Confondere Aradia.

E' pomeriggio da ieri mattina. 
Dopo che hai vissuto qualcosa di memorabile, il tempo si sente inutile e comincia a non passare proprio. La schiena sta prendendo la forma del divano, le mani non hanno voglia di fare le mani.
Ho ricevuto una nuova proposta di sfruttamento.
E' poggiata sul comodino e ogni tanto rileggo quelle due‐tre righe scritte a mano su un foglio profumato. O almeno, si sente che originariamente sapeva di violetta, poi è stato dimenticato per un po'.

Annette si sta alzando proprio adesso, nella casa dove sono stato anche io.
Sono strane le cose che ti vengono in mente quando non hai di meglio da fare.
L'ho conosciuta qualche tempo fa e la prima volta che l'ho incontrata mi ha detto così:
‐Piacere, Annette. Tre mesi è il periodo di incubazione, quindi io e te staremo insieme esattamente tre mesi da stanotte, non un giorno di più. Prima di andare via ti farò un test per vedere se tutto è andato per il verso giusto, poi me ne andrò e non mi rivedrai più. Ci stai?‐
Quello che mi aveva detto era terribile, ma l'effetto che fa in me la parola “terribile” è lo stesso effetto che fa in voi la parola “tappo”, la parola “armadio”. Nessuno. Così mi ha portato a casa sua. Lungo il tragitto ho provato a stringerle la mano, ma lei mi ha dato solo un dito e io mi ci sono aggrappato con tutte le mie forze.
Quella sera c'era un vento forte e la sua montagna di capelli castani mi finiva in faccia.
Più andavamo avanti, più accelerava il passo, facendomi rimanere indietro, staccando ad uno ad uno le mie dita dal suo indice.
Pochissime cose le ho detto in quei mesi ed una è stata quella sera, guardandole la schiena.
‐Lo sai in psicologia cosa vuol dire quando qualcuno cammina davanti a te?‐
‐Cosa?‐
‐Che si sente superiore, che vuole creare una distanza‐.
Allora lei è tornata indietro e mi ha ridato la mano, stavolta tutta intera, ma benché fosse più di prima, era comunque troppo forzato. Qualsiasi cosa fosse, di carnale non c'era niente, era più simile ad un guinzaglio.
Arrivati a casa, fu subito chiaro dalle sue movenze il tipo di rispetto che mi avrebbe riservato. Mi guardava con aria severa, come se fossi un compito in classe, un ispettore, e invece non mi ero nemmeno mosso dall'ingresso. 
Buttò il soprabito sul divano e io chiusi gli occhi istintivamente.
Un momento non è mai un momento e basta; e anche se lo sarà, forse sbadatamente tra tanti anni ti ritroverai a pensarci. E allora dev'essere quantomeno carino, quantomeno bello abbastanza da essere vivido. Sei qui, in questa stanza, con lei, mentre potresti essere altrove. Questo è un pezzo della tua vita; fai almeno finta di non starlo buttando nel cesso.
Io mi sono allenato, ci ho messo parecchio, ma ce l'ho fatta. E' però in momenti come questo che mi chiedo se tutto il mio sforzo sia stato un bene o un male.
Penso alle cose che avrebbe pensato lo stesso me di solo cinque anni fa. Cinque, una mano sola. Una mano che si è sempre chiusa così tanto a pugno da far rompere la molla e spalancarsi, di colpo, facendo scivolare via tutto quanto, non riuscendo neanche a stringerne bene una uguale.

Apro gli occhi.
Annette ha un lunghissimo vestito blu a fiori. E' smanicato, ma ha talmente tanti monili addosso che di nudo ha solo le mani, le spalle e la faccia. Non sorride, sta solo davanti a me, immobile.
Presto finirò in trance e quello che succederà vicino a lei lo ricorderò fugacemente, ad alta velocità.

Lei comincia, come cominciano tutti, cercando di abbassare la luce della stanza a livello “sarà per sempre”.
Su tutto si abbassa una luce calda, arancione, come se d'improvviso fosse la notte di natale.
Comincio piano a sbottonarmi i polsini e presto mi ritrovo le mani di Annette a scansare le mie, a sbottonarmi più in fretta, sbuffando.
Ha le unghie con lo smalto bianco perla. Muovendosi frettolosamente sulla mia camicia dello stesso colore, quasi scompaiono, rendendo più facile immaginare di essere in un film surreale. Dita che scompaiono, per quello non riuscivo ad afferrarvi.
Non che mi sforzi più di tanto ormai. Basta un movimento, un colore, per dare spiegazione ad eventi molto più grandi.

Alcuni ricordano il loro passato sotto forma di flash. Io invece ci vivo il presente.

