Buon Natale anche a te

Quando Fausto aprì la finestra era già mattina inoltrata e un tepido sole si affacciava in cielo. Meglio così, pensò. Un Natale col sole era quello che ci voleva per lui. Niente strane indesiderate malinconie, nostalgie, quadretti di quartieri innevati con alberelli stracarichi di luci, ninnoli, e via dicendo. Da tempo il Natale non aveva alcun fascino su di lui, da quando era morta sua moglie, sì, più o meno da allora, ma già da prima lui aveva cominciato a covare una certa indifferenza verso le feste, tutte le feste, una indifferenza che era diventata insofferenza, ma che nascondeva molto bene per non deludere lei. Adesso ormai non aveva più bisogno di fingere, lei non c’era più. Fausto chiuse la finestra e andò in cucina a fare il caffè. Come al solito lo berrò da solo, pensò, tanto lui non ci sarà, ma provò lo stesso a chiamare suo figlio: il caffè è pronto. Gli rispose un silenzio di assenza. Non è rientrato, pensò Fausto. Non andò a guardare in camera del figlio, non lo faceva mai, anche perché spesso capitava che lui fosse in compagnia di una donna, sempre una diversa, naturalmente, e Fausto non voleva sentirsi in imbarazzo. Le situazioni imbarazzanti l’avevano sempre messo molto a disagio e così aveva imparato ad evitarle. Si sedette al tavolo di formica della cucina e pensò, mentre sorbiva il caffè, che niente era più freddo della formica, distante, malinconico. Potrei metterci sopra una tovaglia, anzi, un bel tappeto spesso, di quelli che si usano anche quando si gioca a carte, magari allegro, colorato, ma poi perché? Cosa me ne importa? Così il tavolo si pulisce in fretta, due passate di straccio e via. Sul tappeto, se poi rovescio qualcosa, devo lavare, poi magari le macchie non se ne vanno. Viva la formica. Stabilito che il tavolo sarebbe rimasto così, nudo e freddo, si alzò e lavò bicchiere e cucchiaino. Guardò l’orologio a muro, erano le 11. Non era abituato a dormire al mattino, il suo lavoro gli piaceva, mai un’assenza, mai un ritardo, era soddisfatto di sé, però oggi era il 24 dicembre, la vigilia di Natale, e lui si sentiva inquieto, non sapeva cosa fare, nessun lavoro a salvarlo dai suoi fantasmi, dall’insoddisfazione, dai pensieri che lo tormentavano. E il suo tormento era il figlio. Un figlio di 27 anni che non si era nemmeno diplomato, mentre lui avrebbe desiderato un figlio con una bella laurea, magari di quelle importanti che danno tanto lustro: medico, avvocato, e forse addirittura magistrato. E invece eccolo lì, questo figlio! Non studiava, non lavorava, non parlava col padre. Però era molto bene educato, mai una rispostaccia, mai una litigata, quando il padre gli proponeva delle occasioni di lavoro, lui opponeva un semplice e pacato “non sono interessato”, così pacato, così indifferente che Fausto si sentiva esplodere, ma poi non diceva niente. Certo le madri sono diverse, le madri sono ostinate, assillanti, non si arrendono, scavano e osservano, affrontano i figli. Eh, quando c’era lei era tutto diverso, lui non era mai riuscito ad entrare in contatto col figlio e col tempo si era rassegnato. In fondo il suo stipendio bastava per tutti e due, e magari le cose prima o poi sarebbero cambiate. Decise di uscire, l’aria di casa era opprimente e la giornata sarebbe stata lunga. Camminò tutto il giorno, ma non lungo i marciapiedi intasati da gente in cerca degli ultimi regali, delle ultime compere per il cenone e poi il pranzo del 25 e poi, già, bisognava pensare anche a S.Stefano, insomma una corsa pazza e sconsiderata agli acquisti di ogni genere. No, lui camminò a lungo nei giardini pubblici, si sedette su panchine silenziose e si perse a guardare il mondo che più amava, quello che gli presentava la natura nella sua meravigliosa semplicità. Tornò a casa tardi, quando si era fatto buio già da un bel po’. Sulla porta, entrando, quasi si scontrò col figlio che stava uscendo il compagnia di una ragazza. Fausto restò allibito: tacchi altissimi, calze a rete, minigonna vertiginosa, un nero attorno agli occhi così pesante che sembrava fosse stata truccata da un pugile. In testa una foresta che sudava gel. Santo cielo, pensò Fausto, questa le batte tutte.
