La mia città e la lezione del pittore
Caserta è una città dell’entroterra e d’estate, ogni tanto, viene colpita da un’ondata di caldo torrido, un’afa che toglie il respiro e fa appiccicare i panni addosso per il sudore. Invece, in inverno, non è raro che dai monti dell’Appennino Campano, dal Tifata arrivino i venti freddi di tramontana. Venti sferzanti che bruciano le orecchie e precludono quello che, una volta, era la più amata attività motoria dei Casertani: il passeggio. Il passeggio sul corso Trieste. La Calle Mayor. Per la verità, non lo si percorreva per intero il corso Trieste. Nessuno arrivava alla fine, al monumento: “Caserta Ai Suoi Eroi”. Se ne faceva sì e no una metà, si arrivava più o meno all‘altezza del palazzo della Provincia, la parte centrale della città, poi, chissà perché, si tornava indietro verso Piazza Dante, magari rifacendo il percorso due o tre volte. Tutto sommato, però, questa cosa del passeggio era una bella cosa. Ci si incontrava, ci si prendeva in giro, si corteggiavano le ragazze, si discuteva (anche sui Massimi Sistemi) e c’era sempre qualche figlio di buona donna che se ne veniva con qualche citazione coltissima, che seminava il terrore, specialmente se uno a casa non teneva nemmeno una garzantina da consultare (siamo nell’era precedente il Web, i cellulari e i social). Col freddo e col vento la musica cambiava.
Quella sera era una sera, mi pare di febbraio, ventosa, appunto. La città sembrava deserta. Parcheggiai la macchina in piazza Vanvitelli e mi avviai a piedi verso via Maielli. Una traversa di via Mazzini, una stradina stretta, a senso unico, in fondo alla quale, in un piccolo locale, c’era il Teatro Studio, dove ero diretto.
Tony Servillo stava preparando un nuovo spettacolo. Da Artaud, erano passati al Teatro Immagine. Una nuova forma teatrale, la semantica era nell’immagine. La parola era stata abolita. Io avevo mostrato qualche perplessità. Tony aveva detto: “Atti’ stai in ritardo”. Poi, sarcasticamente, aveva aggiunto: “Tu si’ rimasto a Pirandello”.
In quel tempo lo scenografo del Teatro Studio era Sandro Leggiadro. Sandro aveva collaborato a un mio film sperimentale (decisamente autarchico), che si chiamava: “Indagine sull’ultimo sogno di Aiace Armitrano ex impiegato di concetto” (andavano molto i titoli maledettamente lunghi). Bisognava provvedere alle musiche. Sandro aveva detto che, forse, per quel film poteva andar bene una musica di Luigi Nono, ma il disco si trovava al Teatro Studio e me lo dovevo andare a prendere io, perché lui non si poteva muovere, che molto probabilmente avrebbero lavorato tutta la notte per progettare l’allestimento scenico. Per questo ero diretto in via Maielli. Ma, appena imboccai la stradina, il vento, che aveva infuriato tutta la giornata, improvvisamente si spense e venne la pioggia, subito torrenziale. Batteva forte sul vecchio acciottolato sconnesso e feci appena in tempo a trovare riparo in un portone. Un portone buio, che dava angoscia e dove ci si poteva immaginare si consumassero drammatiche solitudini di vecchi inquilini. Dopo un poco, arrivò un ragazzo coi capelli inzuppati. “Dotto” – disse – tenete una sigaretta?” Gliela offrii dal pacchetto. Lui ne prese due. “Mi fumo roppo”, disse, ammiccando come per una complicità, che, in verità, non trovavo scontata. Gesticolava a scatti, nel tentativo di asciugarsi la testa con la manica della giacchetta. Mi sembrava mezzo matto. Tutto a un tratto, si mise a cantare a squarciagola. Imitava la voce di Giacomo Rondinella e cantava: “Calamita d’oro”. Una vecchia canzone, nata a ridosso dei classici, che, tuttavia, aveva avuto un grande riscontro popolare. “Tu si’ attaccante comme a na malia, pirciò t’ chiammi calamita d’oro. Sai mettere into ‘e vene ‘a frennesia e sulo ‘a vocca toia po da’ ristoro”. Sapevo quanto questa canzone fosse rozzamente patetica, ma devo confessare che, nonostante la nozione, quel canto mi arrivava dritto dritto ai precordi. In quel tempo avvertivo, come non mai, l’angustia culturale e politica della città in cui vivevo.
La reggia vanvitelliana solo per pochi intellettuali ed artisti produceva un sostanziale orgoglio cittadino, per la maggior parte della cittadinanza, la reggia era quasi ignorata, perché era quasi ignorata la sua storia, la portata estetica ed artistica e la sua mondiale importanza architettonica.
Per molti casertani la dimensione piccolo borghese era prevaricante e fatalmente si riverberava nei comportamenti del ceto politico e amministrativo, il quale raramente si adoperava per il bene comune senza tornaconti personali e clientelari.
Io, come tutti i provinciali, mi immaginavo che altrove (in un qualsiasi altro “altrove”) tutto fosse diverso, tutto fosse rose e fiori. Poi il tempo e le esperienze mi indussero a riflessioni più caute, meno ingenue.
Intanto, quel giorno stavo là, in quel portone buio, con questi oscuri pensieri e, per di più, la canzone evocava lo strazio di vecchi amori andati in malora prima che avessero una qualche possibilità di essere corrisposti.
