Stand by

Avrebbe compiuto cinquant’anni di lì a qualche giorno e le pareva la cosa più inverosimile del mondo, riferendola a se stessa. Non perché non accettasse l’idea di invecchiare, ma perché, fatta eccezione per qualche segno di decadimento fisico (la pelle non più tonica ed elastica come una volta, alcune smagliature sull’interno delle cosce, qualche striatura grigia nei capelli) era ancora una splendida donna. Il punto era che la sua anima non accettava l’idea del trascorrere del tempo, era come se avesse bloccato il suo orologio in una sorta di stand by molti anni prima, quando lui era uscito dalla sua vita, chiudendosi elegantemente la porta alle spalle.
Una scelta condivisa, a sentir lui; desiderio di realizzare pienamente la propria vita, attimo dopo attimo e senza rinunce, secondo lei.
Dopo il primo momento di sbalordimento, le era sembrato di piombare in un sonno profondo, come nella fiaba della bella addormentata, e con lei erano caduti in letargo persino gli oggetti che riempivano il suo spazio vitale: il portachiavi era diventato “quel” portachiavi che lui le aveva regalato in “quella” circostanza; la penna “quella” penna che lui aveva scelto per lei; l’abitino verde “quell’abitino” verde, indossato in “quell’occasione speciale”, che di speciale aveva solo la presenza di lui, e così via.
La sua anima non aveva accettato la realtà, dividendo la vita esattamente in due, come si dividono il giorno e la notte: l’esistenza quotidiana, con la sua routine – il lavoro, gli amici, il resto della famiglia ‐ era diventata il sogno e il sogno una realtà, fatta di attesa, come se d’improvviso avesse dovuto svegliarsi – esattamente come nella fiaba – e ricominciare dal punto dello stacco. Era come essere in credito col Destino e questo avrebbe pagato il suo debito, prima o poi.
Un giorno lui sarebbe tornato, consapevole che la vita senza di lei non era che una pausa senza senso, le avrebbe chiesto perdono, riconoscendo l’erroneità della sua scelta, e lei si sarebbe semplicemente rifugiata tra le sue braccia, svegliandosi da quell’incubo in cui era intrappolata da quattordici anni. Non poteva essere che così.
Pensava a tutto questo mentre guidava nel traffico della città per recarsi in ufficio e guardava l’orologio in continuazione: odiava fare ritardo e leggere l’ipocrita comprensione negli occhi dei colleghi mentre timbrava il cartellino. Maledizione! Non un solo semaforo verde quella mattina ed erano già le sette e quaranta. Avrebbe imboccato lo svincolo subito dopo i giardini pubblici ‐ pensò – Il senso era vietato, ma a quell’ora i vigili avevano un bel da fare nelle vicinanze dell’Università e nessuno l’avrebbe fermata.
Una manovra veloce e si immise nel sottopasso che sbucava sulla tangenziale.
La sirena dell’ambulanza le trafisse i timpani; premette forte il piede sul freno, prima di incollarsi sul paraurti della Bravo che la precedeva a passo d’uomo. Uno schianto fragoroso...poi  il buio.


‐ Non risponde a nessuno stimolo, purtroppo; si tratta di coma irreversibile; le funzioni cerebrali e vitali sono del tutto abolite. Non c’è stato di coscienza, è evidente dalla posizione dei globi oculari e degli arti, dalla completa assenza di riflessi e dalle caratteristiche dell’ elettroencefalogramma.‐
Eppure lei sentiva, poteva persino vedere quelle persone in camice verde, la lampada sul soffitto, sentiva l’odore dei farmaci e quel ronzìo continuo nelle orecchie.
Avrebbe voluto gridare: – Ci vedo, vi sento, non è vero che non ci sono funzioni vitali nel mio corpo. Il corpo è come addormentato, ma se faccio uno sforzo di volontà, riesco a muovermi, ne sono certa. –
Da quanto tempo era lì? La sensazione di assoluto silenzio nella stanza bianca la infastidiva, soprattutto quell'accostarsi di  volti sconosciuti al suo volto, come per studiarla, e quel muovere le labbra senza emettere suoni, quel voltarla e rivoltarla nel letto senza che lei potesse sentire il contatto dei guanti bianchi sulla pelle. Visi sconosciuti, occhi che talvolta piangevano, chissà per quale inspiegabile ragione. Non li conosceva, nessuna fisionomia veniva a squarciarle finalmente la memoria oscurata liberandola dal sonno.
E poi finalmente lo vide, una notte, nel riquadro della porta, ne sentì i passi mentre si avvicinava. Rimase lì, in piedi vicino a lei, per un tempo interminabile, con gli occhi pieni di lacrime, senza parlare, solo stringendole la mano con le sue, così belle e affusolate, come quelle di un pianista.
Poi le chiese perdono, le confessò di aver sbagliato ad andarsene, a lasciarla sola per realizzare il proprio destino, per vivere pienamente la propria vita. Ora la rassicurava: non l’avrebbe lasciata mai più, avrebbero ricominciato a vivere la vita dal punto in cui si era interrotta. Si chinò su di lei e la baciò sulle labbra. Non le aveva dimenticate, morbide e profumate come quelle di un bambino. Era arrivato il momento di svegliarsi.
*******L’infermiera di turno riaprì gli occhi di scatto. Come era potuto succedere che si addormentasse? Che stupida, avrebbe rischiato di perdere il posto, se qualcuno se ne fosse accorto. Un’occhiata ai macchinari, poi il grido: ‐ Dottore, corra qui subito, per favore! ...la paziente n. 24. L’ elettrocardiogramma… è piatto.‐