Velia , Parmenide e l'eredità culturale
Narra Strabone:‐
“Chi doppia il capo (Sinus Paestanus) trova contiguo un altro golfo, in cui è la città che i colonizzatori Focei chiamano Elea, da cui vennero Parmenide e Zenone Pitagorici. A mio parere, a causa di quelli furono ben governati anche in antico e perciò resistettero ai Lucani e ai Poseidoniati e ne risultarono più forti, benché inferiori e per estensione del territorio e per numero di abitanti.”‐
Da queste poche frasi siamo già in grado di comprendere l’importanza di uomo politico che ebbe Parmenide per la città di Velia; nella quale ancora nel IV sec. si parlava e si scriveva in greco ed a cui il Senato romano aveva riconosciuto il diritto di conservare i caratteri della grecità.
Lasciamo adesso la parola su Velia all’archeologo che più l’amò, ossia Mario Napoli:‐ (Civiltà della Magna Graecia‐Gennaio 1985)
“Dati obbiettivi fanno oggi di Velia un terreno ideale per la ricerca archeologica. Infatti, mentre molte città della Magna Graecia, e basterebbe ricordare Neapolis, Reggio e Taranto, hanno continuato a vivere oltre i tempi dell’età antica, senza soluzione di continuità, per cui vivendo hanno cancellato quasi ogni traccia del loro passato, e mentre di molte altre città o si ignora il sito preciso, o fatti dovuti all’uomo e alla natura hanno distrutto tutto o grandissima parte, Velia è, invece, attualmente disponibile per il piccone dell’archeologo.”‐
Mario Napoli ci spiega che:‐”La linea della spiaggia era molto più arretrata, per cui il colle, sulla quale è l’acropoli, in antico si protendeva nel mare, e tutta la collina, sul crinale della quale corrono le mura, divideva l’abitato in due quartieri urbanisticamente distinti. Il quartiere settentrionale, più piccolo, era in funzione del porto fluviale alle foci dell’Alento, che in età antica scorreva leggermente spostato a sud, nel suo tratto finale lambendo il colle di Velia e sfociando immediatamente a monte dell’attuale strada provinciale.”‐ L’archeologo parla poi delle isole “Enotridi”, attualmente riconoscibili in quanto unici punti calcarei nella piana alluvionale; queste furono ricordate da Strabone e da Plinio (N.H., III, 85) che le ubica con precisione “contra Veliam”, denominandole Pontia et Isacia. Il piccolo villaggio in “poligonale” venuto alla luce sull’acropoli potrebbe essere la “città” Enotria che i Focei “conquistarono”. Per quanto riguarda il quartiere meridionale, più ampio del settentrionale, questi aveva un suo porto ai piedi dell’acropoli ed un altro doveva possederlo alle foci della fiumarella Santa Barbara; possedeva un carattere politico e residenziale e coincideva, secondo il Napoli, alla città costruita dai Focei dopo il 540 a.C.. Il quartiere subì, nel tempo, numerose trasformazioni, specie nella zona portuale, a causa dell’insabbiamento dovuto al mare ed a fatti alluvionali. tra la fine del IV e gli inizi del III sec. a. C., avvenne difatti una seconda trasformazione che interessò anche la parte del quartiere oggi visibile ai nostri occhi. L’importanza dei lavori costrinse anche al potenziamento delle fabbriche di mattoni velini, ma, a conti fatti, l’urbanistica non ne venne di molto mutata, a parte l’impossibilità dell’uso delle aree portuali. Per quanto riguarda l’acropoli, che è posta fuori del giro delle mura, questa, con un suo ingresso, appare ben differenziata rispetto ai due quartieri precedentemente annotati. Vi sono state rinvenute ceramiche greche appartenenti al 540 a.C. e si profilano in essa le fasi più antiche della costruzione di Velia. Abbiamo ricordato il villaggio in poligonale, il quale verrà successivamente coperto da un grande muro di terrazzamento verso il 480 a.C. su cui, nel punto più alto, sarà costruito poi un tempio ionico che appare oggi con una parte dello stereobate. La strada di accesso all’acropoli risale alla terza fase costruttiva , ossia tra la fine del V e gli inizi del IV sec. a.C. L’elemento di congiunzione tra i due quartieri, settentrionale e meridionale è proprio la strada che, partendo da l porto sull’Alento, penetra da Porta Marina Nord nel quartiere settentrionale, si inerpica sul colle e, attraversando Porta Rosa, discende verso il quartiere meridionale uscendo da Porta Marina Sud. La famosa “Porta Rosa”, regalataci dall’arguzia e dalla tenacia di Mario Napoli, venne scoperta, come narrano gli stessi operai presenti, quasi per caso. Ma occorre dire che l’archeologo aveva da sempre “intuito” la presenza di un collegamento tra