Una sfida a muso duro e... varie cose
In molti si chiederanno cosa centri la storia vintage di un trapiantato di cuore francese all'interno del mio diario, di spezzoni viaggianti, impressioni di viaggio, storie di strada e altro ancora?Ebbene mi permetto di replicare scrivendo che essa centri tanto ci azzecchi e pure molto anzichè poco! I CAVOLI A COLAZIONE CENTRANO MENO DEL CAFFE' BEVUTO PRIMA DI ANDARE A DORMIRE? NON SAPREI COSA RISPONDERE: ENTRAMBI PERO' PENSO CONCILIINO POCO IL SONNO...Quella che segue infatti è la storia di una sfida a muso duro che un vecchio tenne con la signora colla falce ‐ la morte altrimenti detta ‐ una sorta di partita a due che esso giocò con l'altra (molti ricorderanno soprattutto cinefili di vecchio e lungo corso come il sottoscritto al proposito la scena della partita a scacchi tra il protagonista della vicenda e la morte appunto nella famosa pellicola Settimo sigillo del regista svedese Ingmar Bergman), soccombendo in ultimo come purtroppo va capitando a tutti e capiti per tutti quanti in ogni dove ad ogni angolo del terracqueo universo prima o dopo.
Invano per soddisfare le nostre voglie vili/passiamo accanto ai re la nostra vita intera/a soffrirne il disprezzo, a piegare i ginocchi./Niente vale ciò che possono; sono come noi siamo/veracemente uomini/e muoiono come noi./La si perdono quei nomi di padroni della terra/di arbitri della pace, di fulmini di guerra;/perduto lo scettro non hanno più adulatori/e precipitano con loro nella comune caduta/tutti coloro che la fortuna/aveva fatto loro servitori ‐ Paraphrase du Psaume CXLV/Parafrasi del Salmo 145, Francois de Malherbe (Malherbe)
Una cosa tuttavia mi preme sottolineare: è vero sì, quel vecchio soccombette e alla fine capitolò pure ma lo fece lottando appunto, strenuamente e ‐ in fondo ‐ alla sua maniera. Quindi perchè mi domando non possa definirsi un vecchio libertario anarcoide nella accezione generale della parola (del termine) ed un pò sui generis (ed eccentrica) anche lui? Ognuno va seguendo la propria strada ‐ per fortuna ‐ e a suo modo lotta secondo le proprie forze il proprio intelletto le proprie inclinazioni intellettuali di pensiero di fede (eventualmente) di raziocinio e magari anche di "pazzia" ("a su manera" affermano gli umani di madrelingua spagnola), seguendo quello che chiamo senso istintual‐olfattivo. In fondo proprio tutti e chi più chi meno (uomini o donne giovani vecchi e bambini che si possa essere) lottiamo per sopravvivere all'esistenza che scorre velocemente dinanzi a noi come un ciclone un turbine un uragano senza controllo ed altrettanto in fretta trascorre e ci passa davanti senza ‐ a volte ‐ farcene accorgere; ognuno va sostenendo in fondo la sua lotta giornaliera con la morte e con il tempo che passa e travolge tutto in maniera impietosa e desolatamente inesorabile: ogni giorno vissuto in più a prescindere dalla propria credenza religiosa (o filosofica) o dalla fede che possa ‐ o meno ‐ sostenerci durante il cammino e nel corso di tale lotta altri non è se no un temporaneo (e piccolissimo) successo nella sfida con essa [con esso il tempo], un sol attimo in più rubato alle lancette dell'eternità. La storia di quella sfida (intendo quella del vecchio francese) simile è a quella degli altri riguarda (o