La disavventura di Rolando
Sto al bar Gorizia. Sono le 11. A momenti dovrebbe arrivare Saverio che si prenderà cura del mio cane (ho la sua parola) durante la mia probabile permanenza in carcere. Domani comincia il processo e per me le cose si sono messe male. L’avvocato è stato chiaro. Ma di questo parlerò dopo, voglio, in primo luogo, presentarmi meglio: mi chiamo Rolando e insegno, anzi insegnavo, Filosofia e Storia al liceo classico Ippolito Nievo. Collaboro alla rivista: “Inseguiamo la realtà”. E’ una rivista molto letta e culturalmente prestigiosa sopratutto per le inchieste sociopolitiche e per le critiche teatrali e cinematografiche. Io collaboro a una rubrica che si chiama: “La finzione narrativa”. Il mio lavoro consiste nel leggere i racconti inediti che arrivano in redazione e sceglierne settimanalmente uno, che giudico positivamente e che poi viene pubblicato nella rubrica. La retribuzione non è un granché, ma il tipo di impegno mi piace e lo adempio volentieri. Oggi, prima di venire in questo bar, ho indicato alla redazione la storia che ho scelto su 11 racconti esaminati. E’ un racconto breve, ve lo riporto per una precisa ragione: mi pare sia un controcanto ironico, un’evidente dicotomia all’amara sorte che mi ha colpito in questi giorni.
"Insieme alle lingue"
Mia madre mi ha avuto a quarantacinque anni, un poco prima della menopausa, tra l’altro da uno di cui non si ricorda il nome, però dice che era bellissimo. Ma, dico io, che cazzo, di uno che era bellissimo non ti ricordi nemmeno il nome? Secondo me, o si tratta di arteriosclerosi galoppante o quello tanto bello non doveva essere.
Mia madre un giorno sì e un giorno pure mi diceva che dovevo finire il corso di inglese e poi se ne parlava di trovare un lavoro, perché, oggi come oggi, se non sai le lingue, non vai da nessuna parte. Io, però, il corso non l’ho finito e me ne sono andata lo stesso da quel paese di merda, dove quando passavo per la piazza, mai nessuno che mi dicesse: ”Ti regalerei una rosa” o, a limite, “Ti darei un bacio su quei meravigliosi occhi verdi”. Invece ognuno, giovane o vecchio, con quei sorrisetti schifosi di satiri libidinosi fantasticava con espressioni e desideri da codice penale.
Sissignore me ne sono andata in città e il lavoro come cameriera l’ho trovato subito, perché ho dichiarato che conoscevo le lingue.
In realtà un po’ di inglese lo capisco, ma ieri certi clienti, forse una famiglia svedese, facevano ordinazioni che non si capiva una mazza, così, per non dire alla padrona che non capivo, rischiando di perdere il posto (anche perché le sono antipatica, dato che il marito mi guarda in un certo modo lascivo, pur non avendomi fatto ancora nessuna proposta indecente), mi sono immaginata che avessero chiesto aperitivi ed ho servito quell’aperitivo che danno ai vincitori di quel programma della televisione che si chiama La Ghigliottina. Incredibilmente erano tutti felici e contenti e mi hanno dato una bella mancia. Insomma, ragazzi, un vero e proprio colpo di culo, quello che ci vuole sempre nella vita, insieme alle lingue. Fine. Questo è il racconto che sarà pubblicato dopodomani, sabato.. In ogni caso scusatemi per la divagazione. Sarà probabilmente la mia ultima collaborazione alla rivista. Vi ho accennato alla mia situazione. Vi ho detto che sono costretto a collocare presso un amico il mio cane, Fulvo, che amo, perché probabilmente mi aspetta il carcere.
Che mi è successo? Purtroppo mi è successo l’inverso del colpo di culo della ragazza del bar. La malasorte praticamente, il controcanto, appunto. Una vicenda da non credere.
