La fabbrica dei calendari

L’unica cosa sicura è un futuro incerto, quindi meglio prepararsi, con la testa soprattutto, perché anche affrontare attese decrescenti è una bella sfida.
Era quello il pensiero che, da quando aveva ricevuto la lettera di licenziamento, spesso ripeteva a se stesso; una forma di autodifesa, utile per non farsi fagocitare dalle preoccupazioni, dall’ansia, da quel malessere della mente che impedisce di guardare oltre.
Certo l’età (cinquant’anni compiuti) non aiutava e il mondo del lavoro nell’ultimo decennio aveva cambiato pelle e anima.
Duecentoottantanove: quello era il numero di dipendenti che la fabbrica in cui aveva lavorato per due terzi della sua vita raggiunse nel momento di massima espansione.
Alla fine, dopo prolungati periodi di crisi, ristrutturazioni e cessazione di alcune produzioni, erano rimasti in venti, e da lì a poco la manifattura avrebbe chiuso definitivamente.
Le lettere di licenziamento erano già arrivate e nel giro di alcune settimane si sarebbero ritrovati tutti disoccupati.
“A causa delle crescenti difficoltà, siamo costretti, nostro malgrado, a cessare l’attività; pertanto … “  iniziava così il comunicato che l’azienda aveva esposto in bacheca per annunciare la fine; era la stessa bacheca che, negli anni di uno sviluppo che sembrava un treno in corsa,  aveva ospitato i volantini che comunicavano ai lavoratori i risultati conseguiti con le lotte sindacali.
Nell’ultimo decennio quel pezzo di legno era diventato un incubo: periodicamente vi compariva una lettera che comunicava la chiusura di un reparto e l’apertura della procedura di riduzione del personale.
Chi restava, chi non veniva espulso si considerava un sopravvissuto, almeno per quella volta.
Guido quella mattina di gennaio entrò in fabbrica più presto del solito, attraversò il corridoio dove c’era la macchinetta per timbrare il cartellino e arrivato nel cortile interno, anziché entrare in ufficio si diresse verso il reparto di produzione.
Quando aprì la porta, un brivido lo sorprese, e non solo perché il riscaldamento era spento da diverse settimane; una debole luce entrava dai vetri sporchi e, a chiazze, illuminava le grigie pareti e il pavimento unto di grasso impastato con la polvere.
Lì, a distanza regolare, restavano i segni dei pesanti telai in ghisa da poco rimossi.
Ricordava bene ciò che accadeva nel momento in cui quelle macchine entravano in funzione tutte insieme: il cemento vibrava e nel giro di pochi secondi un rumore fatto di schianti cadenzati, riempiva l’aria ed entrava nel cervello.
Chi ci lavorava con il tempo s’era abituato al ritmo infernale che regnava nel reparto, ma non era in ogni caso un bel vivere. Eppure quel mestiere, ripetitivo, maledetto, ai limiti della sopportazione, aveva permesso a buona parte degli operai di costruirsi una vita, a volte piatta, ma comunque dignitosa.
Un posto di lavoro fisso, un salario che con qualche ora di straordinario, magari in nero, perdeva un po’ della sua miseria, non erano cose da sputarci addosso; e poi con qualche battaglia sindacale si riusciva sempre a portare a casa dei miglioramenti.
Tra quei telai la precarietà quasi non esisteva, anzi quella sicura fatica quotidiana spesso era l’unica certezza, e poteva aiutare a superare le altre precarietà della vita.
Lavoro, lotte e sacrifici erano la porta d’ingresso verso un benessere che, dicevano, presto avrebbe arricchito tutti.
Ecco che fine hanno fatto quelle aspettative crescenti! disse tra sé mentre guardava l’unico telaio rimasto.
Presto, una squadra d’operai l’avrebbe sezionato e caricato in un container in partenza per l’oriente.
E’ lì che erano già andati tutti gli altri.
