Il principe buono (fiaba dl terzo millennio)

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Era nato quando ormai la regina Speranza non ci credeva più e, a dispetto del suo nome, aveva perso tutte le sue speranze.
Nella sala parto il trambusto si era fatto incontrollabile: il piccolo voleva venire al mondo e non aveva nessuna intenzione di aspettare oltre. Le tre infermiere addette all’assistenza, Tempestività, Precisione e Professionalità non erano riuscite a preparare l’acqua di colonia calda e i panni di lino profumato, non era pronta nemmeno la culla di rose col velo di raggi di sole e temevano le ire del re, che avrebbe voluto per il suo secondogenito tutti gli onori del caso.
Indifferente alle bazzecole del mondo esterno, il principino sguazzava nel liquido amniotico agitando le gambe e le braccia sempre più freneticamente. Ma che aspettavano a farlo uscire allo scoperto? C’erano talmente tante cose da fare, che a stento era riuscito ad annotare tutto nella sua agenda azzurra degli appuntamenti: anzitutto avrebbe dovuto rimettere un po’ d’ordine nel castello e assegnare a ciascuno il suo compito, badando che ogni pedina si muovesse sulla scacchiera rispettando le regole del gioco. Ogni mossa al momento opportuno e nella direzione giusta. Non ci sarebbe stato nessun rischio di scacco matto dal momento in cui lui avesse preso le redini  nella scuderia.
Ma non sarebbe stato un compito facile, lo sapeva fin troppo bene.
Mentre pensava a tutto questo, la grande porta dorata si spalancò e la luce al neon gli ferì allegramente gli occhi: la sfida era iniziata. 2La prima fase fu caratterizzata da uno studio attento dell’ambiente e dei componenti del gruppo reale: la regina madre, sempre indaffarata, presa dalle sue frenetiche attività culinarie, poetiche, didattiche, con manie di persecuzione da parte di un tale che chiamava Fato e che nessuno sapeva chi fosse veramente; il re padre, affetto da una strana malattia genetica che lo teneva avvinghiato con lunghe e ritorte radici al pavimento del castello, sempre silenzioso e fermamente convinto che la soluzione di ogni enigma fosse nascosta in un sudoku; il principe primogenito, fratello, appassionato di cavalli, sempre alla ricerca disperata di monete d’oro da spendere per i suoi tornei, perennemente fuori dalle mura del palazzo reale, pericolosamente attratto da damigelle  e masnadieri di ogni sorta.
Ma qual era il suo posto e il suo ruolo in questo casino (pardon) castello?
Mentre meditava sul da farsi, crogiolandosi un po’ nel lino morbido della culla, e piegandosi l’orecchio destro a libretto, dalla grande finestra che dava sul parco reale, alla velocità di un fulmine, entrò nella stanza Ti‐aiuto‐io.
Alto sì e no quattro dita (orizzontali, naturalmente!), con grandi occhi azzurri e ricci capelli del colore delle carote, un sorriso che scioglieva il cuore, saltò sul cuscino del principe Buono e gli sussurrò all’orecchio:
‐ Fidati di me. Insieme ce la faremo. Ne vedrai delle belle.‐
Meditando tra sé e sé sul concetto di bello, Buono si addormentò di strapiombo. 3Si svegliò la mattina dopo e si accorse, con un bel po’ di meraviglia, che aveva già diciassette anni.
Immediatamente pretese anche lui un destriero personale e lo chiamò Aprilia. Per evitare fastidi con le guardie reali, si procurò un foglio rosa e l’assicurazione, corrompendo gli addetti alla sicurezza  che richiedevano un esame regolare. Ai quiz avrebbe pensato poi: adesso aveva fretta di rimettere a posto un po’ di cose nel casino (pardon), castello di famiglia.
La sua grande missione sarebbe stata scovare e uccidere Fato – che in verità non aveva capito nemmeno chi fosse ‐ poi sarebbe stata la volta dello sradicamento del re padre dal pavimento e infine la rimessa a punto del principe primogenito suo fratello . Ma qualcosa gli diceva che sarebbe bastato vincere il primo duello e il resto sarebbe venuto da sé.
Si armò di tutto punto: una corazza di acciaio splendente su cui era inciso uno stemma a strisce verticali bianche e nere, con la scritta Juve; un elmo, anch’esso di acciaio sfavillante, su cui si leggeva, a lettere cubitali, Olimpia, e una  spada  affilata e  lucente, ma senza  punta  – gli sarebbe servita per spaventare il nemico, ma senza colpo ferire.‐
Uscì dalle mura del castello in piena notte, in groppa al fedele Aprilia, avviandosi un poco timoroso su un sentiero mai percorso, ma che Ti‐aiuto‐io, appollaiato sulla sua spalla destra, gli aveva additato.
