Sulle vette più alte (Centenario della Grande Guerra)

Se ne andarono sulle vette più alte, inebriati di luce, quei giovani ragazzi in divise grigioverdi perduti oltre le alture, ghermiti dal gelo, nascosti agli occhi del mondo di oggi.
Dei loro passi, delle loro impronte sulla neve, delle loro lacrime come cristalli di quarzo, non è rimasta che un’eco, una spolverata oltre il cielo azzurro.
Se ne andarono coperti da pastrani umidi e fradici, pesanti di pioggia e sudore, macchiati dal sangue rosso come fiore sbocciato sul candore.
Il fatto che si parli di un periodo così lontano nel tempo e nello spazio vissuto, ci spinge a dimenticare che quei ragazzi, immortalati per sempre in fotografie sgranate e ingiallite, con zone d’ombra fonde e cupe, erano ventenni come lo possono essere quelli di oggi, ragazzi, leggeri e fragili come vetro, pieni di sogni, di ardori, ma anche impulsivi e spericolati, come  sono tutti i ragazzi a quell’età, di ogni epoca, di ogni strada, di ogni colore.
Vederli impettiti in divise di due taglie più grandi, con la brillantina sui capelli e la scriminatura a lato, seri e posati, già così adulti nella postura accanto alla poltrona o davanti alla caserma, dai nomi di battesimo ormai in disuso, ce li rende più anziani di quello che non fossero realmente e tendiamo a non ricordare i loro pochi anni di respiro su questa terra.
Quello sparo a Sarajevo il 28 giugno del 1914 saettò come una spada tagliente sull’ombra di tante e tante inconsapevoli anime, che da quel momento ebbero i giorni segnati. Per loro, 15 milioni, cominciò il conto alla rovescia che li avrebbe cancellati per sempre come una pagina mai scritta.
La maggior parte di essi, quella mattina del 28 giugno, erano nei campi sui pendii intorno alla contrada del paese, impegnati nella fienagione, oppure stavano lavorando in qualche cascina sperduta nell’afa della pianura, altri rincorrevano il giorno sui pescherecci di ritorno al porto dopo la notte trascorsa in mare aperto. Il cielo era azzurro, sempre lo stesso di ogni giorno, l’aria leggera, polverosa di fieno e di vento, il vociare dei compaesani cullava il ritmico muoversi delle braccia forti di gioventù. Neanche sapevano che esistesse la parola “Sarajevo”. Tutto era lontano, indescrivibile, un altro mondo. 
Avranno alzato lo sguardo? Avranno percepito il cambio del vento? La bufera in arrivo? L’addensarsi delle nubi scure sul profilo dei monti oltre i filari delle viti? Avrà  mai immaginato il giovane alpino che sarebbe morto di lì a due anni, in una limpida giornata d’agosto a nord di Caporetto, a 20 anni, fragile puntino abbarbicato al costone a strapiombo sul fondovalle? O il piccolo fante che avrebbe seguito i compagni oltre la trincea e anche lui a 20 anni sarebbe caduto un anno dopo, gettato sopra una croce lungo la vallata dell’Isonzo? O il bel tenente, che non aveva mai visto un ghiacciaio, sepolto sotto una delle tante valanghe a tremila metri di quota, scomparso per sempre agli occhi del mondo? O il veterano di campagna che scriveva a casa lettere dolci di speranza, pensando ai fratellini più piccoli che non avrebbe  più potuto salutare e anche lui avrebbe cessato di vivere quattro anni dopo, nella Guerra Bianca dell’Adamello, vicino al cielo, ucciso dal gelo?
Avrebbero mai immaginato che sarebbero tutti Caduti al Fronte, difendendo o attaccando rocce impervie e ostili, silenziose e mutevoli come il fuoco?