Voynich. Mistero senza tempo. 2

Il Figlio del Sole

Tamhal stava per morire. Era la seconda volta; ma questa sarebbe stata l’ultima e, in fondo, non gli dispiaceva neanche troppo. Sebbene sereno, era stanco e molto malato. Aveva sacrificato la vita al Figlio del Sole e l’aveva fatto con gioia. Considerava un privilegio aver ricevuto un compito tanto grande e onorevole, nonostante gli avesse bruciato letteralmente il corpo, riempiendolo di piaghe e facendogli sputare sangue a ogni accesso di tosse. Sorrise al nuovo giorno, mentre i suoi aiutanti lo portavano a spalla, verso l’ingresso del Tempio. Lo aiutarono a sedersi sullo scranno; intanto Hoczal, da solo, si accingeva a violare il meccanismo segreto, che sbloccava l’enorme pietra, all’ingresso del Sacello. Mentre aspettava si perse nei ricordi: erano passati dieci, incredibili, anni ed erano successe grandi cose.
Dopo il Giorno senza Sole e la Tempesta di Pietre, il Dio si era placato. Poi… poi Tamhal non poté che subire il suo destino misterioso. Chi, all’epoca, era sopravvissuto illeso, aiutava i feriti e si prendeva cura dei morti. Tamhal, acciaccato e malridotto, era pur sempre il Gran Sacerdote. In una barella lo portarono, tremanti, presso il Grande Uovo. Avevano pensato che solo il Serpente Piumato avrebbe potuto deporre un uovo così. Anche Tamhal era sconcertato; chi aveva visto, raccontò che l’oggetto era caduto dal cielo, ma lentamente. Alla fine, lo lasciarono solo appena venne la sera. Lo Sciamano non si reggeva in piedi e non poté scappare via. L’uovo era a pochi metri. Emanava un leggero ronzio ma non lo uccise.
Il giorno dopo Tamhal chiese da bere. Ci volle un po’, poi mandarono un bambino con della frutta e una brocca d’acqua. Nessuno era in grado di curarlo né di ricomporgli la frattura al femore; la gamba si era gonfiata. Il Sacerdote febbricitante perdeva sempre più spesso i sensi. Chiese a Hoczal, che allora era solo un ragazzo, di cercare degli unguenti nella sua capanna, anche se era quasi certo che non potesse capire.
La seconda notte avvenne un altro prodigio, e il mondo cambiò di nuovo. Il grande uovo si aprì e il suo interno era più luminoso. Nella luce si stagliò una figura: Tamhal credette che il delirio della febbre gli desse le visioni, non era così. L’essere lo vide e lo trascinò facilmente verso l’uovo di luce; era forte pur se di corporatura sottile; era alto il doppio del giovane indio; la sua testa era un ovale allungato e finiva quasi a punta. Al posto del naso due tagli sottili e simmetrici, gli occhi erano grandi, neri e traslucidi come lo spazio infinito. Il Figlio del Sole ribaltò l’ovulo sul sacerdote morente e Tamhal si perse in quella luce accecante.
Al mattino, era completamente guarito sebbene conservasse, sul corpo nudo, i segni delle ustioni. L’uovo era chiuso e del Dio non v’era traccia.
I suoi, vedendolo in forma lo venerarono come una divinità; mentre il piccolo Hoczal si rivelò più sveglio ed efficiente del previsto.
Quella notte il Figlio del Sole ricomparve a Tamhal e, da allora, cominciò a parlargli direttamente nella testa. Fu così che gli insegnò come costruire il Tempio più incredibile degli Olmechi, con la più grande Cripta mai inserita in una piramide. Fu il Figlio del Sole a fargli rivestire una vasca profonda di lunghe barre di metallo rosso; a far scorrere nella vasca l’acqua attraverso un complicato dedalo di canali di pietra. Sempre il Dio indicò a Tamhal la Grande Bolla di Sale, a più di trenta giorni di cammino. I guerrieri, obbedienti e timorosi, partirono per il viaggio nelle terre ignote di Nord Est e ritornarono, illesi, quasi tre mesi dopo, trasportando quintali di sale.
Solo allora, il Figlio del Sole, sembrò ritrovare vitalità. Abbandonò l’uovo in cui restava quasi sempre chiuso e si trasferì nel Tempio, appena terminato.
Le stanze del Dio erano sempre illuminate, anche di notte. Dall’acqua traeva la stessa energia del sole. L’Acqua Santa, nelle vasche, al centro delle camere, diventava verde appena si versava il sale e ribolliva di vapori che solo il Dio poteva inalare… per gli indigeni, respirare il cloruro di sodio, significava morte certa. Tamhal aveva cercato di cautelarsi al meglio, aveva resistito più di dieci anni. Ma tra poco sarebbe toccato al giovane Hoczal, suo successore, di assistere il Dio e di imparare le meraviglie dell’Universo.