‐Papà, lei è Shelley.
‐Piacere
‐Ciao‐ e Shelley scese per le scale di corsa.
Entrato in casa Fausto riuscì soltanto a sospirare e a pensare, ma solo per un attimo, che quella era la notte di Natale. Guardò fuggevolmente la fotografia della moglie sul comò, e se ne andò a dormire. Quella notte sognò la grande chiesa della sua infanzia, tanta gente, tanto aroma d’incenso, e sua moglie che gli sorrideva dal soffitto: sposami Fausto, sposami! Ma come faccio a sposarti, io sono un bambino, non posso sposarti! Sposami Fausto, sposami! Fausto si svegliò di soprassalto e accese subito la luce. Ogni cosa era al suo posto, il silenzio era il solito, solo il tendone che nascondeva la finestra si muoveva leggermente, come capita sempre dove c’è un calorifero acceso. Prima ancora di guardare l’orologio, avvertì un profumo che inondò la camera da letto. Ma sto ancora sognando? No, quello era profumo di caffè, caffè vero. Fausto si mise addosso qualche indumento e uscì dalla stanza con prudenza e circospezione, sapeva che probabilmente avrebbe incontrato suo figlio o qualche amica. Non ricordava che qualcuno degli amici del figlio avesse mai fatto il caffè, tanto meno lui, lui sarebbe uscito e l’avrebbe bevuto al bar. Si fermò sulla soglia della cucina: no, non era suo figlio, era una ragazza, che in quel momento gli voltava le spalle. Di lei Fausto poteva vedere una lunga innocente coda di cavallo, una maglietta rosa e un paio di pantaloni neri alla caviglia. Calzava scarpette basse tipo cenerentole.
Lui accennò un lieve colpo di tosse. Buongiorno. Lei si voltò, e, con un gran sorriso lo salutò: Oh, buongiorno. Bevi un po’ di caffè?
Fausto arrossì violentemente di fronte a quel “tu” così disinvolto, ma si fece coraggio.
‐Sì grazie, mi fa molto piacere, ma tu chi sei?
‐Ma sono Shelley, non mi riconosci?
Fausto guardava Shelley e non la riconosceva. Davanti a lui c’era una ragazza con la faccia priva di trucco, il sorriso gradevole, gentile. Sembrava giovanissima.
‐Ah!
Shelley rise divertita. Tutto quello che sai dire è “ah”? Ciao, mi presento, mi chiamo Irma.
‐Ah!
‐Sì, Shelley è per la sera, quando andiamo in giro.Vieni, bevi il caffè, chissà che ti venga in mente qualche parola che non sia “ah”.
Fausto si avvicinò al tavolo per bere il caffè e intanto rifletteva che questa ragazza era davvero troppo giovane, non era che il figlio se la faceva con una minorenne. Gli venne un brivido al solo pensiero.
‐Bene, ciao Irma, quanti anni hai?
‐Finalmente una frase intera. Ho 25 anni, sì lo so che ne dimostro di meno, però sono 25.‐Senti Fausto, ti chiami Fausto, vero? Ho visto che nel frigorifero c’è un po’ di roba. Potrei preparare qualcosa da mangiare per mezzogiorno, tanto oggi rimango qui.
‐Fai pure, non mi disturba, ma ricordati che qui non c’è niente da festeggiare, il Natale non mi interessa.
‐Non preoccuparti, si tratta solo di mangiare qualcosa.
Irma rise di nuovo e Fausto capì che niente avrebbe potuto smuovere il buon umore della ragazza. La guardava mentre lei si muoveva veloce in cucina, leggera e canticchiando. Pensò che era simpatica, ma chissà se era una nullafacente come suo figlio! Ricordava i vecchi proverbi: chi si assomiglia si piglia. La studiò un po’ in silenzio, e poi non ce la fece più.
