La malinconia di un sogno

Alessandra uscì dalla doccia, indossò soffici calze bianche, un pigiama e una vestaglia rosa. Stappò una birra, mise dei pop corn in un vassoietto e sprofondò sul divano per vedere una vecchia pellicola del ’68. Osservava il film con gli stessi occhi con cui lo aveva visto la prima volta, quando decretò immediatamente che quella era la sua pellicola preferita.
Quando il film finì, si alzò e i suoi occhi azzurri si trovarono a fissare per qualche minuto la vecchia chitarra acustica avvolta nella penombra di quell’umido monolocale che vedeva la luce del sole per poche ore al giorno. La fissò con sguardo imperturbabile, come assente, i suoi occhi non lasciarono trapelare alcuna emozione o pensiero. L’indomani avrebbe compiuto venticinque anni e si era sempre detta che nella musica bisogna sfondare entro quell’età.
Si recò nella sua camera da letto. Osservò la stracolma biblioteca di cui andava fiera, posò l’attenzione su un vecchio libro di Kafka, Il processo. Lo aveva comprato circa otto anni prima e adesso aveva le pagine giallastre ed era ricoperto da un sottile strato di polvere. Il processo era da sempre uno dei suoi libri preferiti. Iniziò a leggerlo di nuovo e poi, dopo una ventina di minuti, decise di uscire.
Per strada si imbatté in una sua vecchia compagna di liceo che non vedeva da anni. Questa attaccò con i soliti luoghi comuni che Alessandra tanto detestava tanto che per alcuni secondi la immaginò finire in fondo agli abissi col Titanic. Berta (è cosi che si chiamava) non era mai andata a genio ad Alessandra. Era una di quelle tipe perfettine e leccate che a scuola sono pronte a baciare anche i piedi ai professori pur di ottenere un buon voto. Era inoltre una tipa casa e chiesa; a venticinque anni era già sposata, lavorava in una grossa azienda farmaceutica e progettava di avere un figlio a breve. Berta rappresentava tutto ciò che Alessandra odiava.
Quando si lasciarono, Alessandra si diresse senza meta in alcuni vicoli scuri, dove sembrava aleggiare nell’aria una stantia puzza di fradiciume. Entrò in un bar piccino ma accogliente per una birra. Non era mai stata lì dentro e scoprì che quel bar faceva proprio al caso suo. Era piccolo, isolato e soprattutto non molto frequentato. Bevve lentamente la birra, ne ordinò un’altra, pagò, ringraziò, uscì.
Per qualche ora girò a vuoto, camminando senza fretta per le strade del centro, fermandosi incantata dinanzi a tutte le deliziose vetrine dei più eleganti negozi. Adesso osservava una vetrina stracolma di scarpe per donna. Ce n’erano di tutti i tipi. Alessandra le possedeva tutte. Era una famosa cantautrice, scendeva da una limousine con indosso una pelliccia di visone e ai piedi quel paio di scarpe rosse e nere coi tacchi alti che vedeva in alto a destra in quella vetrina. Una marea di giornalisti l’aspettava, ma lei odiava rilasciare interviste perché rilasciare interviste era come prostituirsi; centinaia di fan in visibilio volevano un autografo. Lesse scintilla d’invidia negli occhi di alcune ragazze, provando un’intensa fitta di piacere al cuore, poi sgattaiolò nell’albergo a cinque stelle dove una cameriera rimase incantata dinanzi a quelle scarpe e… All’improvviso qualcuno la urtò, spezzando la malinconia del suo sogno. Era un ragazzino di dieci anni che correva con una palla in mano.
‐ Ehi! Stai attento! ‐ gli gridò dietro.
Continuò a camminare e si immobilizzò davanti ad un’immaginaria suonatrice d’arpa che suonava note che erano carezze per il suo cuore. Quando la melodia finì, si ritrovò senza sapere come in un vicolo antico pieno di librerie con edizioni economiche dei classici. Diede un’occhiata ai libri, decidendo di non comprare niente. A un muro era appeso un vecchio manifesto inumidito e dai colori sbiaditi. Annunciava un concerto in un localaccio malfamato. “Genere rock blues”, così c’era scritto. Alessandra provò un enorme senso di nausea.
D’un tratto si sentì stanca e si avviò verso casa. Sulla via del ritorno, un ragazzino sui tredici anni, il cui alito di birra si poteva sentire a distanza di cento metri, le fece degli strani apprezzamenti e la invitò ad andare con lui da qualche parte. Alessandra tirò dritta senza distogliere lo sguardo da terra. Focalizzò la sua attenzione sulle cicche di sigarette che erano in terra. Ne contò centoventisei lungo la strada fino a casa.
Appena rientrata, accese la televisione ma non trovò nulla di interessante. Si dedicò alla lettura di Kafka per una mezz’oretta, poi guardò l’orologio decidendo che si era fatta ora di cena. Ridiscese in strada, comprò una pizza, un paio di birre fredde e ritornò in casa. Mangiò lentamente, con occhi velati di una cupa e malinconica tristezza. Mentre mangiava, cercava le parole per scrivere un nuovo testo.
Ritornò in camera, dove si trovò a fissare una vecchia foto di lei con la sua unica band. Aveva diciassette anni all’epoca. Si ricordò di Mauro, il bassista che le faceva la corte e ad ogni prova la riempiva di complimenti per la sua bellezza radiosa, e del batterista che non c’era prova in cui non si presentasse completamente ubriaco. Dopo lo scioglimento indolore di quel gruppo, aveva deciso di intraprendere la carriera da solista. I gruppi non facevano per lei. Troppe teste calde messe insieme, troppe idee che, prima o poi, inevitabilmente si sarebbero scontrate.
Squillò il cellulare, ma non rispose. Non aveva voglia di vedere nessuno.
Poi si svestì, si sfilò le calze, si rimise il pigiama e si coricò. Spense la luce, rimanendo per alcune ore al buio, guardando il vuoto e cercando di focalizzare qualche pensiero. Sentì dei violenti tuoni fuori. Stava per scoppiare un temporale. Iniziò a piovere, una pioggia violenta e incessante, i tuoni sembravano una vendetta degli dei; facevano tremare i vetri e scuotevano le fondamenta del condominio. Quando finì di piovere si ritrovò avvolta in un silenzio spettrale. Dalla strada non veniva nessun rumore, il mondo intero sembrava morto. Si addormentò.
L’indomani avrebbe compiuto venticinque anni.