Cerbottane

era ieri che giocavamo
con le cerbottane,
noi, neonati scugnizzi
del rione città studi.

in piazza Guardi, fieri
dei nostri lunghi tubi
di plastica,
alla maniera di danzatori tribali
passavamo in fila indiana,
d’estate,
sotto le finestre aperte
dei piani rialzati inondandole
di chicchi di riso
dopo aver soffiato
verso l’alto.

allora quelle che a noi parevano vecchiette
uscivano all’improvviso
dai portoni di casa
con delle scope di saggina
per inseguirci
e correvamo sino a sfiancarci,
chi a sud, chi a nord, chi a sud‐ovest,
chi altrove.

non frequentavamo, anche, il catechismo
e Don Carlo ci tirava le orecchie
sino a farci male,
così si serviva messa per punizione
e dieci Pàter nòster, qui es in caelis
erano insufficienti a redimerci
ché, per dispetto, iniziava la caccia
alle lucertole, alle loro code
da esibire come trofei all’ora
di educazione tecnica.

sempre in Piazza Guardi
ci si trovava al pomeriggio
per limonare con le bambine.
io ero corto e mi mettevano
uno sgabello sotto i piedi
per arrivare a livello di bocca.

ci fermavamo, poi ,
ad ascoltare Toto Cotugno
e la sua chitarra,
stazionava tutti i giorni
nella piazza, era già un adulto
con la propria corte di maggiorenni.

riconsiderando, ora,
quei tubi di plastica più lunghi
delle nostre altezze può essere
che quei quattro piccoli bravi
a seguito di un Don Rodrigo,
non ancora studiato,
anelassero a tappezzare di bianco,
quanto un paesaggio innevato,
la grigia melanconia di quei luoghi
che dal campetto dell’oratorio
dove ci si sbucciava sempre le ginocchia
indirizzavano al cinema di quartiere
che proiettava solo cartoni animati
e noi già adulti.

si proseguiva nelle ore trascorse
in balocchi‐anti stanze
di compagni di classe
a bruciare piccoli soldatini
in guerre raccontate da nostalgici nonni
per giungere alle frequenti visite
di estranei che reclamavano i danni
per un vetro o un cruscotto rotto.

i chicchi di riso erano il tappeto
che delimitava il territorio
di piccole orme, la rappresentazione
di quei danzatori tribali
alla ricerca di una riserva
che corrispondesse al loro dipinto,
all’iconografia di una favola dei Grimm
che da sempre li vedeva unici
e disperati attori protagonisti.