‐ Portare fuori il Manoscritto non è impresa facile. – Disse Corbett, senza troppo entusiasmo, ma Claire lo rintuzzò, pur conservando la sua amabilità:
‐ Dai Bill, non fare il “secchione” tu qui sei il Boss non l’ultima matricola… mica vorrai riempire mille scartoffie? – poi, rivolta al giovane che Davide aveva già incontrato – Il Centro Montaggi è vicino, l’amico di Allen è già allertato e preparerà le attrezzature occorrenti… non voglio vederti frustrato, magari nel giorno più importante della tua vita! ‐
Effettivamente si trattava di un libro, neanche troppo appetitoso per i collezionisti, l’interesse per il Voynich era puramente scientifico. Corbett era troppo eccitato per resistere.

Rapiti!

Davide non respirava bene; si sentiva come quando, da piccolo aveva la febbre. Un suono sordo continuava a ronzargli in testa, finché non si svegliò del tutto. Le luci, intorno, erano soffuse, aveva freddo e le ossa intorpidite. Era semi‐sdraiato su una poltroncina e bloccato; era imbrigliato per le spalle oltre che per il bacino. Le cinture del velivolo erano speciali e pur avendo le mani libere, non c’era modo di sganciarle. Tentò di spingere col corpo ma si accasciò per una fitta lancinante al petto. Il dolore lo liberò del tutto dal torpore, forse era stato drogato, ma adesso ricordava.
La donna del professore lo aveva invitato a restare a Yale, per la notte: poteva usare la sua stanza, mentre lei, come capitava spesso, avrebbe dormito con Corbett; ormai la loro relazione non era più un segreto.
La mattina dopo si mossero presto, col Voynich in uno speciale contenitore, un trolley in metallo, e coibentato. Usarono l’auto di Claire, un enorme SUV con lo scomparto bagagliaio difeso da una rete; forse la donna amava i cani. Davide sedette davanti al fianco di Claire; Dan dietro, con Corbett, che doveva usare il PC.
– Ci metto solo un secondo… – Claire, passando per il centro, s’infilò nel garage di una palazzina bassa, poi con uno sguardo complice a Corbett: – Devo ritirare delle analisi! – sorrise e sparì dietro il primo angolo, portandosi le chiavi. Ancora una volta Corbett dimostrava un profondo disagio ma non aggiunse una sola parola. Anche Davide si sentiva spaesato e fuori posto; aveva dormito male e, in fondo, adesso era in strettissimo contatto con dei perfetti sconosciuti.
Gridò di dolore: qualcosa lo aveva colpito con violenza al fianco; due mani robuste lo strinsero per le orecchie e, con gesto esperto, venne scaraventato sul pavimento del garage. Era buio, intravide stivaletti di tipo militare; alcune figure armate di mitragliette; avevano il volto coperto da passamontagna. Vide strattonare fuori anche Dan. Claire, invece, era tenuta bloccata, con le mani dietro la schiena, da un altro aggressore, presa, forse, mentre saliva le scale. Qualcosa punse Davide al collo… un attimo dopo, libero ma dolorante, si alzò e fece qualche passo; si sentiva stordito. Qualcuno lo indirizzò verso il portello posteriore del SUV, bastò una piccola spinta, cadde, andandosi a incastrare tra i corpi di Corbett e dello studente. Con l’ultimo guizzo di coscienza, vide avvicinarsi il volto angelico di Claire ma non ebbe il tempo per goderne.
Il piccolo aereo continuava la sua corsa verso l’ignoto; solo Davide era sconcertato. Corbett si era ripreso, sedeva silenzioso e cupo. Nella fila dietro, sedeva, nelle stesse condizioni di Davide, la povera Claire. Anch’ella era sveglia, muoveva misteriosamente le labbra ma senza emettere alcun suono… con uno sforzo Davide si puntellò sulle gambe per alzarsi un po’ e avere una visuale migliore. Ci mise un poco a capire ciò che vedeva; forse solo a casa della nonna aveva visto qualcosa di simile: la scienziata col SUV, che s’infilava, gaudente, nel letto di un vecchio, stava pregando. Lo sguardo fisso davanti a sé, con le dita continuava a sgranare un piccolo Rosario.
In fondo al velivolo c’era Dan, dormiva beato nella penombra. Dei terroristi, dei rapitori, chiunque fossero, non c’era traccia. E nemmeno del trolley col Manoscritto!
‐ Hai poi ritirato le analisi, amore? – Corbett era a un posto da Davide, sebbene avesse parlato a voce bassa, il giovane lo senti. Anche Claire avrebbe dovuto sentire ma non rispose. – Beh, se mai sarai mamma dovrai cercarti un padre; vedi “amore” io sono sterile. – la ragazza non fece una grinza. Corbett continuò: – Questo vi mancava, vero? Avere un fratello chirurgo aiuta, a volte, a tenere segreti certi piccoli “incidenti” privati!
‐ Ho bisogno del bagno! – disse Davide, quasi volesse far pressione sui due e rimarcare la sua estraneità al casino in cui lo avevano cacciato. Quelli nemmeno lo ascoltarono, invece dalla porticina che dava accesso alla fusoliera sbucò “qualcosa” che, del terrorista, non aveva nulla. Una donna, sui 50, minuta, asciutta, vestiva un tailleur grigio, sobrio, con la gonna sotto il ginocchio. – Non faccia sciocchezze – disse fredda al ragazzo, poi lo liberò e gli indicò il bagno.
Davide dovette arrangiarsi con la porta socchiusa, bevve pure, avidamente, era l’effetto del narcotico. Riuscì a dare una sbirciata dall’oblò e restò impietrito: era il tramonto, oltre il buio, inconfondibile e lontana, l’Isola di Capri. – Venga fuori. – lo incitò la donna, adesso in mano stringeva una piccola pistola argentata.
Passarono vicino a Dan, l’assistente era terreo, rigido, con le gambe in una posizione innaturale. – Non siamo in vacanza, si sieda – lo incalzò la donna, bloccandolo al sedile – Tra 15 minuti saremo a Pontecagnano. – disse, senza rivolgersi a nessuno, apparentemente.

