La doppia versione di Luigi Della Robbia

Lo scrittore Luigi Della Robbia, discendente dalla nobile famiglia di famosi scultori e ceramisti del '500, nella notte del 24 marzo del 1963, a vent’anni, fu beneficiato di una forte ispirazione, tanto da consentirgli di scrivere felicemente un racconto, che intitolò: "Le buone intenzioni di Dio".

Eccolo:

C’era un prete col basco e una bicicletta. Il prete pedalava come un pazzo su un filo, a cento metri d’altezza. O, almeno, così sembrava a lui, tant’era l’ansia. In realtà, correva lungo una strada asfaltata di fresco e il suo bel profilo si specchiava, con rapidi flash, nelle finestre sbarrate dei pianiterra di giallastri caseggiati per civili abitazioni, che l’Istituto Case Popolari doveva assegnare, spulciando da una lunghissima lista di senzatetto. La strada si chiamava: via Antonio Gramsci. L’idea era venuta al vice sindaco, che l’aveva proposta in una tumultuosa assemblea consiliare, una sera che l’opposizione voleva vederci chiaro in un’oscura faccenda di appalti. La bicicletta era una Bianchi, la marca per la quale correva Fausto Coppi, il Campionissimo. Questa, però, che un carpentiere aveva dimenticato in parrocchia, prima di partire emigrante per la Svizzera, era vecchia e sgangherata. Il prete, invece, era giovane e bello, anche di prospetto, e si chiamava Pio. Anzi, don Pio, come si usa per i preti. Non si sa per quale estetica intuizione della ditta appaltatrice, questa via Antonio Gramsci finiva all’improvviso, prima dell’ultimo lotto, in uno slargo fangoso, tutto buche e sterpaglia dal quale si partiva una specie di tratturo campestre, che, dopo un paio di curve a ferro di cavallo, tra polverosi cespi di more e tenace gramigna, giungeva, dritto dritto, sull’aia della vecchia masseria dei fratelli Gipponi. I fratelli Gipponi il danaro per rimetterla in sesto non ce l’avevano e, dopo la morte del padre, l’avevano abbandonata, per andarsi a cercare la fortuna nientemeno che nella lontana Australia. In quella casa decrepita, dal tetto sfondato, alla meno peggio, s’era sistemata Cristina Cantatore e lì, con l’aiuto di Giuseppa, la bidella della Montessori, alle dieci del mattino del 14 aprile 1950, felicemente, partorì un bel maschio di quasi quattro chili. Essere prete e padre nel 1950, l’anno santo, l’anno del giubileo, doveva essere una condizione esistenziale quantomeno problematica. Certo Dio, da lassù, perdona i peccati, ma qui, pensava il prete, mentre pigiava forte sui pedali, bisognava fare i conti con gli uomini e, specialmente, col vescovo. Il quale vescovo se l’era fatto chiamare e gli aveva parlato con aspra franchezza: "Voi, don Pio, vi siete macchiato di un grave peccato. Ma, con la vostra colpa, avete, nel contempo, offeso l’intera comunità ecclesiale! Voi non potete ignorare che le forze atee e materialiste e nemiche della chiesa avanzano; ogni giorno si fanno più tracotanti e minacciose. Non potete ignorare il momento che stiamo attraversando: una fase storica, particolarissima, che non ci consente di tollerare scandali! La vostra vergogna potrebbe diventare lo strumento del demonio, per obliare e vanificare, non solo la nostra povera predicazione e il nostro umile esercizio pastorale, ma lo stesso messaggio evangelico, del quale, voi, don Pio, siete un interprete indegno!". Eccetera, eccetera, eccetera. Don Pio ascoltava, stando in piedi, con la testa bassa e con le orecchie rosse rosse. Ma, dentro di sé, nonostante la "fase storica" e, per di più, "particolarissima", pensava che il peccato agli occhi del Signore, si sarebbe aggravato se si fosse defilato dalle sue responsabilità. Responsabilità umane, nei confronti di Cristina e di quel figlio che stava per nascere. Tuttavia non osava replicare. Si mordeva il labbro inferiore e aspettava solo che il vescovo lo licenziasse. Intanto Giuseppa guardava la sveglia e smaniava. Si stavano facendo le undici e, a quell’ora, era solita preparare il caffè al signor direttore, ai maestri e alle maestre. Attività questa che, assieme alla più occasionale di levatrice, le permetteva di incrementare le entrate e mandare avanti la barca. Lei, da sola, con quella specie di marito nullafacente e ubriacone che si ritrovava. Una barca, diceva, che, altrimenti, avrebbe fatto acqua da tutte le parti. "O vino", come le aveva fatto notare il maestro Mazzarella, che era un tipo matto e scherzava sempre. Finalmente sentì il cigolio della bicicletta e andò incontro al prete, il quale comparve tutto trafelato in una zuppa di sudore. "Meno male, don Pio, che siete arrivato! Tutto bene. E’ un maschio. Un maschione bello assai, bello assai!". E, mentre il prete si asciugava il collo con un enorme fazzoletto, strizzandogli l’occhio, come per una vecchia intesa e una vecchia civetteria, aggiunse: "E’ tale e quale a voi!". Il prete si sarebbe fatto paonazzo, se non lo fosse già stato per la corsa. "Salutateli! – disse ancora Giuseppa con un tono più pragmatico – ma, poi, lasciateli riposare, che ne hanno bisogno! Io torno alle due!". Don Pio entrò, spostò una tenda, che fungeva da porta, e vide quella sua creaturina accanto alla madre. Cristina era pallidissima, ma con una luce negli occhi di così trepidante dolcezza, che il prete, con la voce rotta dalla commozione, disse: "Sia benedetto nostro Signore Gesù Cristo!". Il bambino fu battezzato coi nomi di Luigi, Saverio e Paolo e, all’anagrafe, risultò figlio di Cantatore Cristina e di padre ignoto. Il padre ignoto fu spedito negli Stati Uniti e a Cantatore Cristina fu assegnato un alloggio dell’Istituto Case Popolari: due camere, cucina e gabinetto. Così, in quella via Antonio Gramsci, Luigi Saverio Paolo, più noto a tutti come Ginetto, il figlio del prete, cresceva bello e intelligente ed era la consolazione della madre; benché i primi anni fossero stati molto duri per tutti e due. Dall’America giungeva qualche pacco, questo sì, ma mai una parola, mai un saluto e, nemmeno, qualche dollaro, come sarebbe stato giusto.

