Una storia borghese
Una storia di avidità, perfidia, egoismi da un lato e di generosità, bontà, altruismo (insomma, stupidità) dall’altro.
Potrei far iniziare questa storia dal 1995, invece faccio un passo indietro.
Dopo la fine della guerra, mio nonno fece costruire una villa dove si stabilì con la sua famiglia. Non ricordo con precisione l’anno, nel caso fosse dopo il 1952, la sua famiglia era così composta: moglie, due figli della moglie e tre figli della prima moglie.
Ai primi degli anni ’60, fece aggiungere un’ala alla villa, ricavandone due appartamentini. In uno si stabilì il secondogenito che aveva preso moglie verso la fine degli anni ’50, nell’altro il primogenito che prese moglie nel 1962.
Nel gennaio del 1964, mio nonno morì improvvisamente per blocco intestinale, grazie alla mancata diagnosi del suo amico medico, del quale mi astengo dal farne il nome.
Mio nonno – ed è questo che ho saputo solo nel 2002 – aveva stabilito che dalla costruzione esistente, ricavassero quattro appartamenti per i primi tre figli e l’ultimogenita, mentre, con i soldi rimasti, per il quartogenito comprassero un appartamento altrove. Le sue parole esatte sarebbero state: “A quello comprategli un appartamento fuori di qui, altrimenti vi farà vedere i sorci verdi”.
I figli non seguirono il suo consiglio.
Ho due ipotesi sul motivo perché non lo seguirono:
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Mio padre, il primogenito, aveva un grande affetto per i fratelli, per i più giovani più da padre che da fratello, e desiderava che rimanessero tutti insieme. Inoltre, mio padre, coi soldi, faceva “addò vere e addò ceca” e, in quel caso, penso che abbia preferito ragionare da sparagnino e così, invece di ascoltare la saggia indicazione del padre, risolse di costruire un quinto appartamento in cima all’edificio già esistente. In questo modo, venne a sbilanciare visivamente l’edificio, in quanto il quinto appartamento sorse sopra l’ala nuova, insistendo sulla parte originale solo per una stanza.
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Il secondogenito spinse per questa soluzione, di modo che il suo appartamento che era al primo e ultimo piano, si trovasse protetto da un altro appartamento, invece che dal terrazzo asfaltato, aumentandone confort e valore.
In realtà, penso che entrambe le ipotesi si siano verificate.
Mio padre, ingegnere, provvide gratuitamente al progetto e alla direzione dei lavori del nuovo appartamento.
Nel 1976, il quartogenito cominciò a frignare che aveva freddo con il terrazzo sopra la testa e gli pioveva in casa.
Mio padre provvide, sempre gratuitamente, al progetto e alla direzione dei lavori del sottotetto che avrebbe fatto stare più caldo il bimbino che lavorava in banca.
Circa sedici anni fa, a seguito di spiacevoli fastidi che avevo avuto e continuavo ad avere dal bimbino oramai pensionato da vent’anni, chiesi a mio padre: “E i soldi per fare il sottotetto da dove sono usciti?” Mio padre, sfuggente con lo sguardo e con i modi, rispose: “Erano rimasti un po’ di soldi dall’eredità”. Voglio sperarlo. Ma di certo quel modo sfuggente per me significava che mio padre aveva messo mano lui alla tasca. Se è vero che erano rimasti dei soldi dall’eredità, almeno i soldi necessari al sottotetto non ce li aveva messi tutti lui.
Però era il 1977, quando sentii, mentre ero seduta nella mia stanza a studiare, mia madre chiedere seccata: “Perché devi pagare sempre tu!?”. Capii che stavano parlando della palazzina di famiglia, dalla quale noi ci eravamo trasferiti due anni prima e dove gli altri fratelli di mio padre, tranne il terzo che era andato fin da subito a lavorare al nord, ancora vivevano con le loro famiglie. E capii che pagava le spese condominiali della palazzina da solo. Allora non pensai precisamente alle spese di costruzione del sottotetto.
Mi chiesi: “Ma i fratelli bancari di mio padre – uno era addirittura direttore di filiale – non pensano che mio padre ha dei figli suoi ai quali provvedere?”
Inoltre, considerai che, evidentemente, mio padre volesse più bene ai suoi fratelli che a noi figli: noi eravamo arrivati dopo, mentre conosceva i suoi fratelli da prima.
