Un uomo di mare

*“La nave è entrata in porto con la leggerezza del gabbiano. Sfiorava appena l’acqua…pareva scaturita dal mare all’improvviso…Noi l’attendevamo. Stavamo ammassati lungo le battagliole dei bastimenti da guerra, gli equipaggi erano schierati in parata. Sapevamo di salutare, su quel ponte chiaro che avanzava, un manipolo di prodi.”*Queste parole le sto leggendo su di una vecchia pagina di giornale conservata in casa mia come un prezioso cimelio. Il giornalista parla dell’ “Epica avventura d’una silurante italiana”. Non sono citati nomi di persone, non viene definita la nave, non si nomina il porto di approdo dove *“tutti si scoprirono e salutarono il piccolo naviglio reso quasi trasparente dal pallido sole di novembre ma annerito dal fumo della battaglia.”*E’ tempo di guerra e la stampa osserva la consegna del silenzio su tutte le notizie relative alle azioni belliche.
Ma io so che nave era, che porto era, e chi c’era su quella imbarcazione. C’era mio padre, giovane ufficiale, imbarcato sul cacciatorpediniere “Grecale”e sopravvissuto ancora una volta a una delle tante battaglie con cui venne decimata la nostra Marina. Il porto era quello di Taranto.
E’ il mese di novembre del 1941. La nave giunge trainata, dopo essere rimasta alla deriva per sei giorni e sei notti, senza più timone e con i motori in avaria,in balia delle onde che potevano consegnarla in mani nemiche o farla approdare su coste nemiche. I feriti sono distesi sui tavoli da pranzo per essere accuditi dal medico di bordo e dall’infermiere. I morti sono allineati sul ponte.
I superstiti portano con sé il ricordo di un inferno di fuoco, di sangue, di esplosioni, di lavoro frenetico e forsennato per tentare di recuperare le macchine in una bolgia di fumo e di vapori, frastornati dai colpi di cannone, in una tempesta di granate e di schegge. Poi…hanno ancora nel cuore quelle notti silenziose di paura, in preda alle ignote correnti marine, in attesa della sorte, mentre sentivano lo sciacquio dell’acqua mista a sangue scorrere sull’assito del ponte.  Nella scheda personale del tenente Oreste Ricotti,in data 15 aprile 1942,si legge: “Decorato con la Croce di Guerra al Valor Militare” e nella motivazione: “Imbarcato su C.T. durante uno scontro notturno con Unità nemiche, si prodigava con sereno coraggio e perizia professionale, sotto il violento fuoco avversario, nel ripristino dell’efficienza dell’apparato motore, gravemente compromesso, dimostrando elevate doti tecniche e militari.”
Nato ad Ancona, se ne era allontanato presto, dopo il diploma, per seguire le vie del mare. Aveva da poco conosciuto la sua “madrina di guerra”che nel settembre del ‘42 diventò sua moglie: la sposò a Rimini, dove stabilì la sua residenza per il resto della vita. In realtà a Rimini visse ben poco, perché la sua esistenza si svolse quasi tutta in mare. Noi due “bambine” ci ricordiamo le sue brevi licenze come periodi speciali, giorni di festa, in cui tutta la casa si animava per preparargli un’adeguata accoglienza. Quando arrivava, ci colmava di affetto e di tenerezza, ci portava ogni volta regali e ci raccontava tante cose: di terre lontane, di gente diversa, di mondi che ci apparivano, allora, quasi favolosi. Ad ogni suo ritorno la casa si riempiva di oggetti esotici e di fotografie, che lo ritraevano sulla nave insieme al suo equipaggio oppure in località straniere, tra rovine archeologiche o monumenti  affascinanti. Ormai, in questa nostra epoca, tutti viaggiano e conoscono il mondo, ma in quegli anni  parlare di coste dell’Asia e dell’ Africa era una cosa rara e stimolava la nostra fantasia: quando veniva papà, ci veniva il mondo in casa.
Però… quante feste di Natale passate senza di lui, quante circostanze della nostra vita senza la sua presenza, quanti momenti belli o difficili sono stati vissuti con lui solo attraverso il carteggio intenso di quelle lettere che correvano incessantemente tra noi e i porti più vari e lontani. Le vedevamo subito quelle lettere quando arrivavano, con la loro carta grigia e sottile, i bordi a strisce colorate dell’ “Air Mail”.
