Non am(av)o recitare poesie

Non am(av)o recitare poesie. Tale esercizio mnemonico mi distrugge, mi provoca l’angheria dell’emozione che si contorce nello spazio ristretto dell’organizzazione parola ‐neurone, colore ‐verso, melodia – strofa.

Ma questo lo so adesso.

Ora di lettere, terzo anno Magistrali.

La prof Braganò mi chiamò alla cattedra, argomento del giorno: Manzoni.

Sono preparata, mi piace il Manzoni e le sue articolate scene pittoresche di personalità e luoghi, non come mi piacciono gli scrittori e poeti del ‘200 e del ‘900, ma è da studiare anche l’800 e così sia, sono preparata.

“Signorina Vezio, mi faccia sentire il Cinque maggio.”

“Il Cinque maggio è un’ode scritta nel 1821 dal Manzoni in occasione della morte di Napoleone Bonaparte in esilio sull'isola di Sant'Elena… ”

“Grazie Vezio, ma mi reciti la poesia...”

“...il ritmo incalzante, in sei settenari… la sineddoche...”

“Grazie Vezio, ora reciti la poesia...”

Attimo di silenzio rumoroso, la memoria cozza a fil di lama con l’aura mistica del poeta e del Bonaparte in esilio. Lo sguardo interiore ripercorre tutta la storia e la triste fine dell’imperatore dei francesi e re d’Italia, si posa sulle spalle curve del Manzoni mentre intinge il pennino e munge il repertorio poetico per creare l’ode; mi sembra di vedergli un alone fumoso sul capo, mi sembra di perdermi nel suo pensiero mentre cerca i lemmi adatti a un ‘sì grande condottiero per non offenderne memoria, per esaltarne i pregi di genio militare e di doti umane, la sofferenza dell’esilio, dell’umiliazione…

“Vezio, sto aspettando...”

“Prof...”

“Vezio, la poesia...”

Piange ogni poro la delusione dell’ode che deve stazionare e stagionare nel gelido della mente. Odio congelare i sentimenti, miei e altrui, in cellette cerebrali.

“Vezio…!”

Decido di recitare, mordono i denti dello stomaco, sento già le ulcere fiorire e sanguinare

“Ei fu…

Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro…”

No, non posso farcela. NON POSSO FARCELA!

Urlò la mia mente.

“Prof, mi rifiuto di recitare la poesia, mi perdoni, ma non ce la posso fare.”

Oltre gli occhiali, cerchiato di gommose saette lo sguardo della prof Braganò, poi lo scoppio:

“Vezio, ti ordino di recitare la poesia!!! te lo ordino!”

Silenzio assoluto, mai vista una classe così taciturna in tutto l’Istituto Magistrale e in tutta la mia carriera di studentessa. Mai sentito tanto legno nello stomaco e mente e gambe. Mi bloccai. Mi bloccai come fa un mulo quando resta sordo anche alle legnate del padrone e anzi, più legnate riceve, più si impunta.

E io mi impuntai, non volevo recitare la poesia, non amavo recitare. Non volevo, proprio non volevo. E non lo feci.

“No prof, non voglio recitare la poesia.”

“Osi rivolgerti a me con questo tono??? osi mettere in dubbio la mia autorità? Recita o finirai dal signor Preside!”

Non so che mi successe, la lotta era ormai innescata, mi sentii in ragione di restare nella mia fermezza; le compagne di scuola attentissime, ora mi guardavano con ammirazione o più verosimilmente terrore, per me, per loro che avrei e avrebbero subito chissà quale aspra vendetta della prof di Lettere.

Arrivò il signor bidello che mi accompagnò dal signor preside. Nel corridoio presi la prima ramanzina da parte del signor bidello: “Ma che ti salta in mente di fronteggiare la prof Braganò, lo sai che potrebbe farti perdere l’anno, lo sai che dimentica tutti i tuoi voti e li azzera per un gesto così?”

“Non lo so signor Luigi, non so che mi è successo, ma la poesia non la voglio recitare.”

“Non la conosci a memoria, non l’hai studiata?”

“Sì che l’ho studiata, si che la so a memoria!”

“E allora?”

A capo chino e con tutta la sincerità di cui ero capace risposi “Non lo so”. E non lo sapevo davvero.

Il signor preside mi guardò fra il serio e il faceto: “Beh signorina Vezio, cos’è questa storia del Cinque maggio, vogliamo raccontarcela?”

E mi si liberò la lingua.

“Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio sta,
muta pensando all'ultima

ora dell'uom fatale;
né sa quando una simile
orma di pie' mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.
Lui folgorante in solio
vide il mio genio e tacque;
quando, con vece assidua,
cadde, risorse e giacque,
di mille voci al sònito
mista la sua non ha:
vergin di servo encomio
e di codardo oltraggio,
sorge or commosso al sùbito
sparir di tanto raggio;
e scioglie all'urna un cantico
che forse non morrà.
Dall'Alpi alle Piramidi,
dal Manzanarre al Reno,
di quel securo il fulmine
tenea dietro al baleno;
scoppiò da Scilla al Tanai,
dall'uno all'altro mar.
Fu vera gloria? Ai posteri
l'ardua sentenza: nui
chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
del creator suo spirito
più vasta orma stampar.
La procellosa e trepida
gioia d'un gran disegno,
l'ansia d'un cor che indocile
serve, pensando al regno;
e il giunge, e tiene un premio

ch'era follia sperar;
tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
la fuga e la vittoria,
la reggia e il tristo esiglio;
due volte nella polvere,
due volte sull'altar.
Ei si nomò: due secoli,
l'un contro l'altro armato,
sommessi a lui si volsero,
come aspettando il fato;
ei fe' silenzio, ed arbitro
s'assise in mezzo a lor.
E sparve, e i dì nell'ozio
chiuse in sì breve sponda,
segno d'immensa invidia
e di pietà profonda,
d'inestinguibil odio
e d'indomato amor.
Come sul capo al naufrago
l'onda s'avvolve e pesa,
l'onda su cui del misero,
alta pur dianzi e tesa,
scorrea la vista a scernere
prode remote invan;
tal su quell'alma il cumulo
delle memorie scese.
Oh quante volte ai posteri
narrar se stesso imprese,
e sull'eterne pagine
cadde la stanca man!
Oh quante volte, al tacito
morir d'un giorno inerte,

chinati i rai fulminei,
le braccia al sen conserte,
stette, e dei dì che furono
l'assalse il sovvenir!
E ripensò le mobili
tende, e i percossi valli,
e il lampo de' manipoli,
e l'onda dei cavalli,
e il concitato imperio
e il celere ubbidir.
Ahi! forse a tanto strazio
cadde lo spirto anelo,
e disperò; ma valida
venne una man dal cielo,
e in più spirabil aere
pietosa il trasportò;
e l'avviò, pei floridi
sentier della speranza,
ai campi eterni, al premio
che i desideri avanza,
dov'è silenzio e tenebre
la gloria che passò.
Bella Immortal! benefica
Fede ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
ché più superba altezza
al disonor del Gòlgota
giammai non si chinò.
Tu dalle stanche ceneri
sperdi ogni ria parola:
il Dio che atterra e suscita,
che affanna e che consola,

sulla deserta coltrice
accanto a lui posò.”

Il silenzio nella sala di presidenza si fece più fitto dell’ovatta. La mano a uncino sul mento, nascondendo in parte le labbra, il Preside mi guardava. Ero certa stesse sorridendo, ma ora la preoccupazione prendeva il sopravvento, cosa mai avrei detto a papà, come avrei potuto giustificare la mia ritrosia a recitare la poesia in classe durante l’interrogazione!

Il Preside mi guardava e rimaneva zitto. Si rivolse al signor Luigi: “Luigi, accompagni la signorina a casa e riporti il libretto con la nota firmata da uno dei due genitori, la signorina è sospesa per cinque giorni, cinque, proprio come il titolo della poesia. Vezio, mi sa dire perché si è opposta alla professoressa di lettere?”

“Signor Preside, mi si è bloccata la mente, avevo un pugno nello stomaco, pensavo al Manzoni e al Bonaparte, li vedevo, mi capisce? Mi perdoni, non glielo so spiegare...”

Dissi mesta, e a capo chino guardai il pavimento.

Presi la nota e la sospensione, mio padre non proferì parola, in quei cinque giorni mi portò in negozio con lui, fra un cliente che provava un abito e una mamma che comprava il corredo alla sua figliola, recitavo il “Cinque maggio” ad alta voce. Divenne il mantra di quel 1972.

Non seppi mai cosa si dissero il preside e mio padre, ma so che di questo avvenimento ne parlarono molto durante i loro incontri di ex alunni del Liceo, forse loro avevano capito prima di me perché non am(av)o recitare poesie?