Dopo alcune miglia, percorse sempre nel buio più totale, scorse un lumicino ai margini di una foresta e vi si diresse, a passo di trotto.
Giunto nelle vicinanze, si rese conto che la foresta era un labirinto intricato e gigantesco. Si fermò a riflettere con la fronte aggrottata e un orecchio piegato a libretto: voleva addentrarvisi, ma  lo frenava una fastidiosa sensazione di paura. E se non fosse stato capace di uscirne? si chiedeva perplesso, mentre Ti‐aiuto‐io lo incitava ad entrare, senza tante esitazioni. Prese il coraggio a due ‐ anzi a quattro‐ mani, spronò Aprilia e si gettò all’interno, ad occhi chiusi.
Quando trovò la forza di riaprirli, scorse decine di piccoli elfi verdi, che facevano capolino dalle siepi e, a turno, sussurravano ciascuno una parola, apparentemente senza senso. Allora Ti‐aiuto‐io gli consigliò di ascoltarle tutte con attenzione, senza farsi distrarre dal fruscio delle foglie e soprattutto senza prestare attenzione ai salti degli elfi. Buono accettò il consiglio e immediatamente le parole acquistarono senso e divennero un discorso chiaro e limpido. Al termine, un campanellino dal suono argentino gli fece riaprire gli occhi e ogni cosa fu chiara: finalmente sapeva dove trovare il terribile Fato e con quali armi combatterlo.
Scese dal cavallo e cominciò a raccogliere le pietruzze colorate che passeggiavano nel sentiero: ne prese sette: Poi colse sette foglie di asfodelo e sette bacche rosse: mancavano solo tre stelle e il numero sarebbe stato perfetto. Allungò il braccio e le prese delicatamente dalla via lattea.
Con il bottino nel marsupio, che teneva ben stretto alla vita, risalì sul veloce destriero e cominciò a cavalcare senza esitazioni lungo gli intricati sentieri, e più correva più gli angoli delle siepi si smussavano, le curve si addolcivano, i viottoli diventavano larghe strade a doppia corsia e in men che non si dica si ritrovò al casello autostradale.
Dalla cabina a forma di mezza noce, l’unicorno bigliettaio gli offrì, come pedaggio, un cesto di fichi profumati e nitrì qualche informazione utile sul percorso da seguire.
Senza perdere tempo, Buono si avviò, ‐ sgommando leggermente per impressionare il pubblico ‐ sulla strada tutta tornanti che portava alla rocca, dove sapeva che avrebbe trovato ad attenderlo… Fato (aveva ricevuto una soffiata dagli elfi traditori tramite undici pizzini nascosti nelle forme di formaggio).
Per sconfiggerlo avrebbe usato una dopo l’altra le armi nascoste nel marsupio, dove teneva anche i documenti.
Vestito di nero, incappucciato e instivalato, le mani nascoste dentro spessi guanti di pelle di tricheco, Fato se ne stava, a gambe divaricate, davanti alla grande porta della rocca, armato fino ai denti (che non si vedevano, perché aveva il cappuccio), e pronto a fare a fettine il suo avversario.
Quando si trovò a distanza di sicurezza, Buono scese da Aprilia, che affidò al paziente Ti‐aiuto‐io, e si avviò ‐ tremando dentro ma all’esterno senza paura ‐ verso il nemico.
Quando il mostruoso personaggio lo riconobbe, dopo aver sospirato con santa pazienza: ‐Cosa vuoi da me?‐ gli urlò contro con tutto il fiato che aveva nei polmoni – Chi ti conosce e soprattutto chi conosce tua madre? Hai provato a farti spiegare da lei cosa le ho fatto e quando? Scommetto che non saprebbe cosa dirti.‐
A quelle urla, il principe Buono provò un senso di disorientamento mentre molte delle sue certezze si scioglievano come neve al sole, anzi, si scioglievano tutte insieme, come si stava sciogliendo, davanti ai suoi occhi meravigliati, lo spaventoso Fato. Se li stropicciò, per vedere meglio e quando li riaprì si trovò dinanzi ai piedi un mucchietto di stracci neri impolverati, un paio di guanti neri di pelle di tricheco e due stivaloni, neri pure quelli e per giunta con la suola bucata: niente altro.