Esattamente un mese fa, di giovedì, avevo l’ultima ora in terza C. Al suono della campanella gli studenti uscirono tutti col solito baccano. Invece Mirella restò in aula e mi disse che doveva chiedermi un parere. Questa Mirella non è particolarmente bella, ma mi è simpatica per una sua sfrontatezza anarcoide. Aveva fatto, peraltro, una tesina sulle accezioni fondamentali del Positivismo di Comte, rivelando un talento, che raramente trova riscontro negli interessi e nelle attitudini giovanili. Sapeva che la stimavo.
“Allora, che mi volevi chiedere?”
“Voi filosofi, vi interessate anche di Estetica, vorrei sapere che ne pensi, tu, che sei un filosofo, delle mie gambe”.
Doveva essere una delle sue solite provocazioni. A questa ragazza piaceva creare situazioni imbarazzanti e paradossali, lo avevo notato in svariate circostanze.
“Mirella, ma che domande fai? Come ti viene in testa? Sei strana. Che ti devo dire? Sono belle, almeno mi pare, non posso giudicare con i pantaloni.”
Questa fu un’imprudenza imperdonabile. Infatti la ragazza in un baleno si abbassò i jeans e mostrò le cosce alte e ben tornite. In quel momento entrò Arturo, il bidello.
Non ve la faccio lunga: da quella ferale coincidenza cominciò fatalmente l’ineluttabile discesa agli inferi. Il preside, debitamente informato, andò certamente in sollucchero. Lui mal sopportava che gli allievi non mi chiamassero professore, mi dessero del tu e che io non portassi i calzini, tutto a discapito della dignità dell’istituto. Naturalmente gli importava un fico secco che i miei allievi amassero la storia e, perfino, la filosofia. Non aveva il coraggio di affrontare a viso aperto qualsiasi questione che mi riguardasse, ma diventava eloquente e perfino volgare nell’ingiuriarmi alle spalle, coinvolgendo all’ascolto un paio di docenti segnatamente ipocriti e leccaculo.
Fui immediatamente sospeso dall’insegnamento e la famiglia di Mirella avviò la denuncia per abuso e molestie sessuali con una minorenne.
Io pensai che Mirella al processo avrebbe certamente spiegato come erano andate le cose, che io non avevo fatto abusi di nessun genere ed ero stato sempre corretto con tutti, ma l’avvocato mi ha detto, col suo fare un po’ apodittico, che se Mirella al processo esponesse i fatti come realmente sono andati, si sospetterebbe il plagio. Peraltro il successo che avevo con gli studenti e che toccava insieme alla formazione culturale, anche le corde emotive di ragazzi poco più che adolescenti, a me indubbiamente legati, (della qual cosa si era parlato più volte in sala professori con accenti chiaramente meschini e con una malcelata invidia), avrebbe alimentato inevitabilmente tale sospetto. Insomma la situazione si sarebbe aggravata in maniera esponenziale e che a me converrebbe una sorta di pentimento e ammettere un certo interesse per le gambe della ragazza, anche se non avevo abusato. Del resto non ne avrei avuto il tempo, perché il bidello era entrato nell’aula pochi minuti dopo il suono della campanella. “Questo- ha detto l’avvocato - almeno si poteva dimostrare”.
Per la verità non fui per niente convinto del consiglio dell’avvocato, anzi quel consiglio mi ripugnava e pensai che mi sarei comportato diversamente. Come? Ancora non ho deciso. Tra le cose che maggiormente temo è il dovermi vergognare di me stesso, il dover mentire, per esempio, allo scopo di ottenere con assoluta viltà una pena più mite. L’avvocato aggiunse che avrebbe fatto il possibile, ma non poteva promettere niente, perché avevamo pochi elementi a mio favore. E, poi, i miei modi democratici e amicali con gli allievi e, perfino, la mia abitudine di indossare i sandali senza calzini anche d’inverno, mi avrebbero fatto apparire un tipo eccentrico, stravagante, la qualcosa certamente non mi avrebbe aiutato. Ma io, ripeto, non me la sento di ammettere niente, proprio niente. Costi quel che costi!
Vi farò sapere. Non mi faccio illusioni. Il mio credito appartiene esclusivamente alla ottusità della sorte.