Volevo solo diventare uno scrittore
A volte le cose non vanno come avremmo voluto.
Io volevo solo diventare uno scrittore.
Ma dopo quella giornata capii il reale e opprimente senso di questa anomala battuta.
Agnone. Anonimo Agglomerato Altomolisano, Abitanti: 6000.
Precisamente, Liceo Scientifico Giovanni Paolo I, corridoio del 2° piano, ricreazione.
L’unico momento in cui folle di ragazzini del biennio, dai volti ancora segnati dalle occhiaie delle piccole ore e da tre ore consecutive di latino, spopolano le poche ed esigue e poche classi per riversarsi come d’impulso per il corridoio, senza mete precise, dato che durante quell’ora tutto è concesso, senza scopi definiti e senza fini utili, distribuiti in gruppi apparentemente omogenei.
Magari ce ne fosse qualcuno diverso… qualche punk dalla capigliatura ridicola e sguardo incazzato, qualche timido metallaro dal braccio completamente borchiato e con la seconda pelle di cuoio nero luccicante, qualche rocker capellone e dallo sguardo confuso, causa gli spinelli, qualche dark asociale dallo sguardo cupo e trucco pesante spaventoso, qualche tecnoboy, qualcuno con i rasta, qualcuno…diverso dalla folla, da tutti.
NO. Sono tutti ‘truzzi’, tutti uguali, tutti aspiranti ‘tronisti’, aspiranti modelli col fisico inesistente, aspiranti calciatori dislessici alla Totti, aspiranti tennisti ansimanti e lamentosi alla Nadal. E tutti vestiti nello stesso modo. Cappello rosa con un coniglietto bianco disegnato sopra, jeans calati fino alle ginocchia, tali da far notare il proprio didietro, spropositato o inesistente, camicette nere o magliette dai colori o dalle scritte inverosimili.
E tutti che, nonostante siano alti un metro e una banana, ti spintonano, con le spalle, nonostante sia sceso giù perché chiamato dalla prof in quell’ora di fuoco. Peccato che con il loro finto fisicaccio non siano proprio dei maghi nel contatto, quindi scendo e in mezzo a quella miriade di ragazzini sporgo la testa per poter vedere la professoressa. Qualcuno mi strattona. Basta. Gomitata. Allungo il gomito e lo blocco fino a pochi centimetri dallo stomaco della professoressa, che mi guarda stupita.
Mi scuso imbarazzato, pensando in pochi attimi a come sarebbe cambiata la mia vita se avessi allungato il colpo, ma con un sospiro di sollievo saluto la prof con una voce quasi strozzata.
Lei risponde con un sorriso imbarazzante e mi guarda, dalle fessure dei suoi occhi, la prof, secchissima. La professione l’ha rovinata. Tutti i professori fanno la solita fine: quella di finire in questo stato, spesso diventando acidi, spesso pignoli, spesso arrabbiatissimi (vorrei usare un termine meno attenuato), ma la prof in questione non è ancora arrivata a questi livelli.
“Ho letto il tuo racconto” ‐ sorriso smagliante, anche se per metà.
“Allora, professoré. Come è?” ‐ I miei occhi luccicano per la speranza. Ma in un attimo il volto sereno della prof, il suo sorriso radioso, anche se un po’ incompleto e ridicolo, si trasforma in una smorfia di compatimento e compassione, con alcune smagliature sopra le labbra che preludono a una piccola insoddisfazione, degli occhi rimangono solo le pupille, dato che le palpebre si socchiudono sempre di più.
“Mah… A parte il contenuto, troppo elaborato, dove un lettore normale, nonostante sia attento, potrebbe perdere il filo…”
‘Meno male’ penso. ‘Ciò che mi importa è il contesto e la tesi di fondo’. La prof riprende fiato e continua, notando il mio sguardo assente per un attimo, perso nei miei pensieri.
“…la forma, che presenta molti errori, il narratore esterno, usato molto spesso impropriamente…e il contesto, troppo drammatico e la tesi…troppo…”
“Pessimista?”Aggiungo con un pizzico di voce, tra l’umiliazione e la preoccupazione.
“Diciamo di sì...” Certo…il racconto che ho passato alla prof, una storia ambientata in epoca post‐nucleare con una filosofia basata solo sulla sopravvivenza forzata, non può essere paragonabile a un volgare romanzo rosa, tutto fiori e cuoricini, bacetti e pomiciate alla “Tre metri sopra il cielo”.
“A parte tutto ciò... il resto va bene” cioè il titolo: ‘A due passi dall’inferno’, così tronfio e pompato, è l’unica cosa che va a genio alla prof.
“Presentalo in segreteria.”
“Prof! Meglio se glielo do a lei. Là è un ….”
