Una sostituzione
I giovani medici campano di sostituzioni, desiderate, attese, sognate, barattate. Anch'io ci sono passato...Un salto improvviso, da studentello appena laureato, a trovarsi, se pur saltuariamente, a sostituire un collega affermato. Ma c'è una sostituzione di poche ore, che non dimenticherò mai. Due quadri soltanto, vivi, superstiti. ‐"Raineri? Sei il collega Lucio? Sono D'Alessandro. Mi hanno detto che fai sostituzioni ed io ne avrei bisogno urgentemente: una, domani mattina."‐ "Non ci sono problemi. Ci campo. Dimmi dove debbo andare?"‐ ‐"Carcere di Poggioreale, Divisione Palermo, sono il medico di guardia di turno, domani mattina."‐
Guardie gentili e comprensive, che accettano il mio imbarazzo nel farmi perquisire. Firmo moduli e vengo affidato a un secondino che ha un mazzo di grosse chiavi medievali. Qui inizia il mio incubo. Sono claustrofobo, per eredità. Un padre, che quando il cinematografo si affollava, si alzava e ci lasciava noi, seduti, mentre lui avrebbe seguito il film, appena all'entrata. E la claustrofobia si fa subito strada. Il secondino apre, sferragliando, una grossa porta di ferro e la chiude alle mie spalle. Ma non è finito, perché con uno strano ritmo di pochi passi, ogni volta, fosse un frammento di corridoio o un gomito buio, continua ad aprirne altre e a chiuderle. Avverto ancora quel disagio, che si accresce posteriormente al mio corpo. Più chiuso di così! Sono quasi nel panico. E se volessi improvvisamente uscire? Chi mi aprirebbe tutte quelle porte? ‐”Ci siamo! Ecco il Palermo”‐ Mi rassicura questa voce, che cammina al mio fianco. Dobbiamo raggiungere l'ambulatorio. Ora vedo le celle. Alcune aperte, che danno adito al mio sguardo di confermare l'autenticità di questa parola: veri cubicoli, affollati, sporchi, maleodoranti. C'è uno strano passeggio di alcuni, che non so spiegarmi. Un vociare. Desto curiosità. Mi guardano, ammiccando tra loro. La luce entra abbagliante da alcune finestre, creando chiaroscuri profondi. Sto per imbattermi in una visione dantesca, che mi resterà come un incubo, per tutta la vita. Una parete di sbarre alta sino al soffitto, una gabbia enorme. Aggrappati a vari livelli, come scimmie di uno zoo, affiorano volti di uomini. Da prima, seri, attenti alla novità del mio arrivo. Hanno il rossetto sulle labbra; vedo occhi con Rimmel sbavato, chignons, tessuti colorati. Le mani, aggrappate alle sbarre, hanno unghie con vistosi smalti. Sono io, ora, la loro giovane preda. ‐”Non ci badi, dottore”‐ Mi rovesciano le più strane oscenità sessuali. Ho ancora i suoni delle loro voci, delle risate, delle infinite battute e contro battute. Le sbarre tremano. Ne sento il suono. Conscio di un rossore infantile, avanzo in fretta. ‐”Sono pur uomini, ma li dobbiamo tenere separati, altrimenti...”‐