Cristina si arrabattava, qua e là, facendo i servizi per le case. Povera Cristina! Si voleva rompere la schiena a fare i lavori più pesanti, purché le permettessero di portare con sé il bambino. E a chi lo poteva lasciare, così piccolo? In via Gramsci ognuno aveva i suoi guai. E poi, se ne sentivano di fatti brutti! E Ginetto era tutta la vita sua, tutta la vita sua! Ma, quando Ginetto si fece più grandicello, ed ebbe l’età dell’asilo, le cose andarono meglio. Dal vescovado era, all’insaputa di Cristina, partita una lettera. Un atto di carità? Certo è che fu chiamata per la visita medica e l’esame psicotecnico e, dopo una settimana, fu assunta come operaia semplice al deposito della Pepsi-Cola. Ginetto, dopo l’asilo, fu mandato alla Montessori e frequentò le elementari sotto l’occhio vigile della bidella, che lo aveva aiutato a nascere. Poi fu iscritto alla scuola media statale Anna Frank e, infine, dopo la licenza, all’istituto professionale per l’industria e l’artigianato Galileo Ferraris, nella sezione dei Congegnatori meccanici. Ginetto, a scuola, non eccelleva, per quanto, ogni anno, se la cavasse per il rotto della cuffia; eccellentissimo, invece, era nel gioco del calcio, per il quale mostrava uno straordinario talento e un profondo amore. A meno di quindici anni, ben proporzionato, col ciuffo ribaldo, con le cosce forti e con lo sguardo che era tutto uno splendore, Ginetto piaceva alle ragazze e, anche quelle più grandine, che già portavano le scarpe coi tacchi e le calze di nylon, se lo mangiavano con gli occhi. Ma Ginetto manco se ne accorgeva, tutto preso com’era da quell’altra passione. Faceva parte di una squadra del torneo interregionale e giocava nel ruolo di mezz’ala sinistra. In quell’ambiente veniva considerato una vera stella. La partita più importante era attesa per l’ultima domenica di marzo. Ginetto pensava a quella partita con trepidazione, non solo perché incontravano la prima in classifica, che li precedeva di un solo punto; ma , soprattutto, perché s’era sparsa la voce che sarebbero venuti due osservatori della Lazio. Due osservatori a vedere quella mezz’ala, il numero dieci, una promessa, proprio lui, Ginetto, il figlio del prete. "A ma’ – diceva – ce pensi? De la Lazio, de la Lazio!” E le prendeva le mani e la faceva girare torno torno, come una trottola, e lei rideva, rideva e sembrava una ragazzina. Giunse, finalmente, quella fatidica domenica di marzo e la partita ebbe inizio alle quattordici e trenta. Ginetto era sceso in campo scalpitante come un puledro, puro di sangue e di immaginazione. Voleva fare bella figura e si sentiva in forma. Ma la partita era dura, fallosa. L’arbitro, che sapeva il fatto suo, l’interrompeva continuamente, fischiando ogni più piccola infrazione, onde evitare che si trasformasse in una rissa. Gli avversari praticavano una tattica che, poi, anni dopo, sarebbe stata chiamata “catenaccio” e il tipo di gioco non era adatto a dipanare appieno l’alta classe di Ginetto. Lui faceva il possibile per dare ordine alle azioni al centro campo, da dove, è risaputo, nasce l’offensiva; ma la manovra, puntualmente, franava di fronte a una difesa praticata a oltranza, anche con calci negli stinchi e gomitate.