“Non preoccuparti. Tu, scendi. Vai alla segreteria degli studenti, dici: “Sono Guido e sono qui per consegnare il racconto per il progetto ‘ALUNNI‐SCRITTORI’.‐ E’ sicuro che te lo pubblicheranno insieme ai lavori degli altri ragazzi.”
Un ‘arrivederci poco convinto e mi faccio largo tra la folla di ragazzini fino alla segreteria.
Ragazzini. Li guardo e mi ricordo per qualche attimo quando io facevo il primo. Sembrano essere tutti esaltati come me due anni fa, gasati, felici di essere finalmente al liceo, pieni di progetti, desideri di diventare qualcuno entro i prossimi cinque anni, ambizioni di essere enfant prodighe. Ricordi veloci della mia prima adolescenza mi attraversano mentre scendo le scale. Il ricordo di quando sognavo assoli di chitarra incitati da un pubblico esaltato, nonostante all’epoca e tutt’ora non conosca nemmeno un accordo, l’immagine del pugno chiuso esultante per l’ultimo punto di un torneo nazionale, tennis o calcio non c’era differenza. Ma in pochi anni si cambia tutto.
“Cosa vuoi?” Una voce forte, acida, roca mi parla da dietro il tavolo. E’ la voce di chi ha vissuto la vita, ha visto di tutto, un tono capace di farti capire cosa ha vissuto quella già vecchia segretaria.
Ha vent’anni dicono, ma non ci credo (la scuola rovina tutti, alunni, bidelli, presidi, insegnanti e addetti agli uffici).
“Avevo intenzione di partecipare al concorso ALUNNI‐SCRITTORI” ‐ dico cercando di abbozzare un sorrisino timido sul viso affinché il dialogo sia teso alla più possibile gentilezza.
La segretaria con grazia, garbo ed eleganza mi strappa dalle mani il foglio con il racconto: gli occhi scorrono nervosi e rapidi a destra e a sinistra da dietro gli occhiali, mentre ogni tanto la testa viene scossa profondamente: le labbra che sembrano muoversi invitando il resto del corpo alla calma.
Io, non so che fare. Allungo il collo e guardo tutte le cartacce sul tavolo, tutte sistemate ordinatamente senza nessun ordine logico e cronologico, a destra e a sinistra, alcune disposte in livelli in due o tre strati sopra il computer.
“Sono documenti d’ufficio. Maleducato. Non si guarda.” Si intromette subito un’altra donna, compostamente seduta su una poltroncina, con i piedi sul tavolo e le mani coperte e ricoperte di anelli e bracciali denotanti un gusto estetico molto discutibile, una sulla parte della tastiera libera dai fogli, l’altra che regge in mano una tazza di caffè.
Lei si risistema gli occhiali con il dito medio, poi, con uno sguardo sufficiente e abbastanza scocciato ricomincia a guardare. Zitto, aspetto che qualcuno parli.
“Oggi, secondo il Pof e la nota A del paragrafo B della direttiva ministeriale C/17 il progetto sarebbe scaduto proprio un’ora fa. Ma vai da Marcella e vedi cosa può fare.”
Cento metri di corsa, di affanni e dolori alla milza e sono davanti all’altra segreteria.
“Allora?” dice la segretaria dai capelli rossi, intenta a sfogliare testi di alta cultura.
Solita richiesta. La segretaria poggia Novella2000 sul tavolo e con grazia mi prende il racconto.
“Sono 50 pagine.”
”E allora?”
“Il progetto ne richiede massimo 40.”
“Ma io…”con voce strozzata e supplicante.
“Senti…Vai da Paola e vedi che ti dice.”
Da Paola. “Allora. Vai un attimo da Peppino, veloce se no poi non hai più tempo.”.
Il brizzolato uomo dallo sguardo perso, detto Peppino: “Vai da Marcella.”.
Marcella. “Cosa ci fai di nuovo qui? Vai da Paola. Di corsa se no il concorso scade.”
La storia si ripete altre due volte. E con toni sempre più accesi e arrabbiati rischiano di causarmi un esaurimento nervoso.
Mi arrendo. Salgo in classe meditando vendetta.
Non vogliono lasciarmi partecipare a questo progetto?
Me la caverò da solo. Ci sono tanti editori in giro.
Non penso che a tutto questo per il resto delle lezioni, evitando di aizzarmi per il Che‐Guevara appiccicato sul banco brutalmente sfregiato con il taglierino da Antonio, per la professoressa che mi chiede di come è andata in segreteria, senza sapere di poter peggiorare le cose, per Antonio che con una sberla mi fa sbafare il disegno di Tecnica al quale ero stato una notte intera, per Antonio che ride, per Antonio che quando lo minaccio, scappa fuori a nascondersi dentro gli armadietti.
