Una vita alla deriva
Da dove iniziare? Dal principio sarebbe troppo doloroso.
Può capitare, in una dolce e calda sera d’estate, di trovarsi sereno di fronte alla propria casa, sdraiato sull’amaca, dopo una cena preparata in giardino e gustata con calma. Di sentire le forze tornare grazie al riposo, di godersi senza tempo una notte stellata.
Accadde un anno fa.
Mi dondolavo con un bastone di ferro puntato nel terreno, una piccola brezza faceva ondeggiare i fili d’erba sotto di me. La luce esterna dava un leggero chiarore alla casa. La vedevo grande, immensa di fronte a me, per un attimo mi dissi quanto fosse strano che due sole persone vivessero in una casa tanto grande, mi domandavo se fosse poi giusto che un individuo di ottanta chili possedesse tonnellate di cemento, legno, mattoni. Questo pensiero si insinuò nei miei occhi, li iniettò di domande che venivano dal nulla. Lo sapevo, sapevo che erano aiutate dal paesaggio metafisico nel quale ero assorto in quel momento. Ma ciò non era abbastanza. Si faceva strada in me un’idea che credevo del tutto estranea, ma che in realtà sapevo appartenermi da sempre.
Che ci facevo, lì?
Di chi era quella grossa casa bianca, chi l’aveva costruita, chi l’aveva abitata? Quante risate di bambini avevano ascoltato quei muri, e quanti pianti di stanchezza? E quanta gente era venuta a trovare i vecchi padroni, e che cosa pensavano di quella casa? Chi l’aveva costruita, chi l’aveva progettata, e qualcuno si ricordava ancora di quel panino e quella birra gustate sotto il sole estivo, mentre le file di mattoni salivano?
Chi aveva scritto col gesso bianco sui muri del magazzino? Perché tutte queste domande, chi le voleva?
Rimirai ancora la casa. Sembrava guardarmi, dall’alto, senza chinare il capo, come fa un gigante austero e altezzoso. Intorno non c’era niente, eravamo solo io e lei. Gli animali erano scomparsi, Patrizia era scomparsa, il mondo intorno anche. Era una cosa tra noi.
Sembrava avere pena di me, sembrava chiedersi come mai mi fossi nascosto da lei, in un posto così lontano da tutto e tutti. O forse ero io che avevo pena di me stesso, che mi chiedevo le cose che credevo si stesse chiedendo lei.
Arrivai anni prima in un giorno di febbraio, nella nebbia. Mi fermai di fronte a lei, allora disabitata. Scesi dall’auto e con il registratore immortalai il silenzio nel quale si trovava assorta. Incisi sul nastro magnetico: “I suoni della mia casa”.
Che farò, quando un giorno riascolterò quel nastro? Sarà questo l’unico rimpianto della mia vita? È un rischio al quale non posso sottrarmi, la verità mi trova ovunque, non posso fingere di essere una persona normale. Non ha senso e lo so.
Il mio desiderio era costruire un nido nel quale nascondermi dal mondo, nel quale stemperare le tristezze del mio passato. Un luogo senza tempo, dove poter affidare all’oblio il computo dei miei giorni. Poter trovare un po’ di pace, smettere di ardere.
Ma la realtà è sempre meglio di qualunque finzione. L’ho detto io, non può non valere anche per me.
Sarà l’amore che cerco? O forse una nuova vita?
Io conosco la risposta. Ciò che cerco non esiste più, devo trovare un altro motivo per tornare sereno. Ma che fatica, essere sempre in lotta col mondo. Io non avrei mai voluto lottare, vorrei solo la pace dentro. Invece la vita mi ha assalito, ha atteso invano che crollassi per rendermi un uomo normale. Ma io non crollo mai, sono invincibile, e più battaglie vinco più ne ho da affrontare. E vincerò anche quelle. Ma perché, per chi? È poi così importante essere d’acciaio, essere abbastanza forti da trovare rimedio a tutto? Riuscire a stravolgere l’essenza delle cose a proprio piacimento per restare in vita? Essere inattaccabili, volgere ogni cosa a proprio favore.
Certe volte vorrei tornare indietro, avere una famiglia, una casa dove nascere e crescere e morire. Dei fratelli coi quali litigare e poi far pace, avere una nonna da cui andare a cena la domenica. Poi penso al peggio, che tutto ciò non è mai esistito. Come si può sentire la mancanza di qualcosa che non s’è mai posseduto?
Non ho mai voluto una famiglia, non la vorrò mai. Io forse non so cosa significhi averne una, sono rimasto solo prima ancora di imparare a scrivere il mio nome, in me ci sono solo io. Il fatto di non avere alcun tipo di legame non sempre è positivo.