Ricordo che già dai miei sette‐otto anni avessi cominciato a considerare le differenze tra mio padre, il quale sembrava non tenere per niente ai soldi, e i suoi fratelli, i quali sembravano non pensare ad altro, e mi chiedevo, perplessa: "Ma questi sono fratelli di mio padre!?" Di recente, un professore di filosofia e storia mi ha consolato: "Lila, io ho scritto un libro sulle differenze tra fratelli!"
Ricordo un episodio che mio padre mi raccontava e che rivelava come il suo secondogenito, poi diventato direttore di filiale di banca, tenesse al denaro fin da piccolo.
Suo padre aveva dato al mio futuro padre una moneta, una lira ..., non ricordo. Il secondo fratello, più piccolo di quattro o cinque anni, si aggirava tutto nervoso, fino a quando, per la stizza, non dette uno schiaffo al fratello maggiore.
Mio padre rideva, ricordando quell'episodio, a riprova dell'affetto che aveva per i fratelli. Io consideravo quell'episodio sintomatico e inquietante: mio padre non voleva proprio rendersi conto di quanto fossero meschini ed egoisti i suoi fratelli?
L'episodio ha un seguito. Mio nonno, vedendo ciò, dette una moneta anche al secondogenito, il quale, raccontava sempre ridendo mio padre, uscì fuori e sbatté la moneta nell'angolo del marciapiede per verificare che fosse buona e non falsa. "Ma guarda questo!", avrebbe commentato mio nonno.
C'è un altro episodio che mi ha raccontato mio padre, però quando ero ancora più grande. Quando nacque l'ultima sorella ‐ da seconde nozze di mio nonno, come il quartogenito ‐ dodici anni dopo il quartogenito, quel grande pedagogo di mio nonno avrebbe detto: "E' arrivata colei con la quale devi dividere le proprietà di tua madre". Questa frase potrebbe spiegare tutte le successive perfide azioni da avidità e invidia del quartogenito.
Mi sono spesso chiesta da dove derivasse la differenza così evidente tra mio padre e i suoi fratelli. Genetica? Ambiente? Probabilmente entrambi.
Mio padre, dai lineamenti, è uguale alla madre; mentre i suoi fratelli bancari sono il padre spiccicato. Però mio padre, il maggiore, è anche il figlio che più ha potuto essere influenzato dalla delicatezza e dall'educazione della madre. La madre morì quando mio padre aveva dieci anni. Ricordo la foto di un bimbetto dallo sguardo sperduto. Mentre i suoi due fratelli avevano sei o cinque anni il secondo e un anno o due il terzo. Il terzo fu poi cresciuto da un fratello della madre e sua moglie ‐ dei quali ha poi dato il nome ai suoi figli ‐ e questo spiegherebbe come il terzogenito sia venuto su con una giusta combinazione di correttezza e praticità. Per quanto riguarda i lineamenti, il mio terzo zio mi è sempre sembrato una giusta combinazione dei lineamenti della madre e del padre.
Saltiamo al 1995. Mio padre mi riferisce che mia cugina G. gli ha chiesto se, per caso, volesse vendere l’appartamento. G. si era sposata sei anni prima e viveva nell’appartamento del padre ‐ il secondogenito, il direttore di banca ‐ il quale pochi anni prima aveva fatto partecipare i quattro figli nullatenenti ad una cooperativa e, unendo i quattro miniappartamenti, si era trasferito lì con tutta la famiglia.
Pensai: “Ma che stronza! Con due figli che mio padre ha ancora a Battipaglia, come si permette di chiederlo!?” Il primogenito di mio padre si era trasferito a lavorare nella capitale, dopo avere convintamente rifiutato un’offerta di lavoro a Battipaglia ed una a Pozzuoli (noi siamo della Campania, provincia di Salerno).
Due anni dopo, finalmente decido di realizzare quanto avevo pensato di fare fin da quando ero tornata al mio paesello da Milano per accettare un lavoro a 40 km da casa: comprare un bilocale e andarmene a vivere per i fatti miei. Il tizio che mi si era appiccicato addosso e al quale non riuscivo a dire “Tu non mi piaci”, a causa delle altre sue caratteristiche e a causa delle mie caratteristiche, e al quale proprio nel 1997 ‐ per la seconda volta, dopo gennaio 1993 ‐ non riuscii a dire “Finiamola qui”, se ne uscì: "Compriamo direttamente un quadrilocale". Non sto a relazionare le mie argomentazioni contro questa seconda opinione; di fatto, a distanza di anni, ho capito che gliel’ho data sempre vinta.
