Una vita ridotta
Scilla, 2008
Una vita ridotta. Accartocciata come una lattina dimenticata in un angolo buio della strada che nessuno vedrà mai. E non sarà messa insieme alle altre lattine, per essere riciclata. Non sarà nemmeno presa a sassate e neppure a calci o riempita di sabbia e usata come bersaglio per tirare con la fionda appena finita, calibrando la giusta apertura del ramo biforcuto, la robustezza dell’elastico, la potenza della gittata. Povera immagine che rimaneva nella testa di Saverio, il quale non vedeva niente del tramonto che stava guardando, appoggiato alla prua della sua barca, l’unica che era rimasta sulla spiaggia, l’unica per la quale esisteva un gancio e una carrucola collegata ad un argano per portarla a riva. L’unica d’una teoria di barche che perduravano solo nella sua memoria o nella memoria di qualche vecchio che ancora passava i pomeriggi seduto sul muretto della chiesa, guardando il mare. Prendendo il fresco. Aspettando, come diceva l’anziano mastro Ture, il momento del trapasso. La nascita dei lidi aveva portato alla naturale estinzione delle barche. Saverio la prendeva come un’alternanza spontanea dello stato delle cose. Con le barche si andava a pescare. Ma ormai non era rimasto più nessuno che sapesse o potesse pescare. Chi ce la faceva a varare la barca? A caricare gli arnesi? Stare giornate intere sotto il sole per poi arrivare a casa senza aver preso neanche un’acciuga. Agganciare nuovamente la barca, portarla a secco, girare l’argano, farla scivolare sulle tavole unte e raccogliere la poca pesca. Nemmeno il suo lavoro, quello vero da carpentiere, gli serviva. Messo in cassa integrazione e poi licenziato alla sua età.
Continuava, Saverio, a stare in spiaggia. Sogguardando, con gli occhi chiusi per la forte luce del sole, tutto ciò che succedeva lì attorno. La gente sotto gli ombrelloni. I bambini spumeggianti nell’acqua. Le correnti marine che si spostavano velocemente e che stabilivano l’ora esatta. Un orologio senza lancette che Saverio sapeva leggere ed interpretare, servendosi dell’inafferrabile moto delle onde. Stabiliva anche le qualità di pesce che stava transitando con quelle onde che si infrangevano e incrociavano e intersecavano creando un movimento che per i bagnanti era un mero susseguirsi di flutti marini mentre per Saverio era uno spartito di riflessi luminosi che indicavano il giusto passaggio del tempo, del volgere del suo pensiero, del ricordo di un pescato fiorente, del lutto per la fine di un mondo. Non si addolorava per questo, Saverio. È nello stato delle cose, diceva. Nascere, crescere, morire. I primi due verbi li aveva ben addomesticati, il terzo gli mancava e non avrebbe fatto in tempo a testimoniarne l’esperienza.
Chissà.
Aveva trovato, in un armadio dentro casa, un libro di quand’era studente con, all’interno, una dedica. Quella dedica, di scrittura femminile, lo aveva costretto a risalire mentalmente alla mano e al volto di colei che l’aveva scritta e da quel giorno non aveva fatto altro che tentare di ricomporre quel volto, quella storia, quel pezzo di vita che aveva sigillato con un timbro di cera lacca e che aveva riposto in uno scantinato della sua coscienza. La sua esperienza universitaria ritornava alla memoria attraverso quella dedica. Roma. «La Sapienza». Il treno. Il suo appartamento romano. Gli esami. La necessità di tornare a casa. L’abbandono di quel mondo verso il quale si sentiva portato ma dal quale fu distolto da un problema che, ormai, non gli interessava. E se glielo avesse regalato Anna? Per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordarsi.