Al quindicesimo del secondo tempo, le reti erano ancora inviolate. Ginetto correva lungo la fascia laterale, quando, tutto a un tratto, si fermò e, stringendosi il petto, con una smorfia di dolore, di schianto, s’accasciò. Doveva essere debole di cuore. Nella confusione che si fece, uno disse che bisognava fargli la respirazione bocca a bocca. Un altro, invece, gridò che non lo si doveva toccare, finché non fosse arrivato un medico. Finalmente l’allenatore, anche lui stravolto, corse a telefonare al pronto soccorso. Quando giunse l’autoambulanza e due portantini entrarono in campo con la barella, Ginetto era già morto. Appena morto, Ginetto andò dritto dritto in paradiso. Il paradiso consiste nell’essere immersi in un raggio di luce. Starci dentro, come in un cono. E la luce dà una enorme, infinita felicità. E’ difficile dire sulla natura di questa felicità: non una felicità fisica, certamente. Nemmeno, però, una felicità intellettuale o morale. Una sorta di soavità. Immaginarsi l’attimo nel quale sboccia una rosa. Ecco, qualcosa del genere. Un attimo che, però, dura un’eternità. Ginetto, prima di entrare nel cono di luce, coi lucciconi negli occhi, ma con molta civiltà, chiese che gli permettessero di finire la partita. Il Signore della luce lo vide e pensò che gli era venuta proprio graziosa quella creatura. Non era mai accaduto che uno, che avesse avuto la fortuna di andare in paradiso, volesse tornare sulla terra, sia pure per una mezz’oretta. E anche quel fatto del signor Jaromir Hladik, che, di fronte a un plotone di esecuzione del Terzo Reich, aveva sollecitato e ottenuto da Dio un anno intero per poter terminare la sua opera, il dramma in versi “I nemici”, non era vero. Jorge luis Borges se l’era inventato di sana pianta. Mai una tale istanza aveva trovato riscontri, né, peraltro, mai alcuno l’aveva inoltrata; tuttavia una decisione insperabile e imperscrutabile permise a Ginetto, il figlio del prete, di tornare a sgambettare in campo al quindicesimo del secondo tempo, come se niente fosse successo. La partita, come s’è detto, era dura. La capolista si era chiusa nella propria area di rigore, senza nemmeno tentare il contropiede. Evidentemente mirava allo zero a zero. Al quarantesimo del secondo tempo, Ginetto fece un passaggio smarcante, un tocco delizioso, ma quel brocco del centravanti, solo dinanzi al portiere, si impaperò. Finalmente, in “zona Cesarini”, come si dice nel vecchio gergo del calcio, alla squadra di Ginetto fu assegnata una punizione dal limite. Il mediano sinistro tirò, appunto, di sinistro. La palla sorvolò la barriera e andò a colpire la traversa, rimbalzando con una parabola a campanile. Ginetto, con una felice scelta di tempo, saltò e colpì di testa, insaccando al novantesimo. Non ci fu nemmeno il tempo di mettere la palla al centro, perché l’arbitro fischiò la fine della partita. In quel preciso momento, Ginetto si accasciò e morì e, questa volta, andò subito, disciplinatamente, ad occupare il cono di luce che gli spettava.

