Metempsicosi

‐ E perciò la Ditta ha ritenuto opportuno non accettare la sua domanda di trasferimento nella sede di Lione. Deve capire Gioacchino: prima di lei, altri aspiranti, forniti dei titoli richiesti, hanno prodotto la domanda. Inoltre, hanno a carico moglie e figli, sono più giovani, conoscono bene l’inglese, hanno competenze informatiche… Su, sia gentile, torni al suo lavoro e cerchi di curare un po’ di più l’abbigliamento. Diamine! opera in un ufficio aperto al pubblico!_
Ad occhi bassi, spalle leggermente ricurve, passo trascinato e braccia a piombo lungo i fianchi, si avviò alla sua postazione: uno stramaledetto sportello aperto al pubblico, dove non si affacciava mai nessuno, dato che glielo avevano creato su misura.
‐ Come si fa a non aiutare uno come lui?‐ si era chiesto costernato l’ingegner Domizi, quando gliene aveva parlato un suo caro amico, responsabile del Centro Recupero Disabili.
Era davvero un povero disgraziato! La madre l’aveva abbandonato che aveva solo quattro mesi, anche se doveva averlo deciso prima ancora che nascesse: in fondo, aveva solo diciassette anni, bella come un fiore, lunghi capelli corvini, una vita davanti, non fosse stato per quella gravidanza inaspettata e indesiderata.
L’aveva persino allattato al seno, piccolo e grinzoso com’era, e a lui sembrava di ricordare, a distanza di quarant’ anni, il profumo dolce delle sue braccia nude. Sapevano di cioccolato e cannella ed erano così morbide!
Lo allattava vicino al caminetto e per distrarsi dai morsetti fastidiosi di quella piccola bocca avida e insaziabile, canticchiava canzonette o tamburellava nervosamente con le dita della mano libera sulla mensola di legno: ma a lui sembravano rumori buoni, quelli che ti fanno compagnia, quando hai una casa e vivi in compagnia e non sei sempre solo, triste, chiedendoti continuamente perché non puoi essere diverso, bello, sano, ricco, con un lavoro gratificante e una donna che si prende cura di te.
Ora gli avevano negato il trasferimento a Lione: che sfiga! A Lione c’era Marcello, il suo unico amico, quello che al Centro non lo prendeva in giro per un nonnulla e se non capiva al volo ciò che gli dicevano, glielo ripeteva una, due, tre volte, finché lui faceva cenno di sì col capo, evitando di balbettare una risposta inutile, col rischio di emettere quei fischi ridicoli se nelle parole c’era una esse di troppo. E poi lo aiutava ad abbottonarsi la camicia senza saltare i bottoni e gli ricordava di indossare il cappotto, prima di uscire nel cortile per la passeggiata vigilata, se il freddo era pungente.
Era stato Marcello a pensare ad un lavoro per lui presso la Ditta di Trasporto biancheria sporca che serviva il Centro: gli avrebbe fatto bene sentirsi utile e produttivo, l’avrebbe tirato fuori da quella mania suicida, da quel meccanismo diabolico messo in atto dalla sua mente malata, che spaventava ormai tutti: gli altri ricoverati, gli infermieri, i medici. Prima o poi l’avrebbero trovato da qualche parte, senza vita, magari coi polsi insanguinati o ai piedi della tromba delle scale. D’altronde non gli si poteva star dietro ventiquattr’ore su ventiquattro! Ormai aveva quasi quarant’anni!
Ma a quello sportello non voleva più starci. Ne aveva fin sopra i capelli di contare le ore, i minuti, i secondi di quelle quattro ore di lavoro in cui vedeva solo il facchino che ritirava i sacchi di biancheria sporca e quello che la riportava pulita. Una firma al ritiro, una alla consegna: tutto qui.
Non era questa la sua vita, non poteva essere questa. Perciò avrebbe voluto morire, subito, senza pensarci su un solo istante, per vedere se dopo questa ce ne fosse un’altra, dall’altra parte della barricata.
Sentì il camioncino della Ditta che voltava l’angolo: tra qualche secondo si sarebbe fermato davanti all’ingresso dell’edificio a piano terra dove c’era il suo sportello, con la solita frenata brusca, sgommando per la velocità.
Si alzò sorridendo dalla poltroncina girevole, chiuse lo sportello aperto al pubblico come faceva al termine delle quattro ore di lavoro e uscì in strada senza prendere il cappotto, anche se il freddo era pungente.
Fermo sulle gambe al centro della carreggiata, quasi sull’attenti, sguardo dritto davanti a sé, aspettò che il camioncino sbucasse come al solito dall’angolo a tutta velocità, frenando inutilmente con la solita sgommata.


