalini vide qualcosa che la insospettì: eri tu, avvolto in una coperta. Ti agitavi, ma non piangevi. Lei ti prese fra le braccia e ti portò subito da me in infermeria. Io ti visitai e così potei constatare che eri sanissimo e vispo. Fui io a scegliere il nome Giorgio: era il nome di mio padre che avevo perso da poco. Eri un gran bel bambino. Si capiva da come eri vestito che eri stato curato, lavato, insomma tenuto bene. Speravamo tutti che qualcuno venisse a prenderti. A volte capita che qualche mamma disperata lasci il bimbo però poi torni a prenderlo. Ma non venne nessuno. Per te però ho una sorpresa. Vieni, entriamo in casa."
Giorgio era sopraffatto dall'emozione, tanto che non riusciva neppure a parlare. Seguì il dottore in casa e si sedette.
"Aspettami qui. Torno subito." Il dottore sparì al piano di sopra e Giorgio sentì rumore di cose spostate.
Quando tornò aveva in mano un grosso pacco chiuso con la carta marrone. Lo aprì sul tavolo e tirò fuori un vecchio plaid scozzese con le frange, un golfino e un paio di ghettine da neonato azzurri, oltre ad una cuffietta di lana anch'essa azzurra.
"Ecco Giorgio. Sono gli indumenti che avevi indosso, e questa è la coperta in cui eri avvolto. E' roba tua. L'ho sempre tenuta, non so neppure io perchè, ma sono contento oggi di potertela consegnare."
lo sguardo di Giorgio si spostava senza sosta dal plaid alle ghettine al golfino alla cuffietta, senza avere la forza di parlare nè di toccare ciò che rappresentava tutto il suo mondo, la sua famiglia, il suo passato, le sue radici. Riuscì solo ad abbracciare il dottore con forza, e in quell'abbraccio c'era tutta la sua commozione, la riconoscenza per l'affetto ricevuto. Il dottore capì che quello era l'abbraccio di un uomo che stava nascendo per la prima volta libero dall'angoscia. Un uomo che stava lasciando dietro di sè il buio del dubbio e si avviava verso la luce della speranza. E all'improvviso Giorgio ritrovò la voce e l'energia e, come un fiume in piena, raccontò al dottore che stava perdendo sua moglie perchè lui era incapace di affrontare la paternità, del tormento che era stata la sua vita fino a quel momento, della disperazione che alla fine l'aveva portato fino lì, all'orfanatrofio.
Il vecchio medico lo ascoltò con attenzione:
"Hai bisogno di un po' di tempo, ma il cambiamento è già in atto. Sarai un ottimo padre."
Più tardi Giorgio ebbe finalmente il coraggio di prendere in mano quei piccoli indumenti di se stesso neonato portandoseli vicino al viso, come se essi potessero raccontargli la sua storia. Anche il dottore li prese in mano e gli fece notare che erano stati lavorati con la lana e i ferri, ben rifiniti, con amore. Una donna che aveva fatto quello non poteva non avere amato il suo piccolo. Se il suo bimbo una sera era stato lasciato su quegli scalini, senza dubbio il motivo doveva essere stato grave. Giorgio capì. Ripiegò con cura la coperta e i piccoli indumenti, li richiuse nella carta marrone e depositò il pacco nell'automobile.
Gli dispiacque congedarsi dal dottore e gli promise che sarebbe tornato a fargli visita. Si abbracciarono come fossero padre e figlio. Un attimo prima che partisse il medico gli fece scivolare in mano una vecchia fotografia dove erano tutti insieme a tavola, poi rimase fermo davanti al cancello fino a quando l'auto di Giorgio sparì oltre una curva. Tornò in casa contento perchè quella giornata era stata la più bella e importante della sua vita di medico, e anche di uomo: aveva dato a un giovane uomo delle certezze a cui aggrapparsi. Aveva riacceso in lui vecchi ricordi di felicità che erano rimasti sepolti sotto diciotto lunghi anni segnati dal grigiore della vita in orfanatrofio.
Intanto che il dottore pensava queste cose, Giorgio era in viaggio sull'autostrada e guidando rifletteva su quante fossero state le emozioni vissute in una sola giornata. Per la prima volta si sentiva contento di chiamarsi Giorgio. Non gli era stato dato per caso quel nome: gli era stato dato con affetto e aveva un significato profondo. I ricordi dei periodi trascorsi in casa del dottore gli tornavano alla mente con sempre più chiarezza e dovizia di particolari. La giornata era trascorsa velocemente ed ormai era buio. Giorgio si sentiva stanco e non vedeva l'ora di arrivare a casa.