Stupor Federici

I tre Pellegrini avanzavano con piglio deciso, quasi militaresco, attraverso gli stretti corridoi ricavati nelle mura della Fortezza. Col favore delle tenebre non sembravano più derelitti affaticati ma uomini decisi, dalla pelle bruciata dalla salmastra e i volti segnati dalle rughe dell’avventura.
Avevano partecipato al banchetto, quella sera: la presenza dell’Imperatore a San Nicandro, aveva eccitato gli animi, persino l’Abate, aveva bevuto il vino forte e corposo della Terra di Puglia. Ai pochi astemi era stato propinato un sidro speciale, analcolico, abilmente drogato (come il resto delle libagioni) ora tutti dormivano beati, anche i militi della guarnigione.
I tre si infilarono nella Cappella antica e spoglia; nonostante la luce fioca, intravidero subito l’obiettivo della loro incredibile missione. L’uomo era fermo, in piedi, davanti al piccolo altare di pietra, sembrava pregare ma nel suo atteggiamento non c’era sudditanza. I Pellegrini non fecero nulla per nascondere la loro presenza: l’uomo si voltò e quelli s’avvicinavano decisi. Si fronteggiarono per un attimo, poi i tre caddero su un sol ginocchio, mentre il più vecchio salutava l’Imperatore:
– Stupor Mundi! – disse a testa china, ma l’altro fu lesto a tirarlo su per le spalle.
– No, no, vi prego Gran Maestro, fratelli miei… alzatevi!
I Templari si rimisero in piedi; Federico li salutò stringendo loro le mani, poi abbracciò il Maestro come un padre e si commossero entrambi; pensavano, con amarezza, ai falsi atteggiamenti con cui dovevano mascherare i loro rapporti di stima e rispetto. Il Papato odiava ogni potere forte e genuino, specialmente se suffragato dal carisma sulle masse. La plebe doveva subire nel terrore, senza evolversi e senza entusiasmarsi!
Uno dei Cavalieri s’avvicinò a una panca, poggiandovi un piccolo marchingegno, con una rotella e delle lamelle d’ottone. Tirò una spoletta e la ruota iniziò a girare, imprimendo nelle lamine una vibrazione, da quel momento i loro discorsi erano protetti; nessuno avrebbe potuto spiarli.
– Sono poche le cose che possono sconvolgere un uomo saggio come il mio Maestro – cominciò Federico – vi prego, aggiornatemi su tanta meraviglia…
– I Testi trovati nel Tempio non mentivano, mio Signore: l’Altro Mondo esiste davvero, guardate voi stesso. – così dicendo, trasse da una tasca del mantello, dei fogli di pergamena e li stese, uno dopo l’altro, sul piano dell’altare, dove un grosso candelabro infondeva la luce più incisiva.
Davanti a Federico, scene incredibili si susseguirono lasciandolo di stucco. Genti abbigliate con vesti colorate e fogge mai vedute, le donne erano nude, dalla cintola in su; piante incredibili; uccelli e animali sconosciuti; alte piramidi e scalee infinite, dove folle indicibili si accalcavano ora per la festa, ora per la “pugna”. L’Imperatore era abbagliato e incredulo; il Maestro fece cenno ai confratelli di avvicinarsi:
– Marzio e Nicodemo sono vissuti in quei luoghi per tre anni, poi sono dovuti fuggire per salvare la vita e i segreti. – Prima di profferir parola, però, anche i due trassero dalle borse degli oggetti: nonostante la luce fievole, i manufatti abbagliarono Federico per la loro bellezza aliena e per lo splendore dell’oro e delle pietra preziose, le più grosse che l’Imperatore avesse mai veduto. Federico era abituato ai tesori ma quando ebbe tra le mani gli oggetti si stupì per il loro incredibile peso.
