Il paese ideale (incipit di Margherita Oggero)

Dieci anni sono un lungo scampolo di vita. Cambiata io, e forse cambiata anche lei. Amicizie sfaldate, ambizioni fallite o dimenticate. Anche progetti realizzati, si capisce, e qualche imprevista botta di fortuna. Gli anni di liceo quasi dimenticati, l’università finita da un pezzo. E se non dimenticata, almeno fortemente sbiadita, da parte mia almeno, l’antica rivalità, quella che ci aveva accecate, che ci aveva fatte schierare su fronti opposti, che ci aveva spinte a detestarci dai quindici ai venticinque anni, quando le nostre strade si erano finalmente divise, Laura negli Stati Uniti e io qui.
Ma tre giorni fa, dopo un decennio di silenzio, la sua telefonata. E’ tornata, ha chiesto se non avremmo potuto incontrarci. Ho risposto di sì e mi sono pentita subito dopo, ma ormai era fatta e non me la sono sentita di rimangiarmi l’assenso. Non ci siamo dette nient’altro: nessuna formalità, nessuno scambio di notizie, solo poche battute, quasi un messaggio cifrato, da spie
.

E’ stato nel bar della piazza grande, quella dove un tempo ci incontravamo con gli amici. E’ stato lì che ci siamo ritrovate.
Lei non é cambiata molto, un po’ dimagrita, i capelli lisci spettinati ad arte, con addosso giacca e blu jeans, un foulard al collo: disinvolta, sorridente. Perché diavolo mi sono messa quel completino firmato, le scarpe col tacco, la pettinatura fresca di parrucchiere. La classica provinciale che si mette in pompa magna per un incontro importante. Va bene, si è affermata, ha pubblicato libri e ha conseguito un signor dottorato. Ma era pur sempre una ex compagna di scuola, una che copiava i compiti come facevamo tutti quando ci era possibile farlo, aveva il mal di pancia quando doveva essere interrogata in latino, raccontava storie e trovava scuse per evitare le verifiche di storia.
E’ stato su questo argomento che siamo riuscite a rompere il ghiaccio. Dopo i primi attimi di silenzio imbarazzato, lei si è messa a ridere.
‐ Sai qual è il ricordo più vivo di te che ho conservato in questi anni?‐
Non ne avevo idea.
‐ Quella volta in cui dichiarasti tranquillamente, alla prof di matematica, che non avevi studiato semplicemente perché… non ne avevi avuto voglia.  Ai miei occhi fosti un’autentica eroina.‐
Anch’io mi sono messa a ridere. Da quel momento tutto è stato più facile e i ricordi hanno cominciato a fluire numerosi. Nomi, visi quasi dimenticati, episodi buffi o drammatici: il passato riemergeva riportando una sorta di confidenza, sciogliendo il nodo di incertezza e dissolvendo il disagio. Scontri e antiche fratture sembravano appartenere a un altro mondo e ci sentivamo quasi tornate adolescenti.
Ma non eravamo più adolescenti.
Adesso notavo la pelle percorsa da una fitta rete di rughe leggere, appena visibili, ma sicuramente destinate a diventare più evidenti con gli anni, come accade nelle donne magre e bionde con pelli chiare come la sua. E’ sempre una soddisfazione, per le persone grassocce e bruttine, analizzare impietosamente la carnagione e le metamorfosi del tempo sul volto di quelle amiche che un tempo erano invidiate per la linea e per la cura raffinata della persona. Io ero sempre stata frettolosa, trascurata, poco attenta alle diete e alle abbronzature. Però sapevo vedere la bellezza, dovuta anche alla sapienza cosmetica e all’eleganza fintamente sportiva, disinvolta, delle ragazze della mia generazione, al liceo e ancora più all’università. Ma non riuscivo a imitarle. Accidenti a loro. E accidenti a me. Quanti complessi e quante insicurezze coltivate in gioventù, per questa mancanza di gusto e per la diversità di aspetto che mi separava da loro. Mi sembrava di essere sempre fuori posto. I miei capelli ricci, che mi ostinavo a far stirare dal parrucchiere, non erano mai in ordine come la loro lucida chioma liscia, raccolta dietro, nella parte superiore della testa,con una bella spilla di tartaruga. E quando ero riuscita ad acconciarmi quasi allo stesso modo, quelle si erano tagliate i capelli corti e arricciati in una nuvola a incorniciare il viso, secondo l’ultima moda, in uno stile che addosso a me sarebbe risultato orrendo.