Flash.
Annette seduta di fianco a me sul letto che fuma una sigaretta e con lo stesso accendino disinfetta l'ago.

Flash.
Mille spade che si infilzano tutte in un unico punto del mio braccio. 

Flash.
Turtles ‐ Happy together

Flash.
Visuale distante e sfocata del soffitto in legno. Sulla destra, con la coda dell'occhio, schiena di Annette. Scapole che si muovono, braccia che armeggiano.

Flash.
Niente.

Flash.
Niente.

Flash.
Rumore di braccialetti e mani che battono vicino al mio orecchio.

Vorrei che l'unità di tempo mese durasse come l'unità di tempo giorno, così tutto scorrerebbe più in fretta. Eviterei i silenzi imbarazzanti, gli sbadigli, gli sguardi distratti, l'allontanamento dalla stanza senza preavviso, le sue pupille che si fanno più vitree. 
Il fatto che solo io noti queste cose.
Da un paio d'anni mi guadagno da vivere così, con la mia epatite, lasciando che la gente con la sindrome di Samo se la inietti dietro compenso.
C'è un mondo organizzatissimo dietro, ci sono siti d'incontri dove puoi scegliere la malattia che vuoi come su un menù. E' tutto molto professionale, ma ancora non riesco a distinguere un rapporto di lavoro da un rapporto e basta. Un appuntamento rimane un appuntamento, nel senso più adolescenziale del termine.
Ho collocato male i pezzi del puzzle e per le mie clienti continuo ad avere piccolissime e inespresse esigenze sconsiderate da innamorato, che risolvo da solo. 
Devo iniziare a pensarla in un'altra maniera.
Le lettere delle persone che mi cercano sono indirizzate al mio virus, non a me, io non c'entro niente. Io sono il mezzo di trasporto che porterà loro quello che vogliono, sono lo spacciatore che li farà stendere sul lettino e risolverà i loro problemi d'infanzia.

Annette si è iniettata il mio sangue in vena, facendosi strada tra metalli che vengono dall'India e pietre thailandesi, facendosi ambasciatrice di una nuova cultura orientale circoscritta al suo braccio.
Colonizza le regioni corrompendo la popolazione dei suoi globuli con prodotti velenosi che vengono da me.
Ora che la navicella è diventata lei e io sono ritornato nel ruolo di essere umano, posso permettermi di farle alcune domande.

La luce nella stanza è ancora soffusa, ma il per sempre è magicamente diventato per ora.
Annette ha acceso dell'incenso e si mette a ballare una personale danza del ventre. Tutto il suo corpo fa l'hoola‐hop con i gioielli che lo ricoprono.
Dico ‐Ho risolto i conflitti con tuo padre?‐
Lei rotea verso di me, unisce le mani sopra la testa e muovendo i fianchi si inginocchia piano sul tappeto grigio a pelo lungo, che si appiattisce sotto il suo peso. 
Dice ‐Ballando e stendendosi, si dice che il virus si propaghi più velocemente. Questa è una danza thailandese, si chiama Khon‐.
Chiedo ‐Si è attenuata la tua sindrome da abbandono?‐
Si distende lentamente allargando le braccia. La luce si riflette su ogni minimo specchietto di cui è cosparsa e Annette diventa la più luminosa della stanza.
Annette la stellina. Annette la reginetta della sua tribù.
Non mi guarda, e non so se quello che dice lo dica a me o a qualche recondito meccanismo di circolazione sanguigna.
‐L'amata del Re Rama fu rapita da un demone a dieci teste. Questa danza rappresenta la solita noiosa lotta tra bene e male‐.
A questo punto mi alzo dal divano, la scavalco per raggiungere la porta della cucina.
Contraendo e ritraendo la pancia, facendola ondulare più velocemente possibile, aggiunge ‐Non vorrei rovinarti la sorpresa, ma statisticamente dieci teste sono meglio di una‐.
Dall'altra stanza, versandomi dell'acqua, dico ‐Sono contento che tu abbia trovato un modo per riappacificare più velocemente il tuo super io all'Es‐.