ci riguarda) proprio tutti, quindi, nessuno escluso: tutti siamo chi più e chi meno ‐ in fondo ‐ dei "sopravvissuti" del giorno precedente rispetto all'onda lunga della morte come riporta l'articolo che citerò di seguito (è in maniera tale che mi sento di definirci di definire gli esseri umani di definirmi ovviamente). Un film americano degli anni ottanta The Day After (Il giorno dopo) parla di un gruppo di persone sopravvissute a un eventuale disastro nucleare pericolo mai assopitosi evidentemente quello paventato nel film e le vicende dello scacchiere mondiale nell'ultimo periodo altro non fanno che confermare ciò (CIRCA UN VENTENNIO PRIMA IN PIENA GUERRA FREDDA NEL 1964 UN GENIALE PAZZOIDE DELLA SETTIMA ARTE STANLEY IN ARTE KUBRICK AVEVA DIRETTO UN FILM DAL TITOLO FIUME UN TITOLO CHE FU TUTTO UN PROGRAMMA IL DOTTOR STRANAMORE OVVERO COME HO IMPARATO A NON PREOCCUPARMI E AD AMARE LA BOMBA D‐DAY DDAY ENOLA GAY HIROSHIMA NAGASAKI DON'T DOCET!). Il 12 maggio del 1987 Adriano Baglivo scrisse un articolo sul quotidiano milanese Corriere della Sera il quale apparve nella rubrica (o pagina) Fatti e commenti, per parlare della morte di Emmanuel Vitria riferirne a tutti ricordandone la sua storia ‐ grandi linee ‐ per certi versi inconsuetamente straordinaria (fuori dal comune), commemorarne la sua lotta appunto portata avanti con determinazione durezza e coraggio estremi sino all'ultimo istante. Nel titolo del pezzo in questione (il quotidiano lo presentò con la dicitura scritta in piccolo prima dello stesso come Nostro Servizio Particolare) è scritto "Si è fermato il più vecchio cuore nuovo", mentre l'occhiello sopra il titolo riporta "E' morto Emmanuel Vitria l'uomo vissuto più a lungo (diciotto anni) con il muscolo cardiaco di un'altro ‐ Marsiglia ‐ Emmanuel Vitria, l'uomo che per diciotto anni è vissuto sul confine della vita con la morte, la notte scorsa si è spento, "dolcemente circondato dai familiari" (come dice un comunicato dell'ospedale Salvator di Marsiglia). Era il decano europeo dei "trapiantati" di cuore, il primatista più amato dalla Francia e più esaminato, studiato dalle équipe mediche di mezzo mondo. Un personaggio incredibile, che ha fuso odio, amore, lucidità di pensiero, asprezza di sentimenti in un crogiuolo di consapevole sacrificio, per strappare con profonda determinazione ogni secondo di vita all'incertezza, ai passi lenti della scienza, come pure all'onda lunga della morte, sempre in agguato, respinta più volte più con la mente che con i farmaci. Aveva 67 anni, una moglie Josette che gli è stata accanto con animo francescano, devoto, tre figli e tanti nipoti. Ma, soprattutto, centinaia di amici, che per anni hanno costituito la linfa del suo rapporto con la società. Dal suo balcone di Chateausec, un moderno quartiere satellite alla periferia di Marsiglia, il suo sguardo spaziava, nelle ore di solitudine, all'alba di notti insonni, sulla "città radiosa" di Le Corbusier, e quell'aggettivo "radiosa" gli sembrava qualcosa di irraggiungibile, di metafisico. Eppure Bicou (così era affettuosamente soprannominato Vitria) ha sempre avuto un unico obiettivo: rendere la sua vita "radiosa". E, tutto sommato, in una sorta di bilancio esistenziale, si può dire che il primatista ha costruito una nuova