Così, il collega ‐ un vanaglorioso che non vi dico ‐ della scrivania a fianco, mi sentì parlare al telefono con agenzie immobiliari. E cominciò a vantarsi delle case che la sua famiglia aveva, oltre quella dove abitavano. Come per dire: io non ho bisogno di cercare e comprare un’altra casa. Vanità delle vanità, tutto è vanità. “Eh, già – mi venne da replicare per zittirlo – io tengo un appartamento a Battipaglia, il mio fidanzato tiene un appartamento a Baronissi, però dice che dobbiamo farci il nostro”. La frase ebbe il suo effetto. L’espressione di boria sul suo voltò ebbe un duro colpo, diventando un’espressione spiazzata, e il collega quasi balbettò: “Eeeh, … quando poi uno è di principio …”.
Quando comunicai a mio padre che il tizio che mi si era attaccato addosso e io avevamo trovato un appartamento da acquistare, mio padre se ne uscì: “Se tu ne compri un altro, io vendo il nostro”. Gli voltai le spalle e me ne andai; invece, di rimanere e farlo ragionare che, comprando io un appartamento, quell’altro sarebbe potuto servire a mio fratello minore che era ancora studente, quando, eventualmente, ne avrebbe avuto bisogno. Anche se, quell’appartamento, abbandonato da vent’anni, era oramai ridotto in condizioni pietose e ci sarebbe comunque voluto una bella spesa per ripristinarlo. Sapevo che mio padre si aspettava che quei soldi ce li mettessi io. Nonostante, come ricordava il tizio che mi si era attaccato addosso, mio padre sosteneva: “Basta una pittatella”. Sì, una pittatella. Non c’era l’impianto di riscaldamento. La cucina sembrava sul punto di crollare. I pavimenti e certe stanze lasciate dal precedente inquilino in condizioni miserrime. Infissi e persiane non funzionanti, parte dell'impianto elettrico e idraulico da rifare, ecc.
Ero affezionata a quella casa e a quella palazzina: c’erano i miei ricordi da bambina; era la palazzina fatta fare da mio nonno e da mio padre.
Tre erano i motivi per cui non volevo andarci:
- Gli imbrogli dei miei zii che falsificavano i conti per far pagare tutto a mio padre e che, certamente, sarebbero continuati con me;
- Come ripetevo al tizio che mi si era attaccato addosso: “Io non vado lì a far passare ai miei figli quello che hanno fatto passare a me!” Cosa mi avevano fatto passare. Ricordavo come un’oppressione, continue prese in giro, ... . Precisamente ricordavo che questa oppressione veniva dalla consorte del secondogenito di mio nonno, lo zio direttore di banca, e dai suoi figli, perché i suoi figli dovevano stare sopra tutto e sopra tutti. Tanto è vero che ricordavo che l’unica volta che mia cugina G. aveva avuto un ruolo subalterno a me fu quando ideai “La società protettrice degli animali”. Mi attribuii il ruolo di presidente, quale ideatrice del gioco, assegnai il ruolo di vicepresidente a mia cugina G. e, credo di ricordare, il ruolo di segretaria a mia cugina D., primogenita del bimbino che non può mai cacciare una lira, e di socie semplici alle nipotine di ‘zia’ Angelina, la nostra collaboratrice domestica.
Con mia cugina G. che abitava nell’appartamento avito, non la vedevo bene per i miei figli. - Mi chiedevo: “Mio padre non sa, come dice Filumena Marturano, che i figli, quando sono grandi, o sono tutti uguali o è l’inferno?” Sì, lo so che da anni ha precisato: “Ho stabilito le cose in questo modo: la casa a via V_______i a Linda. Questo appartamento, che è il doppio di quello a voi due”, ma non può dare quella casa a me per andarci a vivere adesso e agli altri non dà ugualmente una casa dove potere andare a vivere. Sì, lo so che sta chiedendo che i miei soldi, invece di usarli come base di un mutuo, di utilizzarli per aggiustare l’appartamento e la palazzina di famiglia, ma lo sanno anche i suoi figli?”
