Khorakhané, che strada prendiamo?

Mia nonna ha almeno cento anni.
Ha almeno cento anni da quando ero piccolo.
Quando ci mettiamo in viaggio, lei ha una carrozza privata nella carovana.
Totalmente vuota, fa da cassa di risonanza per le sue storie.
Stende al centro una coperta dove ha cucito delle monete e qualsiasi altra cosa luccicante abbia trovato durante le soste.
Una gazza ladra che si costruisce un nido nomade.
Solo quando ha disposto intorno a lei amuleti ed erbe per proteggere la sorte, il viaggio può iniziare.

Al suono degli zoccoli dei nostri cavalli, tritando delle foglie di melissa con le dita, dice che non ricorda se sia stata realtà o fantasia, ma noi rom non siamo sempre stati perseguitati.
Non si ricorda quando, ma c'è stato un tempo in cui gli avventurieri venivano da lontano per farsi fare certi intrugli portafortuna. Per farsi leggere le carte, i fondi del caffè, le rune e le linee della mano.
In realtà, dice, noi sapevamo leggere qualsiasi cosa ci chiedessero.
Viaggiando così tanto, avevamo imparato tutte le lingue possibili, dai dialetti degli uccelli ai gorgoglii del torrenti.
Il libro del mondo, sapevamo tradurlo.

Durante la nostra eterna migrazione, le spose bambine cavalcano in tre lo stesso cavallo.
Ancora vestite da cerimonia, strette l'una all'altra, creano un unico lungo abito bianco che le uniscono in una sola, bellissima, sposa adulta.
Uno di noi, che le affianca a piedi, suona per loro un violino lamentoso.

Mia nonna, per svelare i segreti più preziosi, prende dalle tasche della sua gonna del pane farcito di diamanti e lo spezza.
Una volta alla luce, il loro bagliore è una cornice per le verità che sta per dire.
Dice che il guaio, poi, è che le persone non ci hanno più compreso.
Concentrandosi su cose più materiali, esultando per un nuovo guadagno, non comprendevano perchè noi esultassimo per il ritorno delle rondini.
Affezionandosi all'immutabilità degli eventi, non hanno più capito come facessimo ad assorbire le usanze, i nomi, i battesimi, di tutte le terre toccate.
I vivaci colori di cui ci macchiamo viaggiando, dice, ci hanno reso invisibili come il vento.

Mirka balla dal giorno della festa di San Giorgio, ha i capelli coperti di fiori.
Balla saltellando intorno ai cavalli, intorno alle carrozze.
La sua gonna rosso acceso, roteando, crea un piccolo cerchio di fuoco.
Passando davanti al rifugio su ruote di mia nonna, sorridendo, le chiede ‐Khorakhané, che strada prendiamo?‐
E quei cento anni alzano le maniche a scoprire le vene celesti dei polsi. Sono quelle che consulta come mappa.
Mirka fa un balzo sulla sua carrozza e si siede di fronte a lei.
In fretta scopre anche i suoi polsi e prende le mani della nonna.

‐Non è questo quello che facciamo? Unire le nostre cartine geografiche di vene in modo da creare un percorso infinito?‐

Non è che siamo diversi, noi e voi.
Eravamo uguali, ma voi, dei nostri piccoli specchietti, adesso vedete solo i bordi taglienti.
Noi, dei nostri piccoli specchietti, non abbiamo mai smesso di vederci la potenzialità di riflettere il mondo intero.