– Vi prego, Altezza, osservate questo disegno. – Nicodemo attirò l’attenzione sull’ultima, grande pergamena – Sembrava raffigurare una battaglia, il sangue dei vinti, scorreva copioso sulle ripide scalee, di una altissima Piramide. Dietro di essa, alcuni uomini ne circondavano un altro dai lineamenti strani: era alto il doppio degli altri, gli arti scheletrici e una testa ovale e glabra. L’essere aveva occhi enormi ma non aveva il naso.
– Ecco, Stupor Mundi, questo, probabilmente, è il tesoro più prezioso! – e indicò col dito lo strano personaggio in fuga. E’ a causa sua che gli Olmechi sono stati sterminati! Quei popoli di la del mare non combattevano per l’oro ma per impadronirsi del Figlio del Sole!
L’imperatore, turbato ma curioso, lo incalzò, voleva sapere di più. – Si, Federico, quell’essere misterioso è venuto dalle Stelle, – intervenne il Gran Maestro – viveva protetto da quel popolo, gli Olmechi. Un solo Sacerdote se ne prende cura, un solo Sacerdote alla volta, da oltre 2000 anni!
‐ Che razza di follie mi state propinando, insomma? – l’Imperatore ebbe uno scatto, dopo tutto non era un bifolco di campagna. I tre abbassarono la testa per deferenza ma il Maestro continuò, anche se con voce più sommessa.
‐ Preferirei che la lingua mi fosse mozzata piuttosto che mentire al mio Imperatore. – poi alzò gli occhi e fissò l'imperatore, era raggiante e non lo nascondeva – A poche leghe, in una casa sicura, il Figlio del Sole e il suo Sacerdote, sono stati salvati: ora sono sotto la protezione e il dominio di Federico.
L’altro non tentò neppure di nascondere la sua goduria.

Meandri e segrete

Federico II si prese cura del misterioso personaggio che il popolo dell’Altro Mondo aveva chiamato: Figlio del Sole. Mai nome fu meno appropriato, però: l’essere era magro come una mantide, nonostante fosse alto oltre due metri. Visto da vicino ricordava più un insetto che un animale. La grande testa, ovale e liscia, lo faceva assomigliare a una formica; tra l’altro, sopra i grandi occhi, aveva delle piccolissime antenne, che si muovevano seguendo l’oggetto della sua attenzione. Il suo assistente Olmeco, era un indigeno di bassa statura e dal viso nobile, di nome Fatu. Era il settantaquattresimo “Servo del sole”, il titolo che spettava agli speciali sacerdoti, che si tramandavano, l’un l’altro, l’alto incarico. Era così dai tempi di Tamhal. I Servi, venivano scelti fin da ragazzi e vivevano solo per servire il Tam, in cambio, Lui entrava nella loro mente e li metteva al corrente di Misteri, riguardanti lo Spazio ed il Tempo che, presto, agivano sulla loro mente facendogli perdere ogni interesse per la vita mondana. Quando il Sacerdote non era impegnato con il Tam, o non dirigeva lavori per la comunità, si appartava in meditazione, per prepararsi al viaggio Astrale che lo attendeva dopo la vita e, rispetto al quale non aveva più alcuna titubanza. Avevano vita breve; frequentare Tam, nel suo ambiente ipogeo, li debilitava; aggrediva la pelle e i loro organi interni ma essi vivevano e morivano sereni.