No, mio padre non lo sapeva. Dato che, quando mio fratello maggiore, a 18 anni, prese la patente, cambiò il parco‐macchine di famiglia e la seconda auto, invece di intestarla a mia madre, come era prima, la intestò a mio fratello. Mia madre protestò. Mia nonna materna, titolo di studio terza elementare, raccontò: "Quando Antonella [la figlia maggiore della sorella di mia madre, N.d.A.] prese la patente, Assunta [mia zia materna, N.d.A.] comprò un'automobile e se la intestò, spiegando alla figlia: "Altrimenti, tuo fratello ci rimane male"".
Nove anni dopo, mio fratello maggiore andò a lavorare lontano e portò con sé la seconda auto di famiglia. Mio padre ne comprò un'altra e l'intestò a mio fratello minore che aveva appena compiuto diciotto anni, si era diplomato e si era preso la patente. Quell'anno io mi ero laureata e avevo preso la patente quattro anni prima. Io non me la presi più di tanto. Mio fratello osservò: "Papà l'ha intestata a me, ma è l'auto mia e di Lila".
Tornando al busillibus, mentre riflettevo sull'inopportunità che io usassi i miei soldi per ripristinare l'appartamento avito, invece che come base di un mutuo per un nuovo appartamento e quella che a me sembrava l'assurdità di svenderlo, mia zia, la sorella più giovane di mio padre viene a propormi di comprare il suo appartamento. Cerco di convincerla a non farlo, lei mi spiega le sue ragioni, mi arrendo e provo a parlarne con mio padre. Stesso risultato: "Se tu compri l'appartamento di zia Lila, io vendo il nostro", con l'aggiunta della frase: "Mio padre si starà rivoltando nella tomba". Invece di provare a farlo ragionare, di nuovo volto le spalle e me ne vado.
Mentre sto lì a riflettere ‐ a) per comprare l'appartamento di zia Lila, senza l'aiuto di mio padre, devo fare un piccolo mutuo; b) se compro l'appartamento di zia Lila, non mi restano i soldi per aggiustare il nostro; c) l'appartamento di zia Lila ha gravi problemi di risalita d'acqua e sono vent'anni che non fanno i lavori, secondo me, a causa della tirchieria di zio Giulio (il secondo fratello di mio padre, il direttore di banca) e l'egoismo di zio Furio (il quartogenito); d) se compro l'appartamento di zia Lila, comunque papà non credo che venderà il nostro e lo vuole affidare a me, e con gli imbrogli sulle spese di condominio di zio Giulio e zio Furio, quanto mi faranno pagare in più? ‐ apprendo che mia zia ha venduto a un estraneo. Tutti i miei arrovellamenti finalizzati a non far andare la palazzina di famiglia erano stati vani. Non potevo combattere da sola, con oltretutto solo tre anni di stipendio e due borse di studio annuali alle spalle: avrebbe dovuto esserci unità familiare.
Lo zio trasferito al nord, considerando che la sorella ha venduto a un estraneo, vende il suo appartamento ai suoi affittuari. Giulietta, la mia cugina coetanea, figlia di zio Giulio, lascia l'appartamento per andare vivere in uno più grande e zio Giulio decide di vendere. Disfatta totale: la maggior parte della palazzina andrà in mano ad estranei. Provo ad andare a chiedere quanto vuole, ma, come atteso, chiede una somma assurda e lascio perdere.
Intanto, con il nuovo proprietario dell'appartamento di mia zia, il quale, oltretutto è un compagno di università mio e del mio fidanzato (il tizio che mi si è attaccato addosso), vengono eseguiti i lavori per risolvere la risalita di acqua e, ingenuamente, penso che, con un estraneo, i miei zii non vogliano mostrarsi per quello che sono e mi illudo che gli imbrogli pecuniari siano finiti.
Mia cugina, per la quale mi avevano fatto vedere i sorci verdi quando ero bambina, se n'è andata e suo padre ha messo in vendita l'appartamento, quindi ritengo che non devo più temere che quella famiglia riservi ai miei figli lo stesso trattamento che avevano riservato a me.
Il mio ex‐compagno di università mi fa una risata in faccia, riferendomi che mio padre gli ha detto che il nostro appartamento se lo vende proprio. Eccone un altro che se lo vuole comprare a basso prezzo, penso.
