Alta marea

Arrivava la mattina, quando ancora la bassa marea lasciava scoperte vaste strisce di sabbia luccicante, percorse da rivoli d’acqua e disseminate di conchiglie morte.
Si sedeva vicino a quella barchetta rovesciata che restava arenata sulla spiaggia tutta l’estate nella stessa posizione, forse più per “colore” locale che per una qualche necessità. Lì apriva i suoi fagotti, si spogliava dei suoi panni e radunava intorno a sé le poche cose che le servivano per la giornata. Il vestito di cotone ripiegato, le scarpe nere sotto il vestito, il bastone appoggiato in terra.
Non era un bello spettacolo: una vecchia donna dalla pelle avvizzita, contornata da qualche straccio che non riusciva a nascondere i tristi segni dell’età sul suo corpo. Ma non sembrava curarsene più di tanto. Aveva un atteggiamento assorto, quasi assente, concentrata com’era a ricevere il tepore del sole, a respirare la salsedine marina e ad ascoltare lo sciabordio della risacca. Restava chiusa in un suo mondo di pensieri, di ricordi.
Era accompagnata da un vecchio cane che si accucciava accanto a lei e raramente tentava una breve esplorazione tra le alghe morte, i sassolini lucenti, le pozze d’acqua schiumosa. Non poteva stare lì perché l’accesso agli animali era vietato, ma nessuno faceva obiezioni e lui restava indisturbato annusando gli arbusti portati dalla marea o scavando nella sabbia.
Col passare delle ore si vedeva aumentare il passeggio dei bagnanti sulla riva. Le passavano accanto con indifferenza, qualcuno con un lieve cenno di scontento per quella mostra indecorosa di carni flaccide, di povera biancheria intima esposta alla vista di tutti senza pudore. Pochi mostravano interesse per quella figura solitaria e diversa, nel quadro di una spiaggia ridondante di corpi giovani e abbronzati, di costumi colorati, di vivacità chiassosa e spensierata. Nell’arco della giornata cambiavano le luci e i suoni: alla folla della mattinata succedeva l’ora calda e silenziosa del mezzogiorno, quando il mare tornava ad essere vuoto, regno incontrastato di barchette e gabbiani, e la spiaggia era quasi deserta, addormentata. Era l’ora in cui si sollevava la brezza e, nonostante la calura, l’aria sembrava più leggera e l’orizzonte era più grande, più lontano. Lei restava lì, quasi immobile, forse non si accorgeva neppure del trascorrere delle ore. Piccole folate di vento le scompigliavano i radi capelli grigi, mentre a tratti la sua testa sembrava ondeggiare leggermente, assecondando una misteriosa nenia silenziosa che si ripeteva all’infinito, sempre uguale, dentro di lei.
Nessuno conosceva il filo dei suoi pensieri, ma non erano fantasmi di follia quelli che vagavano nella sua mente. Era lucida e tranquilla, concentrata in un suo sogno che una volta mi aveva confidato. Le avevo rivolto la parola per caso, dopo averla urtata inavvertitamente, e avevo scoperto che non era una persona alienata e nemmeno incolta: parlava con molta dolcezza, a ritmo lento, dicendo cose sensate ma lontane dal mondo che aveva intorno. Inseguiva una sua fantasia. E quel giorno me ne aveva parlato.
Nessuno immaginava che lei, in realtà, stesse giocando.
Giocava con se stessa, col suo passato, con la sua vita. E cercava di immaginare quello che la vita avrebbe potuto regalarle.
Fissava con attenzione i giovani che le passavano accanto e si chiedeva chi di loro avrebbe potuto essere un suo figlio.
Il giorno in cui si era risvegliata dal pozzo senza vita e senza tempo della narcosi, aveva saputo che un figlio, lei, non l’avrebbe mai avuto. Da allora era cominciato quello strano gioco che rasentava i limiti dell’ossessione. Lo ripeteva ovunque, sempre uguale, ricavandone un appagamento mentale, una sorta di accettazione ipnotica che le dava pace.
