su "Pastorale americana"
Non puoi conoscere cosa passa nella mente degli altri, non puoi conoscere neppure chi ti è più vicino: questo sembra dirci Philip Roth in "Pastorale americana". E ancora, persino chi si affanna ad affermare “Questo sono io” dovrebbe in realtà affermare “Questo non sono io” perché non conosce pienamente nemmeno sé stesso: c’è sempre un lato inconoscibile di sé che si tenta di nascondere a tutti, persino alla propria coscienza.
L’incapacità o impossibilità di comprendere, unita alla mancanza di senso e di nessi logici all’interno dell’umana convivenza sono al centro della vicenda del romanzo, dove l’America e la sua cultura sono presentati come universo idealmente perfetto, scardinato dall’improvviso irrompere dell’irrazionale. Siamo negli anni delle rivolte della popolazione di colore, poi negli anni della guerra del Vietnam e in quelli immediatamente successivi: l’opposizione alla politica e alla società corrente si esacerba in ostilità capace di spaccare la tranquillità delle famiglie normali, o – potremmo dire – delle migliori famiglie.
L’America del tempo è una superficie tranquilla, estremamente controllata (un parallelo di ciò si ha nel protagonista, lo Svedese, ebreo americano che ama l’America come quel paese che gli ha spianato la strada verso la crescita sociale): sotto questa superficie ribollono però scontenti, malumori, dissensi profondi: questi culminano in una bomba che esplode nella piccola cittadina di Old Rimrock, facendo scoppiare non soltanto lo spaccio locale, ma anche il nucleo familiare da cui discende la giovane terrorista Merry. Portando alla luce tutte le contraddizioni, le incomprensioni, il non-senso.
"Pastorale americana" è in realtà il contrario di quanto sembra promettere il titolo: è l’antitesi della pastorale, la negazione del positivismo e delle illusioni di giustizia, perfezione, felicità.
Pastorale americana
Einaudi
425 pagine
8806174118