Finalmente aveva capito ogni cosa. Tornò correndo verso Aprilia e senza spiegare nulla a Ti‐aiuto‐io (che d’altra parte sapeva già tutto), corse al galoppo verso il castello. 4La regina madre, che aveva consumato un’ intera ricarica Tim per rintracciarlo, appena lo vide lo abbracciò stretto e per poco non lo soffocò di baci. Poi cominciò a chiedergli dove era stato e con chi e perché; allora Buono, approfittando del fatto che la sua bocca non si chiudeva mai, vi gettò dentro, in un colpo solo, le sette pietruzze colorate, le sette foglie di asfodelo, le sette bacche e le tre stelle; infine gliela chiuse con la mano destra, quella che usava per la melodia centrale della sinfonia Ètude 3.
La regina madre spalancò gli occhi come se stesse soffocando, poi ingoiò le sette pietruzze colorate, le sette foglie di asfodelo, le sette bacche rosse e una sola delle tre stelle, perché le altre due, attraverso i canali lacrimali, andarono a sistemarsi nel cervello e cominciarono a fare pulizia. Con la loro luce sfrattarono per sempre l’immagine spaventosa di Fato  e insieme ad essa tutti gli altri pensieri inutili con cui la poveretta aveva perso il proprio tempo prezioso per tanti anni. Ma soprattutto rimisero in moto una rotellina, apparentemente insignificante, che si era bloccata chissà quando, e invece di far muovere in avanti la pellicola, l’aveva fermata sul tasto di stand bay, rischiando di bruciarla.
Fu a quel punto che il meccanismo tornò a funzionare alla perfezione: la regina trovò da sola la soluzione per ogni problema del suo casino (pardon), castello: avrebbe potato ogni autunno un po’ più a fondo le radici che legavano il re al pavimento e gli avrebbe innaffiato abbondantemente le spalle, per farvi spuntare un paio di ali – anche piccoline, purché lo alzassero in volo‐ L’operazione richiedeva pazienza e tempo: l’avrebbe completata quando sia lei che il re fossero andati in pensione e mancavano meno di trenta mesi. Quanto al sudoku, pazienza! Non si può avere tutto dalla vita!
Al principe primogenito avrebbe fatto dono di un piccolo maniero personale, arroccato su una ripa, a distanza di sicurezza dal castello di famiglia, dove il giovane scavezzacollo potesse conquistare la sua indipendenza e finalmente crescere, lontano dai forzieri paterni, pagando le bollette con le monete d’oro che riusciva a guadagnarsi con i suoi tornei notturni. Col tempo avrebbe imparato anche a scegliere meglio dame e cavalieri con cui organizzare feste e banchetti.
Quando le stelle ebbero completato la loro opera di ripulitura, vollero riservare un ultimo raggio splendente per il cuore della regina
Ad un tratto le sembrò di essere tornata giovane (o quasi), decise di sorridere di più, di preoccuparsi meno di tutto e soprattutto di sentirsi molto fortunata per tutto quello che aveva, soprattutto si sentì molto orgogliosa di aver messo al mondo, alla venerabile età di quattro lustri più due anni, il piccolo principe secondogenito. Rimaneva a disturbarle un poco il colore delle tende del salone delle feste, che non era verde azzurro come avrebbe desiderato. Ma fortunatamente ebbe un’ultima illuminazione (alle due stelline rimaneva giusto una scintilla finale da utilizzare): si rese conto, insomma, che nessuna delle sue scelte era stata colpa di Fato, nemmeno il colore delle tende, anzi si ricordò, con un ultimo lampo (di genio) che al momento di scegliere aveva preferito il colore di quelle vecchie.
E si sentì molto stupida, per la prima volta in vita sua. Ma si sa: ogni cosa richiede  il suo tempo.
Buono provò una immensa felicità: la missione era compiuta e il merito era tutto suo. Il vero problema, ora, sarebbe stato tenere alto il nome della casata e toccava a lui, tanto per cambiare.
Mentre si crogiolava in questa riflessione gratificante, come un fulmine a ciel sereno gli trafisse la mente un pensiero molto meno esaltante: stavano per finire le vacanze pasquali e sul grande tavolo di noce, accanto al camino, giacevano addormentati, sotto una pesante coltre di polvere, tre spaventosi manuali scolastici, che il mago Merlino continuava a riempire di formule matematiche, di date storiche e di teorie scientifiche e filosofiche: i titoli erano  in latino, francese e inglese.
La sua prossima missione (che gli toccava compiere da solo, perché Ti‐aiuto‐io si era preso un periodo di ferie pagate dalla casa reale) sarebbe stata quella di affrontarli, dopo averli svegliati con dolcezza, e sapeva perfettamente che gli conveniva trovare con essi un accordo pacifico, senza scontri cruenti: l’eroismo, in fondo, è soltanto un’opinione e ognuno può sentirsi un eroe… a modo suo.