Zia Maria

C’è in ogni famiglia, un personaggio di rottura, un essere da ricordare, per i suoi comportamenti, non allineati al clan. Noi si aveva zia Maria. Di lei, inizio a prenderne coscienza nei ricordi, dall’età di quattro anni. Villa Adela, sulle alture di Serravalle Scrivia, ci ospitava, in fuga dai bombardamenti di Genova. Famiglia paterna, genovese, e materna, meridionale. Le tenzoni, immancabili, tra le due schiere, si udivano, a volte, per tutta la vallata. Le mie riflessioni su nord e sud, traggono alimento da un’esperienza sul campo, sin da bambino. Zia Maria restava a Genova, nonostante i bombardamenti. Frequentava sentimentalmente, con rammarico di nonna Amina, il “Lungo”. Personaggio senza nome, che dava adito a occhiate, ammiccamenti e gomitate in famiglia. Lei arrivava da Genova, portandoci sorriso, un alone di profumo francese ed un chiacchiericcio, giovane, intrigante, a cui non si era abituati. Aveva sempre qualcosa per me. Non certo, un dorato proiettile d’artiglieria, raccolto distrattamente, chissà dove, che fece urlare di rabbia papà, ma un quadratino marrone, avvolto in un frammento di carta stagnola: la mia prima visione della cioccolata, seguita dall’incontro col sapore. Aveva questa magia, nel saper creare le cose, per un bimbo. Quel pomeriggio, in uno scivoloso dirupo, nel gorgheggiare della sua risata, indicarmi, al termine di una comune caduta, una viola, nascosta sotto una foglia secca. Non ho più incontrato quel profumo. Mamma era, come sorella, la sua antitesi e, a dir vero, non si piacquero, se ben ricordo, negli anni a seguire. Alla mattina, in villa, stentava a svegliarsi e le persiane, al primo piano, restavano chiuse. – “Castellana, sveglia! E’ ora di scendere!” ‐ La voce di mio padre, baritonale. Nella severità, pudica, dei miei genitori, che, quando si spogliavano, a sera, di fronte a me, si chiamavano per nome: ‐ “Tullio! Franca!” ‐ per rammentarsi a vicenda che io non dovessi scorgere parti inappropriate del loro corpo, zia Maria, invece, mi concedeva, di prima mattina, io, ancora nel lettone, lo spettacolo di lei, mentre si insaponava le grandi mammelle. Le devo l’aver gustato la mia prima gazzosa, al caffè del paese. Fofò, un loro comune amico di Potenza, si presentò in villa, con divisa e gradi tedeschi. Ostentava benessere e soldi. Mi riempì di regali, mai sognati. Al caffè del paese, mentre sorbivo la mia gazzosa, stupito dalle infinite bollicine, sentii la flessuosa voce di zia Maria che diceva: ‐“ Fofò, me la compri la borsa?” ‐ Durante il bombardamento del ponte dello Scrivia, la nostra villa venne presa, come punto di riferimento, per lo sganciamento dei grappoli di bombe. Nessuno di voi, ne sono certo, saprà, che le bombe, durante la caduta urtano tra loro, generando un suono metallico infernale. _” Tappati le orecchie!” ‐ Io e lei nel sottoscala, stretti. I suoi occhi, la sua dentatura bianca, vicinissima, in un sorriso rassicurante. Quel TA’ TARATATA’ TATTA’ sospeso in aria. La morte, frattanto, scendeva, a caso, su di noi.