Il terzo l’ho trascorso più o meno così. Ma se mi trovo qualche editore il racconto, insieme a me, potrà trovare la luce del sole.
Mentre esco da scuola, strattono per sbaglio un quindicenne, che cammina imperterrito a testa bassa. Lo guardo negli occhi. Tristi, mesti, malinconici. Non so perché, dati tutti i miei impegni, mi fermo a guardarlo per un attimo camminare, e poi compatirlo. E mi rispecchio nei suoi occhi smarriti.
La prima cosa che penso…non è più un mammoccio esaltato, gasato, e cosciente, forse, di una cosa che quei bambini del primo non sanno. Il secondo anno al liceo è così diverso e così uguale al primo. Stesse materie, ore e tempo libero. Però lui è diverso da quei bambini che ho visto prima. Leggo in pochi attimi lo smarrimento e il malore nel suo modo di fare in pochi attimi. Avrà capito che i suoi sogni e le sue ambizioni non sono che colossi dai piedi d’argilla, pronti a crollare prima o poi. Ci penso molto mentre cammino e ritorno a casa.
Accendo il pc. E’ una bestia il mio pc, 58Mb di Ram, 5 o 6 Gb di Hard Disk e una linea di connessione a 28 kbps garantiti al 60%. Dopo un’ora e un quarto sono in rete a ricercare una qualsiasi casa Editrice. Al Paola (veramente è un ragazzo che si chiama Paolantontonetti Armando, ma per comodità tutti lo chiamano Paola), avevo detto “Lo sai… se poi la scuola non riuscisse a pubblicare il mio racconto, lo sai a chi lo faccio pubblicare? No… Rizzoli è troppo grande… Mondadori? E’ di Berlusconi.... Einaudi? E’ da sfigati. Sellerio Palermo Editore. E’ piccola ma pubblica i Camilleri, Paola, è perfetto.”
Edizioni Termolesi Marino Saia. L’unica trovata. Cosa Faccio?
Spedisco il mio racconto post‐nucleare. 10 minuti di upload. Fatto,
Ora posso godermi l’attesa della risposta dell’editore chattando.
Ed ecco Eugenia su MSN.
GUIDO… HELL… SONO UN MITO… scrive:
:‐D Ciao Ciccia. Lo sai che ho fatto oggi?
Gegy Innamorata…Sei la mia vita…scrive:
Ciao Gui…Che hai fatto?
GUIDO…HELL…SONO UN MITO…scrive:
Ho inviato al direttore di una casa editrice di media importanza un mio racconto.
Gegy Innamorata… Sei la mia vita… scrive:
Ma cosa hai combinato?. Sei uno stupido. ‐_‐‘‘ Pirla Pirla Pirlaccia. Perché?
- Chi ti dice che il direttore possa accettare il tuo racconto?
- Chi ti assicura che il direttore non ti freghi i diritti e il racconto?
- Chi ti assicura che il sito non sia un flop per fregare racconti e idee a pirla come te?
GUIDO…HELL…SONO UN PIRLA…scrive:
Cosa ho combinato? :’(
Gegy Innamorata…Sei la mia vita…scrive:
Non preoccuparti. Vai su 'sto sito che è sicuro. Una mia amica c’ha pubblicato un libro di illustrazioni.. Clicco sul link. Un sito serio, professionale, dalla schermata si apre un POP UP di aspetto marmoreo, su cui è scritto ‘Stampa il tuo libro’. CLICCO SUBITO.
Tutta la pagina ha uno stile molto decoroso, nobile quasi, sfumature gotiche. Ecco la griglia con a sinistra il numero di copie del libro e a destra altri inutili numeracci. 100 Copie. Poche ma buone per farsi un nome. A destra. 800€.
Sono così felice che lascio abbandonare la testa sopra la tastiera molto violentemente.
E CHI CE LI HA 800€? Potrei provare con Italo. E ci provo subito, infatti. Ma mio padre Italo risponde semplice, dolce e carino: No.
Spengo il Pc.
Mi rassegno. Ora ho sedici anni. Ho imparato a conoscere tutti i miei limiti ormai da tanto tempo. Posso continuare a scrivere per me stesso, tenendo i racconti e le storie negli angoli remoti delle cartelle del mio computer, ma ormai anche il sogno di scrivere e pubblicare qualcosa è da archiviare nei meandri della mia mente insieme ai miei miraggi del … da prima adolescenza. In pochi anni sono diventato realista al massimo. Ma ormai ci sono abituato. Non sono più un quattordicenne esaltato o un quindicenne depresso. Ho sedici anni. E ormai, ci sono abituato. Comunque resta il fatto che io desideravo pubblicare qualcosa.
Nemmeno diventare qualcuno.
Volevo solo diventare uno scrittore.