Ma erano passati i giorni dei complessi e delle insicurezze. O almeno così credevo.
D’altra parte a quel tempo vantavo altre sicurezze. Tanto fragile nel mio vittimismo estetico e nel confronto sociale, quanto coraggiosa, per non dire incosciente, quando si trattava delle idee e delle parole. Facevo l’anticonformista, allora. Ero l’unica a parlare, dicevo sempre quello che pensavo senza preoccuparmi delle conseguenze. E venivo sempre mandata avanti, capro espiatorio di tutte le contestazioni, l’unica che pagava di persona i tentativi di cambiare le cose, di chiedere trasparenza, di esprimere opinioni scomode. Non esitavo a scontrarmi con i professori, con i dirigenti, con le amiche stesse che a volte mi giudicavano esagerata, un po’ fanatica.
‐ Cosa hai fatto di bello in tutti questi anni ? Quanti sono: dieci, dodici? ‐  Era ancora lei a condurre la conversazione.
‐ Niente di quello che immagini‐ ho risposto sorridendo.
Pensava di ritrovare la stessa persona che aveva lasciato.
Cosa avevo fatto? Mesi e mesi di pronto soccorso. Poi camere anonime di pazienti dove si respiravano dolore, paura, ansietà, rassegnazione. Conversazioni evasive  con i parenti, oppure rivelazioni necessariamente brutali. Turni di notte, visite quotidiane ai degenti, confusa nel codazzo dei mediconzoli più o meno devoti al Primario. Cartelle cliniche, temperatura, pressione e battito cardiaco, drenaggi, medicazioni.
Poi ferri chirurgici sotto fari abbacinanti e teli verdi. Mascherine, guanti, cuffie calate sulla fronte, anonimo fantasma tra i fantasmi, comparsa di tanti drammi che erano diventati routine.
E i concorsi, tanti concorsi. Il curriculum, i documenti, il punteggio, i corsi di aggiornamento. Gli esami… per essere sempre la prima dei non ammessi.
Quante ricerche, quante relazioni firmate da altri. Quante pubblicazioni col mio nome in fondo alla fila, quando doveva essere in cima.
Ma non gliel’ho detto. Ero così entusiasta pochi anni prima, così idealista. L’avevo criticata per la sua partenza e la specializzazione negli Stati Uniti. Lei non era uno di quei cervelli che fuggono per disperazione, accolti là dove invece fanno incetta di cervelli. Lei poteva permettersi di scegliere. Solo questo: preferiva continuare a perfezionarsi dove voleva, dove le piaceva di più. E io l’avevo ancora una volta trattata da snob, da piccola, insipiente capitalista che sceglieva il paese dei suoi sogni per raggiungere le mete desiderate. Io, invece, avrei raggiunto qui la mia meta e poi chissà, forse in futuro sarei partita per unirmi a “Medici senza frontiere”. Io lavoravo come una matta, convinta di svolgere una missione superiore, animata da altruismo populista, da fervore umanitario.
‐ Una normale vita da ospedaliera.‐Ho risposto.‐  Sai, mi sono accorta che la vita d’ospedale alla fin fine era quello che preferivo.‐  Le mie parole sono suonate false anche alle mie orecchie. Chissà alle sue, abituata com’era in passato a vedermi sempre pronta a salire sulle barricate e a fare programmi eroici. Mi prendeva in giro, allora, forse a volte mi temeva quando mi vedeva accesa nelle discussioni, o pronta a distribuire volantini  e a scrivere striscioni.
Però era brava nello studio e nella pratica. E anch’io ero brava. C’era in entrambe una passione, una curiosità scientifica che a tratti ci accomunava. Ma poi la visione della vita ci divideva.