Come sognando ad un tratto si accorse dei fari che lo abbagliavano e gli venivano incontro. Fu un attimo, una violenta sterzata e un'automobile andò a capovolgersi nel prato che costeggiava l'autostrada. Giorgio, seduto al volante della sua auto ferma, tremava per lo spavento, ma si fece coraggio e scese per andare a prestare soccorso. Nonostante il buio si rese conto che c'erano due corpi intrappolati fra le lamiere dell'auto. Mentre telefonava per chiedere l'intervento della polizia e dell'ambulanza, sentì un lamento e vide qualcosa muoversi nel prato. Si precipitò a guardare e quando si abbassò verso l'ombra, due braccine lo afferrarono convulsamente mentre una voce di bimbo terrorizzata singhiozzava chiamando "papà". Istintivamente  strinse la creatura fra le braccia e sentì che era molto piccola: un bimbo o una bimba di due o tre anni. Giorgio pensò che sicuramente il piccolo aveva freddo, e non sapeva come fare, ma poi si ricordò del vecchio plaid. Con quella creatura abbandonata fra le braccia andò verso l'automobile, prese il plaid e l'avvolse. Intanto sul luogo era arrivata gente e giungevano anche i primi soccorsi. In attesa della polizia Giorgio si sedette nell'auto col bimbo in braccio. Le sue mani  accarezzavano la testolina del piccolo che, stretto fra le sue braccia, si era calmato, tranquillizzato dal calore e dalla tenerezza: un calore e una tenerezza che l'uomo non sapeva di possedere. Mentre accarezzava e cullava il piccolo, analizzava le sensazioni forti che stava provando, sopraffatto e anche un po' spaventato dal tumulto di emozioni che si scatenava dentro di lui.
All'improvviso, oltre il parabrezza dell'auto, vide con chiarezza la scalinata dell'orfanatrofio: un giovane uomo che gli assomigliava molto stava depositando su uno scalino un bambino avvolto in un plaid identico a quello che Giorgio stringeva in quel momento.L'uomo era rimasto solo perchè la moglie era morta dopo il parto. Senza parenti, e lui stesso condannato da una malattia incurabile, era stato preso dalla disperazione e, non sapendo come prendersi cura del piccolo, con molto dolore, lo stava lasciando lì sapendo che entro breve qualcuno l'avrebbe trovato. Dopo aver abbracciato un' ultima volta il bimbo, l'uomo si voltò verso Giorgio, gli sorrise e se ne andò. 
"Papà, no, non te ne andare! Papà!" Giorgio si rese conto di avere urlato. Era frastornato e incredulo. Aveva il cuore in gola e le lacrime agli occhi. Ancora confuso si rese conto che qualcuno bussava al finestrino dell'auto. Era un poliziotto. Bisognava sbrigare tutte le formalità. Arrivarono anche i parenti del bambino e lo presero in custodia. Giorgio consegnò il piccolo ed appena non l'ebbe più fra le braccia si sentì infinitamente solo.
Fu una serata lunghissima e quando arrivò finalmente a casa era notte fonda. Si distese sul letto: nonostante la stanchezza avrebbe voluto pensare ancora, ma un sonno profondo e senza sogni lo colse all'improvviso.
Lo svegliò il telefono. Istintivamente guardò l'orologio: erano le otto e mezza. Si precipitò a rispondere:
"Marina...ciao" Era stupito: di solito lei gli inviava messaggi.
"Giorgio, volevo solo dirti che tornerò sabato prossimo. Lì è tutto a posto?"
"Sì, certo"
"Allora va bene, non so se riuscirò a chiamarti ancora. Ciao"
"No Marina, Marina, aspetta, non interrompere!"
"Cosa c'è?"
Giorgio raccolse tutto il coraggio di cui era capace:"Pensavo che....sarà un po' strana una camera dei bambini col caminetto! Ne hai mai vista una?"
Seguì un lungo silenzio, ma lui, col fiato sospeso, poteva sentire il respiro di lei  e riusciva a percepire la sua emozione. Quando Marina parlò la sua voce era tremante:
"Sarà una camera bellissima."
"Marina, al tuo ritorno mi dovrai ascoltare."
"Sì, lo so."
Più tardi Giorgio aprì tutte le finestre lasciando entrare l'aria fresca del mattino. Il tendone del salotto ondeggiava leggermente, sospinto dalla brezza delicata. Sopra il pianoforte, accanto alla scultura del busto di Beethoven, una vecchia fotografia appena incorniciata raccoglieva su di sè i primi tiepidi raggi di sole.