Nei giorni successivi, mentre non parlavo con Annette, ho avuto tempo di osservare ogni angolo della sua casa che ancora non avevo visto. 
Non era grande, ma per digerirla ci voleva molto. Era tutto un casino, ogni stanza un bazar di cose.
In cucina, almeno una decina di forni, di fattura e provenienza diversa; uno fungeva da forno e tutti gli altri da mensole. Un frigo piccolo poggiava sbilenco e aperto ad un altro più grande, pieno di scatole di verdure fresche, impilate l'una all'altra talmente strette da essere inamovibili, rendendo impossibile afferrare uno qualsiasi di quegli infiniti tipi di ortaggi.
Il bagno era verde e senza porta, chiunque poteva guardarci dentro. Proprio di fronte c'era la doccia, un bouquet di almeno trecento colorati tubi di pompe che spuntavano dal soffitto e dai lati della stanza. Forse voleva essere un arcobaleno, in realtà sembrava il vomito di un unicorno. Il water non si vedeva, si intuiva.
Il salotto, dove mi aveva ricevuto la prima sera e dove dormivo, era così scarno che scompariva letteralmente di fronte alla pienezza degli altri locali. Era una scelta del tutto illogica, ed altrettanto illogicamente a me non veniva mai voglia di andarci. Non so come spiegare: era troppo facile stare lì. In tutte le altre stanze potevi soddisfare i tuoi bisogni primari solo con fatica.
Passavo il mio tempo appoggiato alla finestra vicino all'ingresso della camera di Annette, sempre chiusa a chiave. Non potevo uscire perché Annette non voleva che contaminassi altra gente mentre ero sotto contratto con lei; allora stavo lì.
Non c'era molto di bello da guardare, a parte i tetti delle case e le antenne. Sembrava tutto talmente fitto da ritenere impossibile uno spazio, una stradina, che dividesse una casa e l'altra. Era tutto appiccicato. E se la vista è un bisogno primario, allora era tagliata a metà anche quella, di fronte ad un paesaggio‐non‐paesaggio. Adoravo quella finestra.
La porta della camera che rinchiudeva Annette per tutto il giorno era ad un passo, sempre chiusa, sempre chiusa ad un passo. Il che me la faceva sentire un po' aperta.
Cominciai ad affezionarmici come ci si affeziona ai grossi portoni di un castello reale. Se li trovi chiusi per giorni e giorni, inizi a pensare che non ci sia nulla dentro.

Invece un giorno si aprì. 
Un giorno Annette mi rivolse di nuovo la parola, disse che quella notte avremmo dormito insieme. Allora la porta si aprì.
Era uno stanzone lungo e stretto con le pareti blu scuro, contornato da librerie realizzate con rami di betulla, che spuntavano dal muro fino al centro, dove creavano un complesso intreccio di biforcazioni. Sembrava la sezione di un bosco. I libri stavano appollaiati dove potevano, in un equilibrio decisamente precario.
Sotto quella trama di legno c'era il letto matrimoniale, cuscini bianchi e piumone con le costellazioni disegnate, perfettamente rifatto. 
Nonostante quel caos, trovavi sempre un punto ordinato dove lo sguardo poteva fermarsi a riprendere fiato.
Io e Annette dormiremo insieme ed io penso che un po' si sia affezionata a me, di aver vinto quella lotta di gelosia tra me ed il mio virus.
Mi preparo di tutto punto per quella sera. Non c'era un appuntamento vero e proprio, prima. Non c'era una cena, non c'era un cinema, non c'erano passeggiate al chiar di luna. Iniziava tutto con noi che saremmo andati a dormire, quindi avevo scelto il mio miglior pigiama rosso di velluto.
La aspettavo sdraiato sul letto, guardando l'intreccio di rami sopra di me e cercando di leggere tra le loro righe disordinate qualche messaggio, qualche accenno di racconto in più che mi aiutasse a capire Annette. La storia di Annette sopra il letto.
Dopo un'ora arriva ed io balzo in piedi immediatamente.
Trascina un grosso sacchetto di plastica nera con entrambe le mani. E' vestita da indianina, con bandana verde e penna di cornacchia stretta in piedi sulla nuca.
Mi fa un cenno con la testa senza sorridere, si mette in un angolo ed apre la busta.
Mentre inizia ad addobbare i rami degli alberi con teschi di plastica di vari animali, dice ‐Quella che faremo stasera si chiama Wàwek‐. Acchiappasogni ornati di penne colorate lunghissime, perse da qualche pappagallo in un negozio di animali e gentilmente regalate dal titolare; sono appesi e fatti suonare con un soffio da Annette, che continua a parlare:
‐E' un termine sciamanico del popolo Shuar, indica l'estrazione dei mali dal corpo del malato mediante oggetti del potere. Ad esempio si fa rotolare un coltello sacro, un uovo, o una pietra sul corpo dello sciagurato, in modo che il male venga intrappolato dentro di essi‐.
Si mette al collo dieci collane, con appesi medaglioni e amuleti con tappi di bottiglia di altrettanti tipi di birre e coca cole.
‐Io non ho né coltelli sacri, né uova, né pietre‐ dice incollandosi alla fronte lo strass caduto da un vestito.
‐Ho un piercing all'ombelico. Andrà bene lo stesso‐.
Annette, la frega divinità.