filosofia, valida probabilmente non solo per i trapiantati: vivere in maniera allegra anche coraggiosa e perchè no qualche volta pure disordinata. La sua biografia, le sue memorie, le sue interviste sono un inno alla vita, sin dal momento in cui un chirurgo, Edmond Henry, ed il suo assistente, Jean Raoul Monties, non gli hanno detto, nel pomeriggio grigio e tedioso del 27 novembre 1968, "monsieur Vitria, c'est pour ce soir". E quella notte, il nono trapianto del cuore, di tutto il mondo, veniva portato a termine. Il donatore era un giovane marinaio, Pierre Ponson, venti anni, morto in un incidente stradale. Per Bicou, commerciante di vini, con la grinta del meridionale marsigliese, uomo duro, tutto d'un pezzo, colpito d'aneurisma, con il cuore a pezzi, quali possibilità di sopravvivenza esistevano se no il ricorso al trapianto? Nessuna. Era dato per finito. Il suo nome non sarebbe comparso sulla lista nera dei deceduti. La scienza era ancora ai primi tentativi, il problema del "rigetto" non era stato risolto, Barnard aveva già fatto l'impossibile. Ma Vitria rispose con determinazione al chirurgo: "Va bene, sono pronto". La sua unica preoccupazione, prima di entrare in sala operatoria, fu rivolta ai "baffi", che lo facevano assomigliare, incorniciando un aperto sorriso, all'attore Douglas Fairbanks. Quando una infermiera, munita di rasoio affilato, tentò di raderli, Bicou le bloccò la mano e disse: "Radetemi dappertutto, ma i baffetti me li tolgo da solo", Una piccola conquista, un'ironia sottile prima di offrire il torace ai cardiochirurghi. E dopo l'intervento, durato cinque ore, un'altra battuta di spirito: "E' stato come fare una frittata. Di regola non si sa come viene. Spero però che sia buona. Importante è rompere le uova ed io l'ho fatto". Comincia il decorso post operatorio, e, soprattutto inizia un nuovo modo di vivere. Vitria ha due problemi da risolvere, uno psicologico, che scaturisce nel rapporto familiare, sociale, ed uno clinico, con la terapia antirigetto, con la prevenzione di possibili crisi. Si sottopone a controlli medici mensili, ingoia ogni giorno dalle cinque alle otto capsule di cortisone, fa passeggiate, aiutato da un bastone, più per ragioni psicologiche che per necessità, per sicurezza del passo. Amava ripetere a chi per strada lo fermava: "E' il mio percorso di combattente". E ad una donna che per giorni lo attese, nel tentativo di capire di più, di farsi raccontare il segreto della sua "lunga" vita, Bicou rispose: "Credo di avere una tale passione per la vita, una passione che mi ha permesso di sbattere la porta in faccia alla morte". In effetti, la porta l'ha veramente messa alle spalle, non rinunciando a qualche consumo tipicamente voluttuario. Fumava otto sigarette al giorno facendo una sorta di violenza su stesso. Ne avrebbe fumate anche venti, trenta I BEATNIK SI SAREBBERO SCOMPISCIATI DALLE RISATE...JACK (KEROUAC) FORSE NE FUMAVA PRO DIE ‐ ALL'APICE DELLA SUA CARRIERA ARTISTICA ‐ TANTE QUANTE NE FUMAVA BICOU MOLTIPLICATE PER SEI (=48) QUESTIONE DI NUMERI SOLAMENTE PERCHE' MI SA CREDO CHE SAREBBERO STATI OTTIMI AMICI NELLA FANTASCIENTIFICA FANTASMAGORICA IMPROBABILE IPOTESI CHE SI FOSSERO INCONTRATI E CONOSCIUTI "IL FUMO FA MALE ALLA SALUTE!" RECITA LA BIBBIA DEI POVERI FORSE E' PER QUESTO CHE LA GENERAZIONE BEAT USAVA SPESSO FUMARE ALTRO AL POSTO DEL TABACCO COLMO DEI COLMI UN MIO CONOSCENTE MOLTI ANNI ORSONO SI BECCO' UN BEL CANCRO AI POLMONI IN VITA SUA NON AVEVA FUMATO NEANCHE UNA CICCAAAA..