Anna, la più bella ragazza del vicolo, della piazza e, diciamolo pure, dell’intera spiaggia, ora aveva un suo negozietto che gravava sulla piazzetta prospicente la marina, accanto alla chiesa. Nonostante avesse fatto di tutto per preservare quel corpo magnifico che si ritrovava tra i diciotto e i trent’anni, adesso risultava vistosamente ingrassata, malgrado gli abbondanti parei estivi che mitigavano i fianchi ancora gagliardamente esposti da bikini morigerati, rispetto a quelli mozzafiato indossati da ragazza. Gonnone e maglioni facevano il paio durante l’inverno. Metodicamente, esponeva i prodotti che teneva nel suo negozio accanto alla piccola vetrina, sopra il cotto della piazza. Metodicamente guardava verso la spiaggia per soppesare la quantità di turisti e regolarsi sulle cose da esporre. Saverio era lì, come tutte le sere. Accanto alla sua barca, con gli occhi verso il tramonto ad auscultare la marea che si contorceva davanti al bagnasciuga. Essersi chiariti non era servito a molto. Essersi chiariti quando? Come? In che modo? Di che cosa? Non ricordava nemmeno lei, tanto il tempo aveva negato ogni suo ricordo. Ogni loro ricordo. Ormai si salutavano, quando si salutavano, perché erano del quartiere, perché si conoscevano da una vita, perché i loro genitori si erano sempre rispettati, perché capitava che Saverio avesse necessità di comprare qualcosa per i suoi nipoti proprio lì da lei. E ci andava come poteva andare in qualsiasi negozio. Saverio arrivava col nipote, chiedeva, comprava, salutava. Cercava, Saverio, di non guardare gli occhi di Anna splendenti ancora di una bellezza incomparabile, di una particolare dolcezza che riportava a palpitazioni ormai sotterrate sotto macigni di granito. Macigni che stavano a scorta del vivere di tutti i giorni. Costruiti a salvaguardia di un amore recluso o del proprio dolore. Non sapeva Anna quale dei due sentimenti proteggesse meglio. Anche Saverio aveva costruito muri molto alti dove il solo avvicinarsi di Anna faceva fibrillare un mondo fatto di tristi certezze dove le infiltrazioni di un’autentica felicità potevano far crollare anni di sentimenti taciuti.
Erano belli entrambi, Saverio e Anna. Giovani. D’una gioventù piena di risorse. Abitavano nella stessa strada: Saverio più discosto dalla marina, Anna proprio in piazzetta. Andavano a scuola in treno. Uno debitamente lontano dall’altra. In stazione si ignoravano o si detestavano quando incappavano nella stessa compagnia. Ma un caso fortuito (o il destino?) li volle, ancora studenti, nella stessa compagnia teatrale e l’immancabile Romeo e Giulietta di Shakespeare fece da imperturbabile ruffiano. Durante le prove le prime avvisaglie d’un’attrazione travolgente e calda, immensa eppure tenera. Quelle parole, date a memoria, erano il ricalco del loro sentimento. E più il tempo passava, più gli interventi del regista si diradavano, ammirato, costui, dalla bellezza e dalla spontaneità della dizione, del portamento, del sentimento espresso. Immaginò certo che tra i due fosse nata o stesse nascendo una simpatia. Così come il resto della compagnia, gli amici e compagni di scuola si erano accorti dell’assoluta dipendenza l’uno dall’altra sul palcoscenico, un amore descritto nelle più intime pieghe dell’anima.
Anna incalzava Saverio e Saverio rispondeva, come riusciva. Saverio aveva paura della bellezza della sua partner. Non poteva credere che Anna facesse sul serio quando lo accarezzava, gli prendeva la mano, gli posava le sue mani sulle spalle, gli toccava il collo, poggiava le sue labbra vicino alla sua guancia. Certo nella finzione teatrale, certo seguita dal regista, certo osservata da tutti gli altri amici.
Fu la scena del bacio che, si dice, determinò la fine di questo idillio.