Il proprietario aveva fretta di vendere, perché anche quei paesi stavano diventando esigenti, e presto i suoi telai, vecchi e obsoleti, sarebbero diventati invendibili.
Aveva inoltre fretta di cessare l’attività perché il terreno su cui sorgevano i capannoni, grazie ad un’amministrazione comunale disponibile e all’interessamento interessato di alcuni professionisti prestati alla politica (o meglio: che avevano preso in prestito la politica) presto sarebbe diventato area residenziale e commerciale; e non c’era tempo da perdere perché anche il settore edile cominciava a scricchiolare, e vendere quello che si costruiva diventava ogni giorno più difficile.
In paese le fabbriche più importanti avevano chiuso da tempo e le opportunità di lavoro si erano spostate nei servizi e soprattutto in quel grosso aeroporto intercontinentale che ogni giorno inventava qualche nuova località verso cui far partire o da dove fare arrivare migliaia e migliaia di persone.
L’aeroporto assorbiva manodopera d’ogni tipo: da quella altamente qualificata che in genere veniva da fuori, a quella senza professionalità, quasi tutta del circondario.
Lì però non era come in fabbrica; i lavori erano quasi tutti a termine, stagionali e inoltre richiedevano tempi e disponibilità assoluta: un vero scombussolamento della vita, senza certezze, sicurezze, prospettive per il domani.
Tanti lavoratori, dopo la moria di manifatture che aveva colpito il paese, erano riusciti a farsi assumere con la qualifica di precari a tempo indeterminato in quella stazione del cielo; e ora saltavano da un contratto all’altro come stambecchi.
Probabilmente, a marzo, quando la sua fabbrica avrebbe chiuso definitivamente i cancelli anche lui si sarebbe ritrovato nella stessa situazione.
Uscì dal reparto di produzione ed entrò in ufficio; non c’era ancora nessuno.
Accese il computer e scaricò la posta: tutte stronzate!
Spostò l’intero contenuto nel cestino; adesso la cartella di posta in arrivo era vuota: come il reparto di produzione.
Quella non era proprio giornata.
Mancavano ancora pochi minuti alle otto e c’era il tempo per un caffè; di regola non si dovevano consumare bevande prima delle nove, ma che cosa gli poteva succedere? Ormai aveva già in mano la lettera di licenziamento.
Tornò nel vuoto reparto di produzione e si diresse verso il distributore: l’unica cosa calda rimasta; inserì alcune monetine, selezionò una bevanda e poi spostò lo sguardo sulla colonna che stava alla sua sinistra.
Si ritrovò a ridere: neanche il calendario con le donne nude era rimasto.
In un momento di rabbia, gli operai addetti allo smontaggio dei macchinari dopo aver raccolto tutti i calendari (genere come mamma ti ha fatto) li chiusero in una busta che poi buttarono nel container; prima però su quella busta vergarono alcune frasi del tipo:
“Tutto ci avete preso!  Allora pigliatevi anche queste quattro zoccole!”
In quel frangente si ricordò di quello che successe diversi anni prima, quando una scolaresca visitò la fabbrica.
Alla fine del tour, il padrone, o meglio il datore di lavoro (come lo chiamano oggi) offrì a tutti quei ragazzi, storditi dal rumore e per niente entusiasti, una bevanda calda; poi quando si spostarono nel cortile, con un tono che trasudava orgoglio da tutti i pori della pelle, chiese loro qual’era stata la cosa che più li aveva colpiti.
Nel silenzio generale si sentì la voce di un ragazzo che, deciso, rispose:
‐ Il calendario appeso di fianco alla macchina del caffè.
Tutta la scolaresca scoppiò a ridere.
‐ Chi è quello? ‐  chiese alquanto arrabbiato il padrone rivolgendosi alla persona che aveva di fianco.
‐ Non ci faccia caso ‐  rispose il professore d’italiano, cercando per quanto possibile di mantenersi serio ‐  so’ ragazzi! ‐