E va bene così

Il Gianni, disturbato da quegli acuti rintocchi, allentò la presa dal panno con cui aveva afferrato la caffettiera e la bevanda dilagò tra i fornelli: nell’aria vapori aromatici e sulle sue mani schizzi ustionanti.
A stento si contenne dal fare violenza alla sua ferrea morale, dal nominare invano colui che tutto creò; in sintesi evitò di bestemmiare.
Colpa di Alfredo, suo figlio, che, rientrando da una nottata in discoteca e vedendo la luce accesa, aveva pensato bene di annunciare il ritorno del figliol prodigo strattonando ripetutamente il cordino della campanella in ghisa posta di fianco all’ingresso.
E meno male che il cortile era ridotto più o meno ad una casa di riposo, nel senso che vi abitavano solo alcune persone molto anziane che, oltre ad aver perso la percezione del tempo, ad essere fuori dal tunnel del divertimento, avevano anche seri problemi di udito, altrimenti quella domenica mattina avrebbe svegliato tutti.
‐Ciao pà. ‐ disse il ragazzo entrando in casa, poi guardando il fornello aggiunse: ‐Cosa aspetti a cambiarla quella caffettiera?
La macchinetta andava bene e faceva un ottimo caffè, il problema era che alcuni mesi prima si era rotto il manico e non c’era stato verso di trovare il ricambio.
Alla fine lui aveva deciso di tenerla comunque, con tutti i rischi che tale scelta comportava: rovesciamenti, scottature.
Dopo la chiusura della fabbrica in cui aveva lavorato per una vita, si era trovato in serie difficoltà, non tanto da un punto di vista economico, bene o male con i soldi della liquidazione e della disoccupazione poteva resistere; era il lavoro a mancargli e nel cercare una nuova collocazione aveva sperimentato sulla sua pelle le contraddizioni e l’ipocrisia del mondo del lavoro: che a parole vorrebbe farti lavorare fino a che campi e invece quando sei lì, tra i cinquanta e i sessant’anni, non ti considera più e al massimo ti offre lavori residuali.
In poco tempo aveva messo insieme una decina di impieghi della durata di pochi giorni, con mansioni assurde.
Aveva ragione quel suo amico che si occupava di medicina del lavoro, quando diceva: “Ricordati che tanti lavori di merda non fanno un bel lavoro, ma fanno un grosso lavoro di merda”.
Alla fine, dopo un lungo e precario pellegrinare, aveva accettato un lavoro presso il vicino aeroporto con la qualifica di avvolgitore di plastica intorno alle valigie; un lavoro a turni su sette giorni, cioè sabato e domenica compresi.
Era un lavoro che quando gli chiedevano in che cosa consisteva, lui rispondeva che metteva i preservativi alle valigie;
Guardò per alcuni istanti suo figlio e notò che nonostante la nottata passata in discoteca non presentava segni di stanchezza.
Non fece i soliti commenti, del tipo: “E’ l’ora di rientrare?”, “Guarda che questo non è un albergo!”, che chissà da quante bocche, oltre la sua, erano usciti.
Quando il figlio aveva cominciato a rientrare tardi la sera (o meglio alla mattina presto), di notte né lui né la moglie dormivano, ed erano ore d’angoscia, che poi sfociavano in sceneggiate incredibili.
Adesso che il figlio era cresciuto e terminata la scuola aveva iniziato a lavorare, quei rientri mattutini non lo disturbavano più, anzi quasi quasi li invidiava.
Da una parte il figlio, con la sua freschezza e quella gran voglia di vivere; dall’altra lui con il suo bagaglio di sogni, speranze, desideri finiti in soffitta.
Lui per indole non era un tipo noioso, anzi, parenti e amici lo consideravano una persona capace di coinvolgere e trascinare, insomma una persona che stava bene con se stessa e con gli altri; ma la condizione di precarietà in cui si era ritrovato per via della perdita del lavoro e qualche patologia che cominciava dolorosamente a palesarsi, lo avevano cambiato.
‐Rifaccio il caffè. Ne vuoi?
‐Ho già fatto colazione al bar. – rispose il figlio e poi aggiunse: ‐Ti ho lasciato la macchina in strada, sarebbe ora di cambiarla, un giorno o l’altro ci abbandona. Perché non compriamo una macchina sportiva? Adesso lavoro anch’io possiamo permettercela.
Ecco che torna alla carica, pensò il padre di fronte a una richiesta già sentita molte volte.
‐Oggi non ho tempo, oggi sono spento e si sta facendo tardi, ne riparliamo quando torno dal lavoro.
Avviando la vettura ammise a se stesso che suo figlio aveva ragione: quella macchina era da rottamare.
Si ricordò in quel momento del modello di vettura, sportivo naturalmente, che in gioventù aveva tanto agognato: “Spider duetto rigorosamente rosso” come quello del Vasco; e si ricordò anche del modello Fiat con cui purtroppo si era invece ritrovato: 850 verde muffa.
Il Vasco era un playboy abbastanza attempato che viveva nel quartiere dell’Ortica; tutte le volte che con la sua Spider decappottata rimorchiava qualcuna, immancabilmente passava davanti al Roxy Bar dove stazionavano, con una Coca cola in mano, il Gianni e i suoi amici.
Il Vasco, quando guidava, portava i guanti in pelle per via di una brutta artrite giovanile, un foulard al collo per la cervicale, e un berretto da baseball per mascherare l’incipiente calvizie; seduta al suo fianco sempre una bella e giovane donna preferibilmente bionda.
Appena il Vasco, con la sua luccicante vettura e il carico di gn… (va bè ci siamo capiti) compariva davanti al Roxy bar, il Gianni e i suoi compagni gridavano:
‐Vasco lascia stare le ragazzine che ti viene un colpo!
‐Ue’ sfigati, ancora con tutte quelle bollicine! Io la Coca cola la bevevo quando andavo a scuola. Vi saluto Testine! – urlava lui e poi tentava di mostrare il dito medio, ma quello non si alzava… per via dell’artrite.
Parlo del dito medio, per quanto riguarda l’efficienza di altre parti del suo corpo bisognerebbe chiedere alle donne che il Vasco si portava in giro.
Ma questi son dettagli che al Gianni e ai suoi amici poco interessavano e poi il Vasco a quei tempi era un mito.
E va bene così… senza altre parole.