Penso che mio fratello maggiore si è stabilito Roma, mio fratello minore, all'epoca ancora studente, avrebbe seguito le orme del fratello maggiore e che è un vero peccato che la palazzina di famiglia finisca completamente in mano a estranei. Riunisco i miei fratelli davanti a mio padre, sintetizzo la situazione e chiedo se hanno qualcosa in contrario che io aggiusti l'appartamento di famiglia e mi stabilisca lì, altrimenti lo avrebbe venduto, invece di comprarne un altro. Il maggiore, come faceva da cinque anni, ribadisce il suo totale disinteresse per quella casa vecchia e per qualsiasi questione di soldi o di proprietà. Il minore non mi sembra convinto, ma non parla. Mi rivolgo direttamente a lui: "Se avete qualcosa da dire, ditela adesso: dopo non voglio sapere niente". Mio fratello continua a tacere. Lo prendo per un "chi tace, acconsente" e procedo come desiderava mio padre, rinunciando al bell'appartamento nuovo di quattro stanze, cucina abitabile, due bagni, ripostiglio, box auto e posto auto esterno a £179000000 trattabili che avevamo visto, sebbene nella periferia del comune confinante senza soluzione di continuità con il nostro.
Un anno dopo, sorpresa. Zio Giulio e la consorte Radaele spingono il primogenito Poldo al matrimonio riparatore con la figlia di una collega di zia Radaele. Zio Giulio non era ancora riuscito a vendere il suo appartamento, dato il prezzo esorbitante, e concede l'uso dell'appartamento, ristrutturato a spese del marito di Giulietta dieci anni prima, alla novella coppia di sposini.
"Il ritorno del monnezza", o meglio, della famiglia che temevo di più in quanto ad angherie psicologiche. Ma voglio rassicurarmi: quella famiglia mi angariava perché io non dovevo brillare sulla mia cugina coetanea. Col cugino 'grande' non c'era mai stato nessun confronto: cosa avevo da temere?
E così due anni dopo, con il valido aiuto del mio futuro marito, tecnico abilitato, rendo almeno abitabile quel tugurio che era diventato l'appartamento di famiglia e ancora attaccato al riscaldamento centrale che non c'era più da almeno un decennio.
Nell'appartamento non trovo il servizio di tazze della mia nonna paterna che mia zia mi aveva detto di avere lasciato per me (mia nonna paterna non era sua madre) ‐ zio Furio e zio Giulio, quindi Poldo, avevano le chiavi del mio appartamento; a zio Furio quasi viene un colpo quando sa che il mio futuro marito ha sostituito il lucchetto del nostro ripostiglio nel seminterrato del quale sembrava che nessuno sapesse dove fosse finita la chiave; mio marito sospetta che zio Furio avesse chiamato il carro‐attrezzi una volta che aveva lasciato l'auto parcheggiata per pochi minuti fuori casa; io sospetto che mio zio Furio avesse segnalato all'ufficio tecnico del comune i lavori che stavamo eseguendo: mio padre dovette andare all'ufficio per dimostrare che aveva fatto tutte le segnalazioni previste per legge; quando mio marito non c'era, tutti i nostri vicini si chiamavano il capo‐mastro per far eseguire dei lavori a casa loro e mio zio Furio anche dei lavori condominiali ("E io pago!", diceva Totò).
Inoltre. mia madre mi aveva raccontato che zio Giulio aveva chiesto di passare per il soffitto del soppalco del nostro bagno per fare dei lavori alle tubazioni del suo bagno. "Non esiste proprio!", aveva replicato mia madre. Il soffitto del soppalco era stato picconato dove erano bidet e vaso del bagno di zio Giulio.
Quando, dopo il viaggio di nozze, arrivammo lì, mio zio Furio mi dava l'impressione del gatto che stia pregustando il pasto con i due nuovi topolini con i quali prima avrebbe giocato un po' e, in generale, il livello di interessi e di conversazione dei nuovi vicini mi fece pensare: "Ma dove sono arrivata? In un condominio o in un asilo infantile?" L'unica cosa che sembrava interessarli era confrontare quale appartamento fosse il migliore, chi avesse i migliori mobili, i migliori ninnoli e cercare di togliere più spazio possibile ai vicini, soprattutto ai nuovi arrivati, nelle parti comuni. Ma anche nelle parti private.
"I mafiosi sono come bambini: vogliono tutto per sé", dice il comico siciliano Roberto Lipari.