Aprì gli occhi nel frastuono assordante delle gabbie che oscillavano urtandosi.
La strada di campagna, piena di buche e di ciottoli, faceva sobbalzare continuamente il furgoncino di Mattia. Ogni sobbalzo una bestemmia, e negli intervalli le strofe storpiate di una canzone anni sessanta.
Si guardò intorno, intimidito dal buio e dalla certezza di non essere solo.
L’odore inconfondibile degli altri cuccioli, il loro ansimare, la paura che sentiva così simile alla sua, tutti quei rumori di ferraglia, la voce dell’uomo lo riempirono di un terrore sordo e impotente.
Quando il portellone si spalancò sulla campagna, il sole lo accecò per qualche istante. L’aria pulita lo investì con l’odore dell’erba bagnata e della terra, ridandogli un poco di vigore.
Si alzò sulle zampe, guardandosi intorno  attraverso le sbarre, e vide i suoi compagni, in piedi come lui, tutti rivolti alla luce, qualcuno così coraggioso da abbaiare in direzione del vecchio che scaricava le gabbie ad una ad una, e le portava via, ad una ad una.
Quando venne il suo turno si acquattò sul fondo e abbassò la testa, con le orecchie ripiegate sugli occhi e si abbandonò alle oscillazioni disordinate la rassegnazione di chi si sente ormai perduto.
Ma i profumi erano tanti e così forti che spalancò la bocca per ingoiare quell’aria fresa, odorosa di campagna, e dilatò le narici perché vi penetrasse il profumo della libertà.
Poi la gabbia entrò nel buio di una stanza puzzolente e umida. Fu poggiata a terra e lasciata là, mentre la porta sgangherata si richiudeva cigolando.
Che la sottomissione fosse l’unica arma vincente per la sopravvivenza l’avrebbe capito ben presto: da quegli strani spasimi dello stomaco vuoto; dalla sete che gli prosciugava la saliva; dal rumore assordante della gabbia colpita dal bastone di Mattia, quando credeva di poter protestare guaendo per l’insopportabile prurito delle pulci dentro il folto pelo color miele.
La ciotola si riempiva raramente con rimasugli di cibo che non riusciva a masticare; si accontentava, allora, di leccarne il fondo, benché l’odore fosse ributtante e il sapore acido.
Alle narici gli ritornava un profumo diverso, nella bocca il gusto pastoso e dolciastro di un liquido che doveva aver succhiato, una volta, e che veniva da qualcosa di vivo, morbido e caldo, rassicurante.
Riusciva persino ad appisolarsi, quando gli tornava nella bocca quel ricordo.
Al canile i giorni erano tutti uguali. Fuori dalle gabbie la campagna, l’erba, gli insetti che sciorinavano nell’aria entrando a volte nelle sbarre e uscendone liberamente, dopo essersi posati per qualche istante sul suo muso.
Li seguiva con gli occhi, senza nemmeno piegare il collo, come un vecchio leone in riposo che osserva con aria di superiorità i minuscoli animali della giungla.
Non era quello il suo posto.
Quando si guardava intorno non riconosceva nulla di ciò che doveva aver visto, una volta. Nemmeno la voce di Mattia somigliava ad altre voci che le sue orecchie avevano registrato, una volta, da qualche altra parte. E aveva sempre freddo, ma sapeva come si può stare bene al caldo, su un tappeto morbido, vicino ad un camino acceso, con i rumori buoni che ti fanno compagnia. Doveva aver provato tutte queste sensazioni, una volta, da qualche altra parte
Gli altri cani sembravano tutti più adulti di lui; se ne accorgeva dall’espressione dei loro occhi: feroce in alcuni. Era certo che se il vecchio avesse aperto per sbaglio la loro gabbia, lo avrebbero sbranato, saziando finalmente la fame rabbiosa e l’odio represso per così tanto tempo.
Altri avevano nelle pupille tutta la triste malinconia dell’universo. Probabilmente a Mattia avrebbero persino leccato le mani, se avesse aperto le loro gabbie almeno una volta, per farli correre sul prato, urinare nell’erba e coprire le proprie feci con la terra.
Come erano i suoi occhi?


‐ Guarda quello! – gridò la ragazza dai lunghi capelli corvini – È stupendo! – E teneva l’indice puntato su di lui, non c’era dubbio, proprio su di lui. ‐ Guardagli gli occhi. – Continuava a gridare entusiasta ‐ Come sono dolci! Si vede che è un cucciolo affettuoso, che vuole giocare; guarda come agita la coda, sembra uno zampillo. Prendiamo quello.‐
Mattia lo tirò fuori dalla gabbia e glielo mise in braccio. Che profumo dolce avevano quelle braccia nude! Sapevano di cioccolato e cannella ed erano così morbide! L’avrebbe sporcata – pensava intimidito – Qualche pulce l’avrebbe ferita. Era così bella e lo accarezzava come se anche lui fosse profumato e pulito come lei.
Mentre il tepore del giovane seno piano piano lo scaldava, gli parve di sentire sulla lingua un sapore antico, pastoso e dolciastro, che lo fece guaire di gioia.
Lei allora non ebbe più dubbi. Quel cucciolo sarebbe stato suo e di nessun altro. Si sarebbe presa cura di lui, come una vera mamma, per tutta la vita.
Si rivolse sorridendo al suo ragazzo e decretò:
‐ Lo chiameremo Joker.‐