Una musica dolce
Se vogliamo, sotto certi aspetti, gli era andata bene. L’ictus era stato grave e nessuno dei tre specialisti che lo ebbero in cura avrebbe scommesso un centesimo su un recupero quasi totale. Invece, appena dopo un mese, sembrava tornato felicemente alla normalità, eccetto per l’uso della mano destra che era rimasta come morta. Ma questo particolare per il maestro Carmine de Franchi, maestro di violino al San Carlo, era una tragedia. A meno di 36 anni aveva chiuso con il suo lavoro amatissimo e con lo scopo profondo della sua vita.
Era stato allievo brillantissimo al Conservatorio di San Pietro a Maiella e c’era chi giurava sul suo talento e sul potenziale di affermazione, come esecutore (su questo proprio non c’erano dubbi) e come compositore. Carmine entrò col ruolo di secondo violino al San Carlo di Napoli nel maggio del '93, quando non aveva ancora vent’anni.
Non si sentì maturo per dedicarsi alla composizione e profuse tutta la volontà, tutte le sue forze e tutto il suo amore per la musica, a migliorare le sue già notevoli capacità di violinista. Quando il male lo colse a tradimento, era tra i più quotati esecutori al mondo della Ciaccona di Bach e questo giudizio era stato formulato nientemeno che da Uto Ughi.
Aveva avuto varie esperienze d’amore, ma nessuna particolarmente intensa o, comunque tale da indurlo a mettere su famiglia. Gli bastava la musica, dove convogliava la spiritualità e l’eros; e dove sapeva di poter esprimere il sentimento della Natura che lui sentiva come divinità misteriosa, come gioia sublime, e come forza cosmica e terribilità. La consapevolezza di essere talvolta a un passo dal capire Dio, il suo Dio non antropomorfico, gli dava anche quella fiducia in se stesso, necessaria per muoversi agevolmente nella realtà, così che, al momento giusto, sapeva fare emergere anche le sue attitudini pratiche, l’efficienza e la determinazione. Ma tutto questo suo mondo, così apparentemente forte, solido e strutturato, senza che se ne potesse scorgere una qualche prolusione del Destino, in un tempo inesorabilmente breve ed ironico, esplose e andò in frantumi, come nel finale di Zabriskie Point, il vecchio film di Michelangelo Antonioni.
La madre, ora che Carmine aveva perduto il lavoro, doveva tornare a fare la domestica, se volevano mettere un piatto a tavola e questo per lui era un’altra umiliazione, alla quale, tuttavia, non poteva opporre niente. se non la sua rabbia, il suo sdegno verso la sorte e sempre che potesse investire la sorte stessa di una qualche impossibile responsabilità morale.
Carmine non aveva amici fuori dagli orchestrali del San Carlo, ma ora non li voleva nemmeno vedere e tantomeno era disposto ad ascoltare le loro esecuzioni alla radio o alla televisione; peraltro non aveva risposto alle parole di solidarietà e di affetto che gli amici più cari gli avevano fatto pervenire; naturalmente per iscritto, dal momento che lui non rispondeva al cellulare, anzi il cellulare non dava segni di vita, forse se ne era definitivamente liberato.
Trascorreva, così, i giorni in un silenzio di morte e, perfino con la madre, evitava qualsiasi effusione e parola che non riguardassero la più spicciola e avara quotidianità. Poverina, lei piangeva in solitudine, intuendo che ogni manifestazione di dispiacere le avrebbe precluso il fruire di quelle poche e scabre parole che il figlio poteva dare e che per lei erano comunque una risorsa, dalla quale attingere qualche risicata speranza.
Chissà per quale misteriosa alchimia dei sentimenti, a poco a poco, Carmine prese ad allontanarsi anche dal suo più grande amore: la musica, e sentì che nella sua mente le cellule, in quella zona dove germinano le più paurose dicotomie, si orientavano verso un’avversione irreversibile, una pervicace ostilità per qualsiasi forma musicale. Perfino le opere per violino di Bach e di Vivaldi, di cui era stato interprete eccellente, gli procuravano, al solo pensiero, un malessere simile alla nausea e la deriva si mostrò in tutta la sua ineluttabilità, quando fece in mille pezzi il suo amato violino, in presenza della mamma, che, questa volta, non poté nascondere la prostrazione e il pianto. Povera donna, povera Lucia, dopo una vita di lavoro e di sacrifici lei da sola con un figlio di cui non sapeva con certezza la paternità.
Era rimasta incinta quando faceva la serva presso l’avvocato Beniamino Sansone ed era l’oggetto del desiderio sia dell’avvocato, che, benché anziano, diceva che con Lucia poteva essere ancora orgoglioso della sua virilità, sia del primogenito, epilettico (che quando gli veniva l’attacco lei prendeva assai paura) e sia dell’amico dell’avvocato, il dottor Aldo Raiano, uno pallido, scheletrico, che non rideva mai. Questo dottor Raiano veniva a giocare a scacchi col padrone di casa ogni giovedì e poi, prima di andarsene, anche dopo mezzanotte, entrava nella stanzetta di Lucia a “levarsi il pensiero”, così diceva, come se l’abuso criminale su una ragazzina, fosse per lui una sorta di incombenza da assolvere necessariamente.
Lucia lasciò quella casa, quando era incinta di tre mesi. Andò a fare la badante presso una vecchia signora, che l’accolse con cordialità.
Con vari accorgimenti aveva tenuto nascosto il suo stato per un paio di mesi, ma non voleva abortire e decise con grande coraggio di confidare tutto, proprio tutto, alla signora, la signora Matilde. Oddio, questo era un salto nel buio, il rischio era alto, ma qualcosa in fondo al cuore le diceva che non sarebbe stata scacciata. E così fu. La storia di Lucia colpì nel profondo l’anima sensibile di Matilde, donna libera, laica, indipendente, che aveva combattuto pregiudizi moralistici tutta la vita e, ora, anche su una sedia a rotelle, aveva l’occasione, non di fare solo opera di carità, ma anche un po’ di giustizia sacrosanta nell’aggiustare il tiro alla fortuna di questa ragazza, che con quel suo viso minuto e delicato e con gli occhi pieni di luce, le ricordavano le sembianze dell’unica figlia, morta, tanti anni prima, fra le lamiere di un incidente automobilistico.
A sedici anni, Lucia fu ragazza madre.
Gli eredi della signora Matilde, lontani cugini, nonostante le indicazioni testamentarie, che dal Notaio furono lette, ma non in presenza della ragazza, non corrisposero alla volontà di Matilde, se non in minima parte e per Lucia le difficoltà, le rinunce, i sacrifici furono tanti. Era tornata con tutti i suoi aculei la vita agra, ma lei si era fortificata con l’amore di suo figlio e sembrava superare molti ostacoli con una imprevedibile energia.
Poi ci fu, da parte di un maestro di pianoforte, la scoperta fortuita del talento di Carmine, la scuola, le borse di studio, i premi, il conservatorio, il San Carlo, i concerti, il successo e, finalmente, un po’ di benessere, un po’ di pace.
Carmine si ammazzò con un colpo di pistola alla tempia il 13 marzo in una giornata fredda e ventosa. È passato quasi un anno.
Lucia, all’angolo della strada, da un po’ di tempo, vende le castagne. Ha, ormai, tutti i capelli bianchi, ma conserva la bellezza nella luce degli occhi. È felice, racconta a tutti che Carmine ogni notte sotto la sua finestra viene col suo violino a suonare una musica dolce dolce. "Solo per lei – dice ‐ solo per lei".