Il ragazzo, senza interrompere il canto, si coprì la testa con la giacchetta, come una monaca e se ne andò di corsa senza salutare. Pioveva sempre a catinelle e mi sembrò che la pioggia non avesse nessuna intenzione di smettere. Certo la pioggia non ha attitudini a maturare intenzioni, ma a me piace personalizzare gli eventi naturali e, per questo, ho sempre pensato che il Paganesimo fosse una bella religione poetica e mi dispiace che sia finita a carte quarantotto.
A un tratto, a cercarsi anche lui un riparo, arrivò trafelato Antonio De Core con uno scatolone. “Ué, Tato’!" “Ué, Atti’!" “Dove stai andando?” “Vado da Vincenzo, pe’ fa mettere ‘na curnice a ‘stu quadro, sempre che ‘sta fetente 'e pioggia me lo permette.” (Tra noi si parlava spesso in dialetto) "Anto’, me lo fai vedere?”
Antonio De Core aprì lo scatolo e mi mostrò il quadro. Lo vidi con la luce fioca di un lampione stradale di cui un poco entrava nel portone. Ma il quadro sembrava emettere luce propria. C’era un cielo luminoso, un albero fiorito, una colonna con un capitello corinzio, poi, come in un agguato, c’era un segnale di divieto. Tutto era dipinto con grande perizia.
“Tato’, e come lo hai intitolato?” “Non lo so ancora, ci aggia penza’...”.
La pioggia sembrava essersi placata. Ne approfittammo per salutarci e raggiungere le nostre mete. Ma quel dipinto si era stanziato sulla retina. Tornando a casa ci pensavo ininterrottamente. A casa trovai Gianni Silenziario, un valente architetto e fotografo, collaborava al film e mi aspettava per la musica di Luigi Nono.
Mi ricordo che di quel quadro gliene parlai con calore. Quel segnale di divieto era una discrepanza drammatica. Forse un’avvisaglia, come se la bellezza dell’arte e della natura e il pensiero stesso della specie umana fossero a rischio, un’armonia che stesse per scomparire, irreversibilmente, per sempre. Certo i critici dell’avanguardia, con il loro lessico un po’ criptico o, comunque, di esibita complessità, avrebbero avuto da ridire; in quegli anni, nelle arti visive, dominava l’Oggettualismo e si facevano i primi esperimenti espressivi della Body Art, ma che me ne importava, il quadro di De Core mi aveva raggiunto, aveva raggiunto la mia emozione e innescava le riflessioni.
La mattina seguente, sul presto, lo chiamai al telefono. Mi rispose la moglie: “Antonio è uscito proprio adesso. Credo che passi da Vincenzo prima di andare a scuola”. Andai con l’auto da Vincenzo. “Mo mo stava qua. Se ne è andato che saranno cinque minuti. Lo trovi all’istituto”. Antonio insegnava all’Istituto d’Arte. Decisi di andare a San Leucio all’istituto. Il cielo era pulito. Tutto risplendeva al sole. La città sembrava essersi riappropriata della sua sembianza più naturale, ma il traffico del mattino era intenso. Avrei fatto tardi in ufficio. Dovevo prendere il treno per Napoli. Avrei fatto molto tardi. Una scorrettezza grave, ma che non avrebbe portato alcun nocumento. I ragazzi prima di fare i colloqui clinici con me, avrebbero fatto la visita medica e le prove con le testiste. Il mio lavoro cominciava, generalmente, intorno alle dieci e mezza.
Arrivai all’istituto e subito lo vidi. Stava sull’ingresso e parlava col direttore Sfogli. Un toscano vivace, simpatico, architetto notissimo, professionalmente ineccepibile. Stavano discutendo sulla decisione di Corrado. Corrado, grande chitarrista, era il figlio del direttore. Da poco aveva conseguito la laurea in architettura, ma aveva deciso di entrare nella Nuova Compagnia di Canto Popolare, in sostituzione di Eugenio Bennato, che aveva lasciato la Compagnia, per intraprendere una sua personale ricerca musicale. Spudoratamente mi intromisi. “Scusatemi, ho poco tempo, devo prendere un treno per Napoli, vorrei dire una cosa ad Antonio”. Il direttore, per discrezione, accennò a farsi in disparte. “No, no, direttore, resti! Per carità, niente di segreto. Volevo dirti questo: Tato’, il quadro che mi hai mostrato ieri sera, mi ha molto colpito. Vorrei che me ne parlassi, che mi dicessi qualcosa di quel quadro.” Antonio si mise a ridere.
“E che t’aggia dicere? Ti è piaciuto?” “Sì, molto.”
Gli brillavano gli occhi. Si capiva che gli faceva piacere.
“E questo è importante, che ti sia piaciuto.. Vedi, io quello che avevo da dire, se l’ho detto, l’ho detto là.”
Restai attonito per un secondo, ma poi mi sembrò d’aver recepito il messaggio. Mi scusai e, frettolosamente, li salutai, avviandomi verso la mia auto.
Sono passati molti anni. Da tempo non vivo più in quella città. Ora, qualche volta mi accade di essere coinvolto nella presentazione di certi romanzi che scrivo. Il solito batticuore. Mentre quel po’ di pubblico di volenterosi prende posto, mi assale la paura, la paura di non saper dire altro che banalità, ma, poi, a poco a poco, l’ansia si placa e mi soccorre la vecchia lezione del pittore, del mio amico Antonio: “Io quello che avevo da dire, se l’ho detto, l’ho detto là.”