Inoltre, tutta la bella famigliola di zio Furio si intrufolò in casa a decantare le meraviglie del nostro appartamento, come a dire che era meglio del loro. Mia madre, di recente, mi aveva spiegato che, quando mio padre stava erigendo l'appartamento di zio Furio, lo stesso scendeva nel nostro a verificare cosa nascondesse il nostro, pensando che fosse migliore del suo: non riusciva a spiegarsi come mai mio padre gli stesse erigendo un appartamento più grande e migliore degli altri. Mia madre, nel 1966, lo aveva zittito dicendogli: "Furio, dici che questo appartamento è migliore del tuo? Io non ho problemi: tu ti trasferisci qui e noi ci trasferiamo nel tuo". Non tornò più.
Ad ogni modo, non vi davo importanza. Continuavo la mia vita. Avendo mio padre affidatomi l'appartamento e la palazzina di famiglia, sentivo che mi avesse consegnato le redini della famiglia. Come primo atto, volevo provare a prendere un bilocale per mio fratello minore, il quale, nel frattempo, si era laureato e aveva iniziato a lavorare in zona. Trovai un ostacolo in mio marito. Solo molti anni dopo capii che è anche lui un borghese dai valori borghesi. Che mi aveva fatto scivolare verso le quisquilie di cui si occupa la borghesia.
Anche la palazzina di famiglia? Sì, da vent'anni versava in condizioni miserrime ed era inteso che avrei dovuto provvedere anche a questo.
Fu mio marito ad occuparsene due anni dopo, quale amministratore interno. Avevo ritenuto che l'unico modo di non essere derubati era che se ne occupasse lui. E pure dovette faticare per rintuzzare i tentativi di maneggi di zio Furio.
Dopo due anni che ero lì. mi sentivo come il figlio del Re nella parabola del Re e i vignaioli disonesti. "Avranno rispetto per mio figlio", pensò il Re. Costoro, vedendo il figlio del Re pensarono: "Costui è l'erede: uccidiamolo e l'eredità sarà nostra".
Nella ex‐palazzina di famiglia, mi era stato chiaro fin da principio che il vezzo al peculato non fosse mai stato dismesso, come avevo creduto. Anzi, zio Furio ebbe prima un alleato finto ingenuo nel nipote, poi una complice consapevole nell'ex‐affittuaria diventata proprietaria, infine ‐ e ciò fu per me una vera sorpresa ‐ un alleato interessato nel professore universitario (il mio ex‐compagno di università).
Quest'ultimo, già seccato per le spese dei lavori condominiali, non contento di avere pagato l'appartamento di mia zia solo £115000000, finiti i lavori condominiali, si è unito alla banda con la calunnia e l'omertà, abbagliato dallo specchietto per le allodole di zio Furio. Per quanto riguarda Poldo, dobbiamo ringraziare l'educazione impartita ai suoi figli da zia Radaele. Il chiacchiericcio, come lo chiama Jorge Bergoglio quando fa la parte del papa, arte in cui zia Radaele è maestra e lo ha insegnato al marito e ai figli. Parlare male degli altri ed esaltare sé stessi.
Poi, la persecuzione continua. Ho saputo solo di recente, dalla vedova di uno stimato medico il quale condivideva con mio zio posizioni dirigenziali nella locale squadra di calcio, di che azioni perfide fosse capace mio zio Giulio. Non me lo aspettavo.
Dulcis in fundo, a dimostrare una inattesa bassezza dell'ambiente, l'uso delle mani.
Prima hanno fatto risistemare la palazzina a mio marito e dopo se la sono goduta loro.
E ora aspettano l'ultimo boccone.
Non avevo capito come i loro vizi borghesi fossero patologici: le loro maldicenze, invidie, egoismi, avidità, tirchieria sopra tutto e sopra tutti. Anche sopra la serenità, la salute e la vita del loro benefattore, mio padre, di mio fratello e mia. Di chiunque non appartenga al loro entourage. Di chiunque invidino la luce, quella luce che sanno non potranno mai avere, dice Totò, nella poesia "L'invidioso".
Quanto i loro vizi borghesi fossero satanici: "Apprendevamo del suicidio di un imprenditore che lasciava moglie e figli, a seguito delle nostre manovre e noi ridevamo", confessa un ex‐banchiere davanti alla commissione d'inchiesta.
O, più semplicemente, "Che differenza passa tra la fondazione di una banca e la sua effrazione?" ci chiede Bertold Brecht ne "L'Opera da Tre Soldi". Ossia, tra alta borghesia e malavita dei bassifondi non c'è nessuna differenza.
Personalmente, ritengo che tra la malavita dei bassifondi ci sia più onore.