Via Portocastro 12 (Continuo I)
Riesco a sentire solo il rumore che fanno le onde che fanno il nido sugli scogli. E' un posto dove non sono mai stato. Mi ritrovo a camminare in quella che sembra una chiesa, di più, una cattedrale; cammino in un luogo sacro che non ha un dio se non il mare blu, potente, paziente, silenzioso e vecchio come i suoi fondali. Le ombre delle colonne e degli archi maestosi si alternano ad una luce affilata ma un poò sbiadita, il sole sembra non sentirsi bene però non è malato, è malinconico. Mentre allineo i miei passi decisamente dubbiosi, il sale delle acque conquista il mio olfatto, non so dove andare ma il mio corpo procede come caduto in un'ipnosi mistica. Sono nell'unico posto dove vorrei essere, tra il mio venerato mare ed un posto che mi piange le sue lacrime d'arte addosso, mi sento come in un purgatorio meraviglioso, l'anticamera del paradiso. Il vento mi abbraccia con la sua freschezza e una rugiada di salsedine invade la mia pelle violentata dai raggi del sole. Procedo, cammino. Mi sento leggero come una montagna libera dalla gravità, i colori si rincorrono come dei bambini in un cortile.Dopo aver calpestato con rispetto l'ultimo mosaico tatuato in terra, un pavimento a scacchi mi accoglie con un ghigno e mi porta ad una scalinata che conduce in basso, verso il mare.E' fatta di pietra, vecchia come i ricordi di un uomo e conquistata dall'edera accasciata su ogni singolo gradino, mentre qui e lì ci sono dei ciclamini nati di loro spontanea volontà, sembrano vecchi pescatori solitari, gli amatissimi di Portocastro. Me ne innamoro e scivolo sulla sua pietra rugosa, percependone ogni anno, ogni secondo che ha condiviso con il Vecchio Blu. Mi blocco dolcemente sul terzultimo scalino per raccogliere le forze e gettare i miei occhi nelle acque, sfiorare la punte delle dita del mare. Sospiro.
Dalla stanza della mia anima fino al letto della mia mente inizia a spandersi con una calma poetica un profumo vaniglia che eccita il mio cuore fino a farlo sciogliere in una risata di sollievo misto ad ansia. Dopo aver disceso gli ultimi scalini, dinnanzi a me si staglia una spiaggia di pietra, un intarsio di lastre che sembrano aver piantato le proprie radici fra le sabbie, una penisola di formidabile bellezza e malinconia che termina con un muretto di mattoni che, non sembra vero, un tempo erano rossi. Un lampione ottocentesco si aggrappa al margine di quella specie di piazzetta e dopo di lui gli scogli e dopo ancora l'immensità. Guardando a sinistra verso il continuo della costa, un vecchio palazzo dell'inizio del Novecento se ne sta accovacciato a fissare l'orizzonte, è immobile ma così voglioso di gettarsi e dare vita ad una nuova famiglia di scogli.
C'è un filo di nebbia. Non so se sia mattina o pomeriggio ma voglio che sia il secondo.
La mia vista si fa strada tra le tinte chiare e sbiadite del sole e della schiuma marina, poi si stupisce di quelle scure delle pietre laviche che mi tengono a galla: un miraggio, poi qualcosa in più.
Mi avvicino con un'inutile cautela mentre quella sagoma rientra pian piano nell'ordine della logica, arranco verso di lei e i contorni appaiono come una visione.
E' un ragazza seduta con le ginocchia al petto sul muretto. Ha strappato letteralmente il colore ai tronchi degli alberi dell'Eden e ne ha fatto una livrea maestosa per i suoi capelli mossi dall'anima dei sogni. Non guarda il mare, quindi posso scivolare sul suo profilo come una goccia di pioggia sul vetro ed è in quel momento che ho espresso il desiderio di un temporale infinito. Ha dei lineamenti duri come il cioccolato e dolci come il marmo. E' interminabile.
L'occhio sinistro che fissa tutto il niente che ha davanti ha la forma di un gatto accovacciato, sonnacchioso ma vigile come un leopardo; le sue labbra sono la culla di un bambino venuto alla luce tanto tempo fa, un bacio di quella ragazza distratta non potrebbe che essere nuova vita, vita eterna.
In quella ninna nanna dei sensi riesco a sentire il suo profumo.
Io sono morto in quel preciso momento. Non perchè uno schiaffo d'acqua sugli scogli ha attirato il suo sguardo sulla distesa marina e nemmeno per il suono che fa il sole quando ansima: io avevo già fatto l'amore con quella splendida madre natura sul cumulo ordinato di mattoni. E non mi è venuto in mente come quando ci si ricorda di aver un appuntamento importante, ma come quando ci casca addosso la pioggia scrosciante dell'amore, accompagnata dai tuoni della sofferenza e dai lampi di una felicità fugace come un arcobaleno di notte. L'avevo amata.
Si gira.
Mi guarda.
T'amerei ancora dolce ragazza del mare.
Una martellata all'anima:" Dottore, sta aprendo gli occhi."