La mamma ci comunicava continuamente le notizie che apprendeva dalle lettere e dalle telefonate “via radio” che lui riusciva a fare quando, con la nave, passava sul meridiano giusto.Noi eravamo abituate a scrivergli e a  raccontargli la nostra vita quotidiana e tutti i più piccoli avvenimenti, proprio come se svolgessimo un colloquio continuo fra le pareti domestiche.
Solo pochi giorni fa ne ho rilette alcune, di quelle lettere, custodite in un cassetto, ed è stato come ripassare le nostre età trascorse, ritrovare un filo che ha ricucito i momenti della nostra esistenza come nella trama di un libro o di un film. Questo colloquio epistolare è il romanzo della nostra vita.
Così ho ritrovato le scarpette rosse che mia sorella Patrizia ricevette in dono a otto anni e dalle quali non volle separarsi per due giorni e per due notti,e poi i nostri compleanni,i risultati scolastici,i giochi abituali,i capricci della sorellina,le sue cadute dal seggiolone,le mie ore trascorse sui libri, i “marconigramma” per augurare a papà Buon Anno, i problemi quotidiani della mamma,il succedersi dei giorni e dei mesi in cui tutte e tre gli chiedevamo quando sarebbe tornato a casa.
E i suoi racconti: di quei giorni di tempesta in cui ogni cosa sulla nave, oggetti,
stoviglie, cibo, tutto sfuggiva e rotolava sul pavimento; di quegli incendi che saltuariamente si verificavano nella sala macchine esponendo tutto l’equipaggio a frequenti pericoli; delle località visitate abitualmente nelle sue soste con le curiosità, il folklore, le caratteristiche storiche o artistiche che non erano ancora alla portata del grande turismo moderno; dei personaggi di cui faceva conoscenza: le navi non facevano crociere ma servizio di linea ed erano ancora pochi i viaggiatori che sceglievano gli aerei. Tra quelli che preferivano la nave spesso c’erano personalità note che, ai pasti, venivano invitate al tavolo degli ufficiali.
Poi l’attesa di giungere al porto successivo, dove avrebbe trovato le nuove lettere delle sue “ tre donne”.
Agli occhi della nostra mente si aprivano orizzonti sconfinati di mare nelle giornate serene, di brezze salmastre, di luce riflessa sull’acqua e di cieli profondi solcati da nubi veloci; sentivamo il grido dei gabbiani che seguivano la scia spumosa del piroscafo, a volte accompagnata dai delfini, e sapevamo che i marinai controllavano il volo degli uccelli migratori, abituati a posarsi sui pennoni delle imbarcazioni per riposarsi durante i lunghi trasferimenti. Conoscevamo i porti affollati da gente di ogni razza e di ogni lingua, chiassosi luoghi di traffico marittimo e incrocio di civiltà; il colore delle coste asiatiche o africane, delle città dai nomi esotici…ma conoscevamo anche il buio delle notti tempestose, e poi la solitudine, il caldo, il freddo, il frastuono assordante delle macchine sottocoperta, il fischiare del vento sul ponte nei giorni di burrasca, quando le onde schiaffeggiavano le fiancate o s’infrangevano contro la prua…e quelle strane scaramanzie tipiche della gente di mare o di chi è abituato a vivere affidato  agli umori imprevedibili della natura, come l’avversione per la canzone “Arrivederci Roma”, suonata dall’orchestra di bordo della nave “Andrea Doria” al momento del suo naufragio. E così passavano gli anni, le figlie crescevano, avevano nuovi interessi, nuove esigenze: lui seguiva tutto per lettera o nei brevi periodi licenza che trascorreva con noi. Sapevamo che in gioventù aveva percorso le rotte dell’estremo Oriente e aveva toccate le coste più meridionali dell’Africa (raccontava sempre delle feste che si facevano a bordo ad ogni passaggio dell’Equatore). Però nell’età più avanzata aveva scelto le più brevi rotte del Mediterraneo,così poteva tornare spesso in patria e noi potevamo andare a trovarlo in porto: a Venezia, a Trieste, in qualche caso a Genova. Questi viaggi erano per noi occasione di grande gioia per l’opportunità di incontrare papà,ma anche per la nostra personale “avventura” di andare in porto,salire sulla nave e curiosare in quell’ambiente così diverso che era la sua “casa” abituale.
Tutto è lì, in quelle lettere ingiallite, dove riscopro lunghi tratti della nostra vita famigliare e scopro soprattutto, più di quanto lo conoscessi allora, il carattere affettuoso di un padre che ci è vissuto lontano ma che sapeva ugualmente esserci vicino e ha sempre saputo farsi amare.