Luigi Della Robbia nel gennaio del 2023, ormai vecchio e in una lacerante solitudine per la morte improvvisa della sua amata compagna, sentì l’inderogabile bisogno di scrivere una seconda versione del racconto, che contrastasse la precedente del '63 nei contenuti e nel lessico e che, questa volta, intitolò: "Le brutte intenzioni di Dio".

Vi proponiamo le antinomie discrepanti più significative.

Il prete bello che era stato allontanato da Cristina e inviato in un’oscura parrocchia degli Stati Uniti d’America non si fece sentire mai, proprio mai, né con qualche dollaro, né con qualche pacco modesto, che nella prima versione arrivava, e nemmeno con un semplice caritatevole saluto a Natale o a Pasqua.

Giuseppa, la bidella che incrementava le entrate con qualche performance di levatrice e che aveva aiutato Cristina a partorire Ginetto, contrasse una terribile blenorragia trasmessale da un certo Nadir, un pregiudicato e furbo spregiudicato che era riuscito a introdursi come traduttore nel campo profughi (vicino, quasi contiguo alla scuola elementare Maria Montessori) e che Giuseppa trasmise, per mancanza di attenzione o di scrupoli morali, al maestro Mazzarella, il quale da un po’ di tempo era il partner sessuale più frequentato dalla bidella. Il maestro, con questo incidente, smise di fare le battute di spirito.

Ginetto, il figlio del prete, non era quello stinco di santo che Della Robbia s’era immaginato nella prima versione, tutt’altro. E’ vero che era crepato durante una partita di calcio, ma non era nemmeno una partita regolamentare, con arbitro e magliette. Era una partitaccia, quattro contro quattro, col fiato corto, scarponi militari e un pallone mezzo sgonfio. Una partita che s’era protratta per un’intera mattinata, sotto l’infido sole di marzo e svoltasi su un campetto bitorzoluto in uno sterrato sabbioso, presso l’idroscalo di Ostia, dove, anni dopo, ammazzarono Pasolini. Ginetto, poi, non era nemmeno particolarmente abile nel gioco del calcio, mentre abilissimo era nel borseggio sui tram che scendevano dal Prenestino o nello scippo a volo, che eseguiva con l’ausilio di un Ducati truccato senza marmitta.

E Cristina?

Della Robbia, in un primo momento dichiarò che Cristina era impazzita e che alcuni l’avessero vista aggirarsi sui lungomari, sporca, lacera, come una vecchia mendicante e che parlasse di notte alla luna; un eloquio terribilmente blasfemo e pornografico, irripetibile.

In un secondo momento lo scrittore affermò che uno studente, un organizzatore delle proiezioni serali in un cinema d’essai alla periferia della città, gli avesse detto di aver visto Cristina, tutta pulita e composta, vendere caldarroste proprio davanti al cinema, una sera che replicavano "Il Fantasma della Libertà" di Bunuel.

La notizia, dovette apparire al latore carica di tropi e di traslate significazioni, infatti la comunicò con quegli inconfondibili ammiccamenti di senso e suono che, talvolta, si avvertono nella dizione della poesia antica e di cui gli attori più provveduti sanno.

Noi che abbiamo la responsabilità di riferire lo stato dell’arte, di come, insomma, stanno realmente i fatti, abbiamo il dovere di mettere in rilievo una nuova circostanza, vale a dire che le parole dello studente produssero sulle labbra dello scrittore Luigi Della Robbia un leggero sorriso e, in qualche modo, generarono un lenimento della sua amara malinconia, un lieve mitigamento, una dolce carezza sulla sua povera anima ferita.