(MA NOI DI TARANTO SIAMO UN MONDO A PARTE SI SA PERCHÉ RESPIRIAMO MERDA 408 GIORNI ALL'ANNO INVECE DEI CANONICI 365 E QUESTE COSE NON SONO INSOLITE) Ma la soglia era invalicabile. Beveva e sempre buon vino. MIO PADRE MI RACCONTAVA SPESSO CHE SUO PADRE CARLO MIO NONNO ERA UN GRAN BEL BEVITORE OTTIMO CLIENTE DEL BARBERA E DEL LAMBRUSCO QUASI TUTTE LE SERE LE TRASCORREVA IN OSTERIA COGLI AMICI A CHIACCHIERARE E ACCOMPAGNANDOSI CON UN BICCHIERE DI VINO COME SI SA UN BICCHIERE TIRA L'ALTRO COSI' QUANDO IL FIASCO ERA SVUOTATO E LE CHIACCHIERE CONCLUSE TORNAVA A CASA IN FONDO ERANO UGUALI MIO NONNO E BICOU BEVITORI DI PRIMA SCELTA ENTRAMBI
"Con addosso solo le mutandine da bagno, scalzo, con i capelli scarmigliati, nel buio rosso fuoco, canto, sorseggiando vino, sputando, saltando, correndo così si vive. Tutto solo e libero tra le morbide sabbie della spiaggia" (Jack Kerouac, I vagabondi del Dharma)
Mangiava con gli amici qualche volta in misura "pantagruelica". Una volta ‐ e questo è un aneddoto passato alla storia ‐ Vitria incontrò il chirurgo Barnard, andò a pranzo con lui. Barnard si stupì di quelle portate così ricche, oleose, che a ritmi costanti un giovane cameriere paracadutava sul tavolo. Chiese al primatista dei trapianti: "Ma come, lei mangia tanto?". E Bicou rispose, aggrottando le ciglia con sottile ironia: "Guardi, professore, che i miei medici si sono dimenticati di dettarmi la dieta". Ma i familiari non erano così teneri. Vigilavano sulla salute del recordman. Bicou si sfogava allora cogli amici: "Loro vorrebbero tenermi nella bambagia, obbligarmi a non far nulla per tutta la giornata. Non è nel mio carattere". Ecco, l'unica cosa che Vitria non ha fatto è il ritorno al suo lavoro. Da quella notte del trapianto è diventato presidente onorario di una cinquantina di associazioni di donatori di sangue, sparse in tutta la Francia. "Cerco sangue per altri, faccio propaganda nelle facoltà di medicina, vado spesso all'ospedale Salvator per tirar su il morale ai malati di cuore". La sua opera di sensibilizzazione è una pietra miliare nella storia individuale delle persone che solo per effetto del trapianto di cuore possono sperare di sopravvivere. E Bicou sin dal primo momento è stato consapevole del grande ruolo che il destino gli aveva riservato. Nelle sue conferenze quasi a ritmo quotidiano ripeteva un concetto. "Il primo aeroplano che si è alzato in volo era roba da ridere. Nelle notti in cui mi svegliavo per sentire il mio cuore nuovo spesso ho pensato che anch'io ero come un banco di prova, mi dicevo che con tutti i progressi che si fanno, un giorno non ci sarebbero stati problemi di trapianto e che anch'io dovevo portare il mio contributo.
IN CERTE NOTTI QUELLE NOTTI IN CUI NON RIESCI A DORMIRE E SCRUTI IL CIELO PER TROVARE UN PUNTO IL (TUO) PUNTO A CERCARE QUALCOSA..."Cercate la vostra anima, andate a fiutare il vento, andate via, lontano..."(Jack Kerouac) NON HO MAI TROVATO LA MIA ANIMA NULLA DI NULLA FORSE PERCHE' MAI HO CERCATO BENE QUALCOSA IN VITA MIA SPESSO PERO' MI SONO CHIESTO CHE CI FACCIO QUI'?