Saverio non poteva accettare per vera la confessione che Anna gli fece di non essere stata mai baciata da nessuno. Una bellezza marmorea come la sua, un’avvenenza fisica naturale come quella che Anna si ritrovava, sicuramente aveva mosso più di un desiderio sanguigno in tutti i ragazzi che le stavano attorno in piazza, alla stazione, all’uscita della messa, ai giardini. Anna se ne ebbe a male della ritrosia di Saverio, del fatto che la considerava una bella copertina per la locandina dello spettacolo e niente più. La tragedia di Shakespeare, però, lavorava loro malgrado e la necessità d’un bacio sul palcoscenico fece il resto.
Quando Saverio vide Anna vestita da Giulietta, con quell’abito d’epoca che ritagliava l’incavo del seno in un quadrato di merletti rossi e neri e un filo di perle che le incorniciava il collo eburneo e l’acconciatura che esaltava la potenza dei suoi grandi occhi neri e il modellato delle labbra ricavate da un qualche scultore rinascimentale sui marmi di Carrara, credette di svenire. Balbettò qualcosa ma il regista gli fu sopra. «Voce in maschera», gli urlò, «qui in fondo non si sente niente!».
Nelle prove il bacio era stato accennato. Andava bene così. Ma alla prima, quando Anna giunse sul palcoscenico vestita da Giulietta, Saverio, nella sconvolta melanconia che lo prese non riuscì a fingere e sulle labbra di Anna lasciò tutto se stesso.
C’è chi dice che in quel bacio c’era troppo sentimento per essere teatrale. C’è chi dice che per Saverio, Anna era troppo bella e il ragazzo non avrebbe retto alla gelosia. C’è chi dice che i genitori di entrambi se ne accorsero e vollero immediati chiarimenti dai due innamorati, provocando una crisi. C’è chi dice che l’amore tra i due era troppo grande, così grande da pretendere enormi sacrifici e i due non se la sentirono di continuare un idillio infinitamente profondo ma già inquinato dall’insistenza dei parenti per non parlare degli amici. Ma gli amici smentiscono dicendo che loro, caso mai, li proteggevano, li aiutavano a vedersi nei momenti e nei luoghi più impensati e solo gli amici sanno la verità che tengono ben nascosta ancora adesso che hanno superato la cinquantina. C’è chi dice, infine, che la poesia presente in quei momenti non si riuscì più ad avere, né a condividere. Saranno state le parole di Shakespeare oppure ciò che stavano vivendo? E forse, la prosaicità della vita che li stava aspettando li scaraventò in un vortice in cui né Saverio, né Anna non vollero o non furono in grado di riprendersi.
I fatti vogliono Saverio scappato a Roma, dopo l’esame di stato, nel suo estremo tentativo universitario, poi naufragato per cause indipendenti dalla sua volontà e Anna sposata con uno dei tanti che le giravano intorno, fatto che vide Saverio reagire nella più assoluta indifferenza e Anna divorziare per «mancanza di poesia», come disse ad un’amica. Fu giocoforza, per Saverio, tornare al paese e intraprendere millanta lavori diversi. Divenne consueto, per Anna, vivere numerose quante inutili storie.
Non ricordano più, sia l’uno sia l’altra, che cosa li divise, né che cosa li unì. Si riconoscono come un déjà‐vu della loro vita, un qualcosa che hanno fatto o stavano per fare e tutte le sere credono di rivivere gli affanni e i turbamenti di ogni appuntamento clandestino, l’ingordigia di non riuscire a trattenersi quando si ritrovavano insieme da soli, l’angoscia, in seguito, d’un sentimento lungamente voluto ma dolorosamente represso. La ricerca disperata d’una carezza o di uno sguardo per riuscire a sopravvivere. Il sorriso rubato al tempo o al destino che ormai li vede distanti e sconosciuti. Sconosciuti come i clienti di un centro commerciale. Più distanti del vicolo che conduce dalla spiaggia alla piazza.