Le ho raccontato qualcosa della mia famiglia, delle mie vicende private. L’eterno fidanzamento con Alberto, sì proprio “quell’Alberto”, tra alti e bassi, mentre anche lui lottava per affermarsi nel campo della ricerca, un campo ancora più difficile.
Certo non potevo dimenticare gli anni in cui il “mio” Alberto era innamorato di lei e la corteggiava ostinatamente, penosamente, mentre lei lo ignorava con l’indifferenza tipica delle ragazze belle e piene di spasimanti. La odiavo in quegli anni. Com’era possibile non capire il valore di un ragazzo così brillante negli studi, così ricco di sentimenti, così limpido e solare. E io innamorata di lui. La solita catena di infelicità, di sogni impossibili. Io mi consumavo per attirare la sua attenzione e lui si logorava per quella stupida.
Meglio così.  Laura è partita, lui si è macerato nel dolore e nel rimpianto, poi si è accorto di me. Certo, ho solo raccolto i cocci. Però poi ha cominciato a volermi bene davvero. Chissà se anche lei stava pensando la stessa cosa.
‐ Lo sai che ho una figlia? ‐ mi ha detto all’improvviso ‐ Me la godo la mia micetta, mi ha riempito la vita. ‐
Per molto tempo ha continuato a parlarmi della bambina senza far alcun cenno a una famiglia, a un marito o a un compagno. Così ho preferito non indagare. Al di là delle sue parole, vedevo le immagini di una vita piuttosto solitaria e molto impegnata, ma certamente ricca di esperienze importanti o interessanti. Una figlia giunta per incidente, ma fortemente voluta e amata. A mia volta le ho confidato di avere le mie difficoltà a formarmi una famiglia. Che strano! Non ci tenevo affatto un tempo, anzi dichiaravo di non volere legami fissi e di non voler pianificare una rispettabile esistenza borghese. Adesso i ruoli sembravano rovesciati. Da qualche anno io e Alberto facevamo i conti su come e quando avremmo potuto programmare un figlio e mettere su casa, senza rinunciare alle nostre ambizioni professionali che richiedevano ancora pazienza e sacrifici.
Ma cosa era successo?
‐ Qui la vita non è facile se decidi di seguire una carriera, specialmente per noi donne. Ti ricordi quando parlavamo dei “baroni” della Medicina ? Beh, le cose non sono cambiate poi molto. Anzi. Ci sono sempre le mogli, i figli, i nipoti da anteporre agli altri candidati, e poi i gruppi di pressione, gli schieramenti politici o confessionali, gli scambi di favori…tutto viene prima del merito. Forse hai avuto ragione tu a voler andare in America.Ti ho invidiato sai? Sapessi quante volte ho rimpianto di non aver fatto una scelta diversa. Dopotutto l’opportunità c’era stata anche per me‐
Ho continuato a sfogarmi per un po’, ma ad un tratto mi sono resa conto che lei mi fissava assorta, come se non capisse o se pensasse ad altro.
Dopo un attimo di silenzio Laura ha ripreso a parlare.
‐ Sai, gli Stati Uniti sono un grande paese. C’è libertà e spazio per tutti. Il merito viene riconosciuto, c’è rispetto e gratificazione per il lavoro. Ma non c’è pietà. Le leggi rigorose sono quelle dell’impegno, dell’efficienza e del dovere, sì, ma la meta deve essere il successo. E il denaro. Solo il denaro conta. Non c’é compassione per chi sbaglia. Non c’è posto per i deboli. E i poveri sono veramente poveri. Voi che abitate qui non vi rendete conto: credete che l’assistenza sanitaria e tanti altri servizi sociali siano la cosa più naturale del mondo, ma non è così. L’America è un mondo duro. Forte e libero, ma duro. Dovresti andarci tu in America: è il posto adatto per chi ha voglia di lottare. E poi, come hai detto prima, avevi avuto l’occasione anche tu. ‐
Questa volta era lei a scaldarsi: mi sembrava di rivedere me stessa ai tempi della contestazione. Davanti alla sua foga sono rimasta senza parole. Mi sono chiesta se avesse lei stessa sperimentato questo aspetto del Nuovo Mondo, se avesse commesso qualche errore o qualche mancanza. Però non ha aggiunto altro, così ho cercato di cambiare argomento.