A dire il vero, Vitria ha avuto pure una buona dose di fortuna, certo, pur nella disgrazia. E la fortuna lo assistette quando si presentò qualche anno fa in ospedale con tre fratture ‐ una al collo del femore, per una caduta dalle scale ‐ e rimase sotto anestesia generale per cinque ore. In questi ultimi mesi il primatista aveva nuovamente ripreso il braccio di ferro con la morte, a causa di una insistente insufficienza respiratoria. Dal 27 aprile era ricoverato nel reparto del suo vecchio amico Jean Paul Monties, perchè il chirurgo che diciotto anni fa aveva eseguito l'intervento, purtroppo, è morto proprio per quella malattia ‐ un secco infarto ‐ alla quale invece aveva strappato Bicou. La scorsa notte i segnali di monitoraggio del cuore sono apparsi sempre più deboli. Alle cinque del mattino Bicou ha chiuso gli occhi, ha oltrepassato quel confine che più di ogni altro forse conosceva. Jean Paul, staccando gli strumenti, per morte sopravvenuta, ha detto, con le lacrime agli occhi: "Abbiamo perso un amico e gli amici sono rari".
Chi trova un amico trova un tesoro! così recita famoso intercalare nicaraguense. Non ho mai trovato tesori in vita mia ma una volta però...mio padre era più fortunato di me due o tre volte INFATTI li capitò di trovare dei portafogli per strada con dei soldi, beato lui, ma i tesori non vengono mai da soli e bisogna andarseli a cercare. Una volta chiesi a mio padre perchè camminasse sempre con la testa bassa ossia con lo sguardo rivolto all'ingiù verso il marciapiede? Nella risposta a questa domanda sta il motivo ‐ evidentemente ‐ per cui lui era più fortunato del sottoscritto!...AVEVO ANCHE UN AMICO UNA VOLTA L'AVEVO TROVATO SOTTO UN ALBERO SECCO DI FICO (DI FICHI FIORONI QUALITA' MOLTO DIFFUSA DA NOI AL SUD ITALIA) COSI' A BELLA PRIMA MENTRE SENZA META E SENZA UNO SCOPO GIRONZOLAVO IN CAMPAGNA ERO ALLA RICERCA DI QUALCOSA? NON SIA MAI!TALE AMICO DURO' POCO IL TEMPO SIMILE A BREVE BATTITO DI CIGLIA DI UN UCCELLO O MAGARI DI UN SELFIE FATTO PER SCAGLIONARE IL TEMPO IN FRANGENTI IN MODO DA NON RESTARNE FULMINATO. QUELL'AMICO D'UN TRATTO SPARI' COSI' COME ERA APPARSO DECISI DA ALLORA DI NON ANDARE PIU' IN CAMPAGNA E SEDERMI SOTTO UN'ALBERO DI FICO SECCO IN MODO DA EVITARE DI TROVARE A BELLA PRIMA UN'AMICO CHE POI SAREBBE SPARITO D'UN TRATTO: COSI' LO FECI A SCANSO DI EQUIVOCI PER NON CREARNE DENTRO ME STESSO!
Il migliore amico di Jack Kerouac fu ‐ a parte Allen Ginsberg, con cui lo scrittore nella ultima parte della sua vita pare avesse troncato ogni rapporto ‐ di certo Neal Cassady, il mitico Dean Moriarty di On The Road il quale per molta critica letteraria e non solo fu il vero precursore della Beat Generation colui che diede decisiva spinta a Kerouac a percorrere quella strada e che nel romanzo si mette in viaggio alla ricerca del padre alcolizzato. Cassady morirà a soli 41 anni in circostanze misteriose: camminava mezzo nudo di notte lungo un binario del treno di un piccolo paese del Messico, sera prima era stato ad un party dove aveva assunto quantità eccessive di barbiturici (la cosa venne confermata dall'autopsia). Collassò e lo trovarono mezzo morto, fu portato al più vicino ospedale dove morì poche ore dopo essere entrato in coma (un'analogia sconcertante con la morte di Kerouac che avvenne l'anno dopo quella del suo amico)..."e la stella della sera deve star tramontando e spargendo il suo fioco scintillio sulla prateria, il che avviene proprio prima dell'arrivo della notte completa che benedice la terra, oscura tutti i fiumi, avvolge i picchi e rimbocca le ultime spiagge, e nessuno, nessuno sa quel che succederà di nessun altro se non il desolato stillicidio del diventar vecchi, allora penso a Dean Moriarty, penso persino al vecchio Dean Moriarty, il padre che mai trovammo, penso a Dean Moriarty" (Jack Kerouac, On The Road/Sulla strada). L'AMICIZIA E' DAVVERO BELLA COSA PER CHI PUO' PERMETTERSELA!