Davide era sul punto di cadere nella trappola mortale dello sfinimento. Il malcapitato ragazzo italiano sarebbe stato la seconda vittima di quella incredibile serie di eventi. Non ne conosceva i motivi ma, adesso, intravvedeva la “fine”. L’ambiente in cui era stato scaraventato da un po’ aiutava; sembrava una grotta. Dal fievole bagliore, che proveniva da una lampada lontana, era evidente che la cella era scavata nel tufo. La grata che lo teneva prigioniero era antica, il ferro dolce era sfaldato dalla ruggine. Solo il lucchetto era nuovo, e d’acciaio. Dopo l’atterraggio, era stato di nuovo drogato e caricato, come un ubriaco, su un grosso elicottero bianco. Forse portava lo stemma della Croce Rossa ma lui era troppo malridotto per esserne sicuro.
Anche Corbett aveva ricevuto lo stesso trattamento ma, al contrario del giovane, sembrava molto più presente a se stesso, pur se provato dai maltrattamenti.
– Mi dispiace molto, ragazzo. – disse Corbett con un fil di voce – Sei capitato nel posto sbagliato… – lo scienziato, più che addolorato, sembrava sarcastico, come se la situazione, nonostante tutto, gli sembrasse ridicola. Poi agguantò il giovane per la manica e tirò lentamente verso sé, per invogliarlo a mettersi seduto.
– Ma perché… cosa… – disse Davide, quasi piagnucolando per gli choc a cui era stato sottoposto.
– Meno ne sai meglio è, credimi. – poi, gli si avvicinò all’orecchio: – Cerca di raccogliere le forze, – bisbigliò – se usciremo da qui, se ti capita l’occasione, devi provare a scappare; è la tua unica speranza. Ricorda: devi sempre salire, mai scendere, capito? Salire! Siamo nelle viscere di Roma.
Un rumore di passi fece tacere il professore, due carcerieri si accostarono alla grata e l’aprirono. Uno, aveva una pistola infilata nella fondina che portava alla cintola; entrambi avevano in mano dei manganelli neri di tipo militare, sicuramente con l’anima di piombo.
– Uscite, presto! – intimò una vocina sottile e del tutto stridente con la situazione drammatica. Mentre Corbett lo aiutava a rimettersi in piedi, Davide guardò in basso e rimase stupito: i “carcerieri” erano donne, vestite in tailleur monacali e castigati. Avevano le gambe nude e calzavano Chanel a mezzo tacco di pregevole fattura.
I due uomini non opposero nessuna resistenza. A pochi metri dal corridoio che attraversarono, c’era una sala ampia e buia. Pochi metri dopo, vennero indirizzati verso una scaletta di ferro che portava a una piccola porta, dipinta di bianco. Corbett cercò di penetrare il buio con lo sguardo: la Catacomba continuava, perdendosi nei sotterranei della Città Eterna.
Furono spinti in una saletta spoglia. Un tavolo e due panche, tutto fissato al pavimento, per non rischiare che la “ferraglia” si trasformasse in armi improprie. Sul tavolo, del latte e alcuni bicchieri di plastica; in un piatto, biscotti secchi. Le due carceriere entrarono e invitarono i due a consumare velocemente un pasto frugale. Mentre si rifocillavano, la porta si aprì ed entrò Claire. Alle sue spalle un uomo bassino: era vestito di scuro e aveva un aspetto insignificante.
‐ Futura mamma o puttana? Dovresti deciderti, Claire… – iniziò a dire Corbett, con la bocca impastata di cibo. La sua “battuta” terminò in un rantolo, la donna alle sue spalle lo aveva colpito prontamente al fianco, spezzandogli il respiro.
Davide era talmente sorpreso che non riuscì a restare zitto: – Ma, ma lei, tu…
Claire alzò di scatto la mano è riuscì a fermare appena in tempo l’aguzzina, pronta a colpire, con altrettanta determinazione, anche il giovane l’italiano.

La lampada inutile

‐ Bene, Abel – disse Claire, mentre venivano scortati attraverso un angusto corridoio – non voglio offendere la tua intelligenza, non sono chi hai creduto… ma il mio nome è veramente Claire. – il professore sembrava invecchiato, forse per la stanchezza e, probabilmente, per la delusione. Attraverso un’altra di quelle piccole porte, arrivarono ad una cavità enorme, se ne vedeva solo il soffitto...
Continua...