Una mattina, sulla Piazza Rossa. 1986
Mosca, una gelida giornata d’inverno. La Piazza Rossa, immensa, opaca di neve. Il cielo colore del ghiaccio. Rari e timorosi turisti, seguiti, a vista, da guide politiche, che paiono distratte. Le cupole variopinte di San Basilio ti rapiscono lo sguardo, mentre il color mattone della cinta di mura del Kremlino argina i tuoi timori. Il parallelepipedo di granito rosso della Tomba di Lenin, si posa, pesante, sul terreno. Ha l’aspetto di un meteorite inatteso. Non fonde col paesaggio. Una coda scura, inconsueta, per noi, si snoda per quasi mezzo chilometro, non trovando una forma che ti rassicuri. Sono arrivato all’alba, dopo una pessima colazione, al Rossia. La fila è per uno o due, al massimo, guardata a vista da militari dal colbacco di astrakan, bianco di neve. Sono severissimi. Ti riprendono per un non nulla: il tono della tua voce, un’incertezza nel procedere. Guai se ridi! Ti piomba addosso il più vicino di loro e comincia ad urlare, agitando il manganello. Per un attimo mi sembra di essere in una di quelle file, tristi, degli ebrei, nell’atto di trasferirsi. Il mondo del quotidiano ti ha abbandonato e resti lì, solo, mentre la neve ti si scioglie sulle labbra con sapori infantili. Un canto, lento e triste nelle sue note, nasce in un punto che non vedi. Cammini così, a piccoli passi, con gente di tutta l’Unione Sovietica, per lo più contadini, venuti da lontano. Una miriade di razze. Sono avvolti in stracci dai colori sbiaditi dall’uso. La porta del Mausoleo, dapprima lontana, si avvicina col passare delle ore. Sei partito con la curiosità che ti ha lasciato per strada. Ora all’approssimarsi di quell’antro di marmo, il tuo cuore si è messo a scalpitare. Possibile? E’ solo Lenin, un uomo imbalsamato. Ti vuoi rassicurare. I cappelli vengono tolti dal capo e la neve la senti sulla fronte. Nessuno parla più. Solo lo strisciare delle scarpe sulla neve ghiacciata. Ecco la porta di granito rosso. Vi è schierata la Guardia d’onore. Un’eleganza delle divise inconsueta. La falce e martello luccica oro su sfondo rosso. Entro. Vedo solo luce. Perdo di vista il mio vicino. Si passa in un’altra camera dove la luce è, ora, più abbagliante. C’è uno strano aroma che non riconosco. Garofano? Ora scorgo i volti di coloro che mi precedono. Colti dalla sacralità, che si portano dietro, sembrano pregare. I loro occhi sono fissi sulla bara di cristallo. Attimi di pausa del passo. La mano che vorrebbe toccare e resta sospesa, quasi un rispettoso saluto. Vanno avanti. Hanno visto, sembrano paghi. Ora, tocca a me. La testa ha un fragore di nenie infantili, sento lo scuotersi di campanellini argentei della mia parrocchia di Genova, all’Elevazione, di quand’ero ragazzo. Passo avanti, sapendo di non avere il coraggio di guardarlo.