Alcune cose notevoli mi tornano in mente dopo aver letto la storia riportata sopra (è da dire invero che l'abbia letta contemporaneamente al momento in cui l'ho fatto ossia in tempo quasi reale dopo aver trovato cioè per caso il ritaglio di giornale su cui è scritto l'articolo che la contiene tra le diverse cataste di carte, scartoffie varie e simili cose disseminate nella mia casa ovunque). Riguardano episodi della mia vita e persone che di essa hanno fatto parte nel corso del tempo ed in certo qual modo hanno dei collegamenti colla vicenda di Bicou/Vitria (o quanto meno delle assonanze abbastanza precise e dirette nonchè sconcertanti anch'esse con essa). Ci ho pensato abbastanza su come definire la cosa: coincidenza assiale‐computerizzata, fisiognomica quantistica, karma post‐moderno o più semplicemente un insieme fisiologico di flash‐back deja‐vu ed eventi all'incontrario che si rimescolano tutti quanti in una sorta di minestrone o pout‐pourri targato duemilaventitrè? La risposta non sono riuscita a trovarla e ben mi sta questa volta perchè me la sono cercata: non esistono risposte a ogni domanda, meglio ficcarselo nella scatola cranica una volta per sempre e magari anche in un buco che tutti ci portiamo appresso nel di dietro, donne o uomini che siamo! La prima riguarda un uomo che morì in Francia proprio come l'altro ‐ appunto. La seconda invece ha a che vedere con mia amata sorella Anna Maria ed entrambe a loro volta hanno a che vedere con la morte (ma vi è una cosa sola al mondo solitariamente solipsistica o decameronianamente fraudolenta che sia la quale non ne abbia?) e la fine sopraggiunta dopo lungo decorso di malattia e sofferenza fisica e morale. L'uomo di cui ho detto si chiamava Walter ed era un cugino di mio cognato Franco, consorte di mia sorella. Era operaio alle acciaierie Ilva di Taranto all'epoca del fatto (non ricordo tuttavia se fosse in servizio o già a riposo per motivi di salute per cui non scrivo ex accanto alla parola operaio), divenuto alcolizzato cronico e con l'epatite B che li aveva intaccato il fegato e lo stava lentamente ‐ ed inesorabilmente ‐ riducendo ad una inerme poltiglia di merda (assonanza, questa a volta sua con la morte di Kerouac il quale se ne andò proprio per quel motivo per il fatto che li scoppiò il fegato in quel di Fort‐Lauderdale, Florida, nel 1969). Aveva bisogno del trapianto per continuare a campare meglio (o meglio per comprarsi uno scampolo di vita) e si recò a Rennes dopo allucinante iter amministrativo e burocratico che non sto quì a ricordare. Rennes è moderna località situata nel nord estremo della Francia (mio cognato lo raccontò a me e a mia sorella, rimase choccato di quella città quando ci andò che a suo dire pareva già "futuribile" allora!), capoluogo di Bretagna (una delle regioni "storiche" transalpine) e del dipartimento dell'Ille‐et‐Villaine, sede di antichissima università (fondata nel 1735), della famosa chiesa di Notre‐Dame (risalente al XIV°secolo), rinomato centro industriale e commerciale infine sede di ospedale con annesso centro trapianti riconosciuto a volta sua tra i più rinomati in Europa intera. Correva estate 1993 (le estati corrono? Certo visto che sono sorelle germane del TEMPO FIGLIO DI PUTTANA!), mio cognato accompagnò il cugino in Francia, dopo averlo fortemente aiutato colle scartoffie in Italia e nel disbrigo delle pratiche di espatrio temporaneo, visto che a lui era legato sin dall'infanzia da profondo rapporto di "amicizia" (LUPUS IN FABULA) piuttosto che di pura e semplice parentela ‐ o parentato ‐ (amicizia e parentela non sono stessissima cosa a mio vedere, non è detto che parenti siano anche amici e viceversa...per me esistono infatti quelli che definisco sovente pseudo‐parenti ma non ci potrà mai essere pseudo‐amicizia, si è amici è basta!), e visto che i suoi familiari (tra cui una stronza di moglie che definire menefreghista rappresenterebbe vera e propria onorificienza e no eufemismo, direi) non potevano (o volevano) farlo.