Sono come una barca alla deriva: dovunque mi porti il mare, trovo il modo di restare a galla. Ma resto sempre in alto mare, senza vedere mai la riva. E non appena le onde mi scagliano su di un’isola deserta, subito la risacca mi porta via.
Ero arrivato qui dal nulla, e nel nulla torno. Ho vissuto quasi cinque anni in un posto senza voler conoscere nessuno, faccio lo straniero di professione da sempre. Nessuno sa niente di me, ed ogni volta che rinasco, il mio passato scompare dietro i miei occhi. Lo celo senza difficoltà, muoio e poi rinasco ogni volta. Possibile che non mi manchi per niente incontrare dei vecchi amici mentre passeggio, la domenica mattina? Oppure andare a fare la spesa e sapere il nome della cassiera? Un legame, un legame qualsiasi, qualcosa che ti distolga dal voler passare tutte le domeniche da solo, a riposare, a preparare la battaglia per il giorno dopo.
Una vita normale.
Un posto dove poter tornare. Molto frequentemente sorrido di me, quando penso che, con un po’ di approssimazione, se dovessi scomparire improvvisamente, senza lasciare traccia, quasi nessuno verrebbe a cercarmi. E quei pochi che lo farebbero si stancherebbero presto, conoscendo il mio modo di vivere forse non si preoccuperebbero.
Un giorno una cara amica mi disse: “Sei come una cometa. Passi per un attimo, ti fai trovare e sentire per qualche tempo. Ma poi scompari da tutti, diventi un miraggio. E l’unica cosa che possiamo fare noi, è aspettare che la cometa passi ancora.”
Allora, io e lei ridemmo di questa immagine. Poi, quando partii, lei non venne a cercarmi, e nemmeno io andai a salutarla. Ci siamo voluti bene profondamente, con un rispetto di fondo che ci ha impedito di complicare le situazioni. Eppure lei non venne a cercarmi. È stato questo il suo saluto: aspettare che la cometa passi ancora. Io l’ho capito subito, e ancora sorrido, pensando a lei. So che finalmente i miei amici si sono sposati, ed hanno anche due bambini. Sono otto anni che non ci vediamo. Un giorno tornerò a trovarli.
Ma sarà soltanto un altro passaggio della cometa…
Questa è la verità, non appartengo a niente e nessuno, non ho un posto dove tornare, non ho passato. Il mio passato è morto mentre viveva, ogni giorno la vita riparte da zero.
Guardare indietro, e non trovare un attimo nel quale ti sei sentito riscaldato, protetto. Sempre solo, sempre solo.
Sempre unico artefice della mia vita, sempre manipolatore del mondo. Una forza innaturale, una diversità incelabile, una dimensione esterna al mondo.
Eppure, com’è bello il tramonto, alla sera.
E la… fortuna… di essere ancora qui, ancora padrone del mondo. Ancora intatto, pronto per accogliere la fortuna. Che arriverà.
Ora è arrivata lei. Lei che non parla, che non esprime i suoi sentimenti, ma che mi accarezza e mi bacia. Che mi guarda con occhi così penetranti da farmi distogliere lo sguardo, prima che possa vedermi dentro. Lei che conserva in uno scrigno rosa tutto ciò che le scrivo, e che mi svela ogni giorno un pezzo del suo cuore. Lei che mi mostra quei fogli con innocenza, come se fosse una cosa normale, ed io quasi mi imbarazzo, vorrei potermi commuovere, sento il desiderio di portarla via dal mondo e nascondermi con lei per una vita.
Che sarà con lei? E quanto durerà?
Chi può saperlo, chi vuole saperlo? Quello che so mi basta: lei mi rende sereno, mi fa guardare il cielo e vedere l’azzurro ed il bianco delle nuvole di un azzurro ed un bianco più intensi. Mi lascio guidare dal desiderio di vederla ancora, di baciarla ancora, di fare ancora l’amore con lei. Di tenerle la mano, di scoprirla giorno per giorno. Non c’è tensione, non ci aggrediamo a vicenda. Ci stiamo vicini, ci osserviamo, e potremmo farlo per ore.
Lei mi fa apprezzare tutto ciò che vedo. Filtra il mondo e me lo serve come un gioco del quale scoprire i segreti divertendomi. Lei mi dà la forza di continuare il gioco.
Resta con me, cara lei. Finché lo vorrai.
Una vita alla deriva… Fosse sempre così, sarei felice lo stesso.
Domani la mia personale guerra col mondo ricomincerà. Io mi sveglierò senza aver dormito e sarò pronto a vincere ancora. Avrò il sorriso e la potenza di chi sa di aver già vinto, di chi sa di essere il proprio unico avversario.
Spero che un giorno questa guerra possa finire, definitivamente. E spero, spero… che la pace mi trovi ancora vivo.
Una vita alla deriva… ma ora sorrido.
steelman, 23 maggio 2004.