Racconto la mia notte: ricordo a me stesso

Saranno stati 24 anni suonati
com'è logico se sono nato col ricordo della campana.
Sar‐anno: forse quello che verrà. O forse l'anno dopo quello che verrà.
24 come la vigilia per i praticanti del supplizio vissuto secondo la scrittura suggerita.
C'è stato sulla croce di legno
sollevata da barboni in carne ed ossa
ma a fare la festa erano altri, barboni pure loro.
Sulla croce ci stiamo tutti: non somiglia al motto domenicale né all'ideale romantico;
ci stiamo tutti perché pure è difficile arrivare alla fine del mese.
Figurati riposare il settimo giorno!
24 anni e ho pulito culi sporchi di merda poggiati su letti d'ospedale barcollanti.
24 anni e ho menato il piede destro alla terra davanti al capitano.
24 anni ad osservare lavagne vuote e a fottere la poesia.
C'è stata, una notte, in cui ho toccato il mio corpo sperando che fosse uno spettro.
Ho sperato che fosse la scultura museale e non la scorrettezza lineare di un passato cibato dalle alimentari abitudini.
Ho sperato che dentro ci fosse una matrice diversa, divisa dai piccoli strati della pazzia mentale.
Eccomi: la carica di un equilibrista appeso consapevole del vuoto sotto al filo incatenato agli estremi delle scale.
Eccomi: con gli occhi chiusi per non vedere il mondo, crudele, battezzato con l'abito scuro.
Eccomi: con la penna forcina che penetra, scava e attacca buchi d'immagine creata a somiglianza.
24 anni e un ginocchio malandato,
24 anni e una barba annaffiata che non vive
24 anni e una poesia
24 anni e un ombra soltanto
che racconta la mia notte.