CON IL VERO AMICO DIVIDI TUTTO DIVIDI LA TUA DONNA UNA TROIA BUON CIBO DEL VINO ALLEGRO UNA BIRRA DENARO ILLUSIONI DELUSIONI DISILLUSIONI UNA NOTTE SPECIALE UN GIORNO QUALUNQUE NATO STORTO E FINITO PEGGIO LE SCONFITTE I DESIDERI REPRESSI I SOGNI MANCATI LE METE MAI RAGGIUNTE DIVIDI CON LUI SANGUE E LACRIME LA VITA STESSA A VOLTE...
A volte egli stesso mi edusse sopra alcune imprese goliardiche compiute col cugino, insieme al fratello maggiore e ad altri ragazzi della loro comitiva in giro per la città e fuori di essa. Quelli della comitiva di mio cognato li conobbi quasi tutti visto che frequentavano un locale, "Il frullato", che mio padre aveva preso in gestione come secondo lavoro dal suo di banconista e cameriere in un grande locale del centro città: si trovava nella via Cesare Battisti quasi di fianco alla piazza Ramellini e di fronte a dove oggidì sorge un grande supermercato. Fu in quel locale agli inizi dei settanta che mio cognato e mia sorella si conobbero. Ricordo Peppino S. il matusa del gruppo, un play‐boy vero tombeur des femmes, Gino uno rosso di capelli che emigrò in Olanda dove mise su famiglia con prole annessa e aprì un'officina per conto suo dopo aver fatto il meccanico sotto padrone, Aldo un lungagnone sempre allegro balbuziente sin dalla nascita, che andò poi in Sud Africa per lavorare come operaio specializzato; tornò in Italia dopo qualche anno e non ebbe fortuna neanche in amore e negli affetti (sua moglie lo lasciò col culo per terra portandosi dietro la figlia piccola), Nicola S. un tipo silenzioso e serio che morì giovane nei primi anni ottanta. Mio cognato tuttavia fece tutto con piacere per quel che mi è dato conoscere (per i motivi di cui sopra), così assistette suo cugino sino all'ultimo per quasi due mesi (quasi a costo di ricavarne antipatiche conseguenze per la medsima sua salute). Non fece bella fine purtroppo Walter: era un uomo robusto (tra ottanta e novanta chili) ma diventò talmente piccolo che la sua salma (o quello che ne restava) la riportarono indietro in una bara bianca di quelle usate per i bambini e i ragazzini giovanissimi, quando crepano. Non fecero in tempo a trapiantarlo, in ospedale, ma credo che probabilmente le cose fossero arrivate a un punto tale che sarebbe stato del tutto inutile cosa impiantarli un fegato nuovo visto che anche altri suoi organi vitali erano già irrimediabilmente compromessi. Walter lo conoscevo, era tipo allegro e gioviale sempre con la battuta a tiro ed il sorriso portato lancia in resta sotto suoi baffoni: come Emmanuel in fondo, un po' guascone e diretto nelle sue esternazioni e nei rapporti col prossimo.