i due quartieri. Si racconta che, in una qualsiasi giornata di lavoro, gli operai, durante una pausa, parlassero all’archeologo di un posto, chiamato in dialetto “voccolo”, dove i pastori si riparavano dal freddo con le pecore, perché formava nel vano della montagna una specie di grotta; fu questa la “illuminazione” che spinse Napoli a cominciare gli scavi proprio in quel luogo dove, alla luce del tramonto, comparvero i primi massi di Porta Rosa, colorati dal sole crepuscolare, di rosa. Essendo proprio “Rosa” il nome della moglie, Mario Napoli volle battezzare così la splendida costruzione datata circa alla metà del IV sec. che apparve in giorni successivi di scavo. Ecco come lo stesso archeologo la descrive:‐
“è il più splendido monumento di architettura civile della Magna Graecia. Il solenne arco, costruito in conci radiali, senza malta, costituisce l’anello di congiunzione tra le espressioni architettoniche simili dell’area greca del Mediterraneo orientale ed il mondo occidentale, e ci chiarisce attraverso quali tramiti l’area etrusco‐laziale abbia appreso a costruire archi a conci radiali. “‐
Difatti, sino alla scoperta di Porta Rosa, si era stati propensi ad attribuire proprio agli etruschi “l’invenzione” di tale tipo di porta, pur tenendo conto che, fin dalla preistoria era in uso una sorta di arco (detto falso arco) costruito non da conci rastremati bensì da pietre piatte per cui era logico pensare che la tecnica costruttiva si fosse affinata poi nel tempo, utilizzata di volta in volta dagli egizi, dai babilonesi , dai greci , (i quali li usavano generalmente nelle costruzioni civili, quali magazzini e fognature), dagli assiri, a cui si devono i primi palazzi con soffitti ad arco e dagli etruschi, che li utilizzavano soprattutto nei ponti e nelle porte. E’ interessante annotare che, in Moio della Civitella, gli scavi sistematici diretti da M. Napoli nel 1966, riportarono alla luce un “frourio”, ossia un centro fortificato, con le fondazioni di un grande ambiente quadrangolare in cui era inserita un porta ad arco e mura (detta porta del castagno), risalente al IV sec. a.C.
Nel tempo, dopo l’interramento dei porti, che sempre più impediva le un tempo fiorenti attività commerciali di Velia, la città venne lentamente abbandonata dagli armatori e dai sapienti medici locali a cui le alluvioni avevano sottratto le terme e gli ambienti di lavoro, coperti dal fango. Nell’VIII sec. d.C. le acque alluvionali seppellirono col fango e coi detriti il quartiere meridionale e l’edificio, presentante i caratteri di una basilica paleo‐cristiana, nella quale si vuole fossero stati conservati i resti di Matteo Evangelista. Gli abitanti furono costretti a trovare sistemazione sull’acropoli e, successivamente all’occupazione Longobarda, la Velia di Parmenide si avviò a finire.
Ma non può spegnersi invece il ricordo di quanto significhi, per noi meridionali in particolare la storia di questo passato illustre di filosofia, scienza, arte e cultura, compendiamolo con il ricordo di Parmenide da Elea, da molti considerato il fondatore della scuola Eleatica. Dei suoi scritti sono rimasti solo alcuni frammenti del poema in esametri sulla natura, ma resta il fondamento del suo pensiero:‐ solo l'"essere" è, esiste ed è pensabile, mentre non è pensabile la non esistenza dell'essere o l'esistenza del non‐essere; questo, in quanto ciò che non è, non esiste e perciò non è pensabile. Dell'essere Egli asseriva che esso è imperituro, atemporale, intero, continuo, indivisibile, unico, immobile e sferico. L'essere, in quanto immutabile, per Parmenide non si conosce per mezzo dell'esperienza sensibile, mutevole per definizione, ma grazie alla ragione. Parmenide ci spinge dunque a non restare bloccati nel “tangibile”, ma ad usare “la ragione” a spingere la logica e l’intuizione oltre il visibile, a far volare veloce la navicella spaziale dell’ingegno umano nell’universo, per esplorare con la mente territori che, al momento, nessun uomo può raggiungere con i mezzi che la scienza mette a disposizione. La storia della civiltà insegna all’uomo che i grandi pensatori del passato, con la ragione e l’intuizione, hanno varcato i cieli del visibile, descrivendo cose di cui soltantosecoli dopo la piccola e frammentaria scienza umana ha potuto dimostrare l’esistenza. Oggi la filosofia e la scienza camminano vicine e la cultura continua a rappresentare il faro di luce nelle tenebre dell’ignoranza, dell’indifferenza, della brutalità, della sopraffazione...