‐ Chissà quanti incontri hai fatto. Parlami un po’ della società americana.‐
Si è meravigliata di questa mia disponibilità verso quelli che una volta consideravo solo  arroganti imperialisti. Mi ha guardato con espressione delusa.
‐ Certo ‐ parlava con ironia ‐ gli intellettuali delle grandi città: colti, vestono italiano, mangiano italiano, sono democratici e snob, fanno gli anticonformisti ma vivono benone e quasi non si accorgono dei barboni che si accucciano nei vicoli. Ci sono abituati. E si comprendono solo tra di loro. Oppure i paesani conservatori del Middle West, che non sanno nemmeno dov’è l’Italia (e ignorano molte altre cose). Credono che qui si sia ancora nelle condizioni del dopoguerra e che la civiltà sia arrivata solo da loro. Sempre ottimisti e convinti di vivere nel migliore dei mondi possibili. Si credono ancora al tempo dei Padri Pellegrini con le regole di sempre: lavoro, tradizione e mito americano. Non parliamo degli stralunati di ogni genere che trovi in California o i disadattati di ogni razza nelle città del sud, dove tutti vorrebbero convivere ma in realtà tutti si odiano e intrecciano illusioni di tolleranza a sordi rancori, diffidenze, pregiudizi, sospetti. Tensioni di ogni genere…che a volte esplodono.‐
Adesso mi sembrava che fosse lei a esagerare e a drammatizzare,dopotutto l’America aveva una varietà etnica immensa, le posizioni sociali e culturali erano certamente molteplici e molto sfumate. Gliel’ho detto con una certa irritazione, stupita da questa sua insofferenza. Ma poi ho pensato che la conoscenza degli Stati Uniti l’aveva lei e non io, e che probabilmente dietro a questo stato d’animo c’era un problema personale di disagio, di solitudine, di diversità dalla società americana.
‐ Il paese ideale non esiste ‐ improvvisamente manifestavo una moderazione e una saggezza che non avevo mai avuto. ‐Tutto si paga, in un modo o nell’altro‐.
Lei si è come risvegliata da un sogno.   ‐ Voglio tornare. Rivoglio le mie radici. Mia figlia non deve crescere là. ‐
Ecco, era quello il suo problema. Voleva ritrovare un mondo che conosceva fin dall’infanzia, dove il senso del tempo e dello spazio hanno dimensioni umane e prevedibili. Voleva un ambiente stabile e rassicurante, amicizie solide e durature, non conoscenze provvisorie che appaiono e scompaiono come niente fosse. Non si riconosceva in quella vocazione nomade e irrequieta che caratterizza un popolo di migranti e di pionieri, sempre pronti a lasciare casa e paese per inseguire dovunque un nuovo lavoro, una brillante carriera, una sistemazione diversa. Voleva il calore di una terra antica dove poteva riconoscere se stessa tra la sua gente, con tutte le carenze, gli errori, le contraddizioni della sua storia e con le debolezze della sua umanità.
‐ Allora ritorna ‐ le ho detto con dolcezza. Adesso la capivo: non era fatta per l’America.
Eravamo ancora su fronti opposti, perché a me quella descrizione di un mondo vario e libero, fatto di tante realtà, rigoroso ma travagliato dai problemi di umana convivenza, sembrava infinitamente affascinante. Quel mondo aperto ad ogni esperienza, disposto a riconoscere i tuoi meriti come a farti pagare gli errori, ricco di fermenti inesauribili, mi attraeva come una calamita. Chissà se sarebbe piaciuto anche ad Alberto. Forse era questa la nuova sferzata che ci occorreva per ritrovare entusiasmo ed energia.
Mentre a lei avrebbe fatto bene ritrovare i nostri ritmi, le nostre tolleranze, il nostro sapere e volere conciliare anche quello che conciliabile non é.
‐ Tornerò‐ disse‐ e tu?
‐ Chissà, forse partirò‐.