Quella è stata una nottata strana. Nemmeno il mio volermi innamorare a tutti i costi ha potuto molto.
Annette mi stringeva da dietro, stando attenta a far combaciare bene il suo freddissimo piercing alla mia schiena, stringendomi ancora di più. Di quell'abbraccio così intenso io però ho sentito solo il freddo. A volte hai la chiara idea di quanto sia lontano qualcuno solo quando ti è vicinissimo.
Non ho chiuso occhio. Le sue labbra mi sussurravano all'orecchio millenarie formule magiche indiane inventate al momento, e a me sembravano mille bugie.
Volevo andarmene, svegliarla, dirle che ormai il virus l'aveva preso iniettandosi il sangue, che non c'era bisogno di tutti quei rituali.
Mi sentivo in trappola, i rami della libreria erano una gabbia e i libri dei gufi pesanti che la rendevano sempre più piccola. Aspettavo che l'alba entrasse dalla finestra.

Quando si svegliò, io ero già vestito e con la valigia in mano, come nelle migliori commedie romantiche.
Lei si tirò su, in ginocchio sul letto, con il vestito da indianina spiegazzato e i capelli arruffati, come nelle migliori commedie rock. Si stropicciò gli occhi, li schiuse e mi guardò sbadigliando, aspettando che iniziassi a parlare.
‐Me ne vado‐, dissi.
Lei rise.
‐Finalmente!‐, ribatté con un sorriso a mille denti, incorniciato da labbra più lucenti del solito.
Colpito dalla sua euforia, cercai tracce di quell'illusione che abitava in me fino alla notte prima. Se ne avessi trovata almeno una, io e Annette avremmo potuto parlare. Un'illusione si può sempre riparare.
Annette iniziò il suo discorso.
‐Nel 1741 la sindrome di Samo venne ascritta ufficialmente come forma parafilica nei libri di psicologia. Successe dopo che un'epidemia di lebbra colpì il paese, creando una marea di nuove, fresche, giovani coppie. Le donne, mentre mangiavano con il cucchiaio del marito, dicevano che non erano malate, che era solo amore, amore, amore. Si stavano ammazzando con mille accortezze.
La cosa strana è che si è scoperto che morivano molto più velocemente dei partner, come se l'amore fosse un acceleratore.
Ma in realtà la sindrome esiste da moltissimo tempo, in realtà è sempre esistita.
Hai mai notato che tutte le tribù hanno sempre avuto rituali e magie? Ti sei mai chiesto perché, con tutte le cose che ci sarebbero da risolvere nel mondo, ci sono libri e libri solo per formule di guarigione?‐
In nessun atrio, in nessun ventricolo, nemmeno dietro le ossa trovai nulla.
‐La verità è che alcune delle prime sciamane e streghe erano pazze scatenate foriere della sindrome. Si erano accorte che, allo stesso modo in cui loro venivano infettate dai loro compagni, essi venivano affascinati dalla sindrome di Samo. Cominciavano a voler avere quelle donne in maniera sempre più pazza, disperata. 
In maniera sempre più desiderabile.
Nei loro occhi, quel dissennamento era appetibile quanto la malattia venerea che già avevano contratto.
Queste fautrici della magia nera hanno trovato il modo per sbagliare le formule. Una sola, piccola scorrettezza al posto giusto e i rituali di guarigione funzionavano al contrario. Invece di guarire, di cacciarlo via, il male entrava dentro il loro corpo. E loro se lo tenevano stretto. 
Assorbivano l'amore degli uomini come un nuovo malanno, trasformandolo in energia, sentendosi sempre meglio ed evitando la morte accelerata a cui erano condannate. 
Quei poveri cristi rimanevano senza niente. Dei fantocci. Ridotti al loro virus di base e ad una mancanza, che i più tentavano di colmare infettando altre donne e innamorandosene, finendo ogni volta per essere la possibilità di una doppia contaminazione perfetta‐.
Mi incamminai verso la porta d'entrata, Annette mi seguiva continuando a parlare. Come Orfeo ed Euridice, solo che a suonare era lei, ed io non mi stavo esattamente allontanando dalle tenebre.
‐Tu hai voluto tenermi la mano appena mi hai visto. Non avrei nemmeno dovuto sforzarmi con te, ho iniziato i rituali da subito.
La verità è che io ho voluto prendere solo il tuo di virus e tutte le conseguenze. Ma solo tue. Tu invece ti stavi innamorando di me e di mille altre come me ti innamorerai. Sei recidivo, sarai recidivo per sempre‐.
Arrivato da dove tutto era iniziato, misi una mano sulla maniglia.
‐Verrebbe da chiedersi chi di noi due abbia davvero la sindrome di Samo.
E l'altra mano sul cuore.