Un giovane abbronzato, col ciuffo ricadente di capelli neri e gli occhiali che scivolavano sul naso: ecco il figlio del suo lontano primo amore. Faceva il gesto ripetitivo di aggiustarsi la posizione delle lenti, leggeva assorto senza distrarsi e a tratti interrompeva la lettura per fissare il mare e inseguire chissà quali pensieri.
Lei ne era sicura: era lui, lo ricordava bene. Scriveva poesie, allora, e suonava la chitarra, pensava ai problemi del mondo e guardava le cose con fiducia e umanità, convinto di poter risolvere tante ingiustizie col suo idealismo.
Anche la ragazzina castana lì accanto, con i capelli ricciuti mossi dal vento e il viso sorridente, lo sguardo sognatore perso tra le nuvole e le carni sode e rotondette esposte ai raggi del sole: anche lei poteva essere sua figlia. Ricordava se stessa e si vedeva rispecchiata in quella figura giovane, dall’atteggiamento timido ma curioso verso il mondo, il corpo un po’ troppo florido che  la imbarazzava e non sembrava corrispondere al suo temperamento riservato e schivo, il temperamento di chi non vuole attirare l’attenzione, ma ama osservare, riflettere e sognare…
E quel ragazzo magrolino con l’espressione insicura sotto i ciuffi chiari spettinati, o l’altro che gli camminava accanto, scherzando e chiacchierando senza sosta, con una smania di vivere evidente e un entusiasmo ingenuo… no. Era più probabile fosse quello concentrato e silenzioso, col corpo asciutto e il viso un po’ scavato, che procedeva con calma e si guardava intorno con espressione seria, attento e acuto nell’osservare, pacato nel parlare, pronto al sorriso ma con i modi misurati di un animo gentile.
Ed eccolo, finalmente, il figlio che avrebbe avuto sicuramente. Il figlio del suo uomo, del suo compagno di una vita: alto e magro com’era lui. Lo vedeva avanzare sulla riva, l’atteggiamento sicuro e vagamente spavaldo di chi vuole tracciare la sua strada mantenendo intatte le sue coerenze, la grinta ribelle e tenera dell’adolescente incompreso. Lei lo conosceva bene. Dietro quello sguardo ostinato c’era un cuore caldo, c’era l’ansia di dire e di fare, contro tutto e contro tutti, c’erano tante fragilità che lui stesso ignorava. Ancora non aveva quella tenerezza che avrebbe maturato con gli anni, la conoscenza disincantata delle cose che gli avrebbe donato una forza interiore più sofferta senza intaccare la sua voglia di lottare, la sua determinazione, dietro la maschera distaccata del volto.
Lei lo guardava con insistenza, lo vedeva parlare con gli amici, riconosceva i suoi tratti e già immaginava il trasformarsi dei lineamenti negli anni, quando l’espressione si sarebbe ammorbidita, qualche ruga avrebbe segnato il viso e i capelli si sarebbero argentati.
Poi anche lui scompariva alla sua vista e il gioco era finito.
Sulla battigia cresceva l’alta marea, le grida dei gabbiani si facevano più forti nella luce dorata del pomeriggio e le ombre si allungavano. I bambini schiamazzavano tra le onde rifiutandosi di lasciare il bagno. Il vecchio cane inseguiva inutilmente una palla, illudendosi di partecipare al gioco dei ragazzi sulla riva. E andava avanti e indietro, avanti e indietro, senza che nessuno gli rivolgesse l’attenzione. L’aria era più fresca e qualche brivido scuoteva i corpi immobili, stesi da ore sui lettini o sugli asciugamani.
Lei si risvegliava dal suo sogno. Allora radunava lentamente le sue cose, si rivestiva pian piano e se ne andava: figura solitaria e scura che si allontanava sullo sfondo di una spiaggia immensa che sembrava rappresentare il vuoto della sua vita ma lasciava spazio per tutti i sogni. Domani sarebbe tornata e avrebbe ricominciato.