‐Cosa fai tu? Studi? Lavori?
‐Lavoro, faccio la traduttrice per una azienda, e poi altri lavoretti che mi capitano, sempre concernenti le traduzioni. Non avevo molta voglia di studiare ma me la sono cavata e sono indipendente. Allora faccio io? Decido io per il pranzo?
‐Ma sì certamente, se proprio ne hai così voglia, fai pure tu. Io vado in camera mia a mettere in ordine, a più tardi.
Fausto si chiuse in camera e si sedette sul letto. Guardò sua moglie che gli sorrideva dal comò, e le restituì il sorriso. Si sentiva bene, di buon umore. Hai visto? Abbiamo un’ospite, una ragazza, pare che trascorrerà la giornata con noi, e non mi dispiace. E’ strano che non mi dispiaccia, non credi? Se penso a quando l’ho vista ieri sera... se l’avessi incontrata di notte mi sarei spaventato. Beh, sembra che voglia cucinare. Io adesso esco così li lascio più liberi, lei e nostro figlio. Fausto fissò ancora un attimo la fotografia prima di chiudersi la porta alle spalle. Salutò Irma uscendo da casa, e sentì la voce di lei che lo inseguiva:
‐Non preoccuparti, vedrai che pranzetto! Me la cavo, cosa credi!
Fausto pensò che avrebbe dovuto rientrare per l’ora di pranzo, non avrebbe potuto starsene tutto il giorno sulle panchine dei giardini. Comunque si sedette e cercò il suo stato d’animo ideale, come al solito, ma non riusciva a godersi la solitudine. Continuava a pensare a quella ragazza che stava cucinando per lui e suo figlio, così allegra, così diretta. Si rese conto che aveva voglia di tornare a casa. Non mi piace, pensò, non mi piace per niente. Provò a cambiare panchina e poi addirittura si diresse verso un parco che era piuttosto lontano, ma non poteva mentire a se stesso, non aveva nessuna voglia di andarci. Tornò allora verso casa e attraversò il centro del paese. La piazza era affollata, la gente era lì per l’aperitivo, come si usava dalle sue parti. La pasticceria gremita, ed anche il bar di fronte. Qualcuno lo fermò per stringergli la mano e fargli gli auguri. Lui li subì di malavoglia, ma sorrise compiacente. E poi, all’improvviso, un’idea. Non poteva certamente tornare a casa senza portare nulla. Niente di natalizio, si consolò, delle paste, sì un vassoio di paste andava bene, gli sembrava doveroso, almeno per i ragazzi. Sì, era doveroso.
Quando entrò in casa sentì subito il chiacchierio dei ragazzi. Depositò sul tavolo della cucina il pacco con le paste, e rimase impietrito. La tavola era apparecchiata per quattro. Perché per quattro? Deve arrivare qualcuno? Guardò Irma, e lei timidamente rispose che no, aveva apparecchiato anche il posto della mamma. Fausto era furente, ma come ti è venuto in mente!
‐Scusa Fausto, sparecchio subito. Io ero abituata così, non ho pensato di darti un dispiacere. Quando è morto mio padre la mamma ha sempre apparecchiato anche per lui e non ha mai parlato di lui al passato. Lui faceva parte della nostra vita, lei diceva sempre: papà dice che, papà pensa che... Scusami.
Fausto si rese conto di essere stato troppo violento e cercò di rimediare.
‐Non importa, lascia stare così, non mi dà fastidio.
Ma la piazza, gli amici, gli auguri...Fausto era profondamente turbato. La mente gli rimandava immagini di tempi spensierati, di progetti, speranze, di mattine di Natale quando lui prendeva il suo bambino per mano e lo portava fuori per permettere alla moglie di completare tranquilla i suoi preparativi per la festa. Lei ci teneva così tanto! Poi, verso mezzogiorno tornava a casa e lei si faceva trovare pronta, sempre elegante, con quel filo di rossetto che le illuminava il sorriso, con i suoi capelli di seta ben pettinati e profumati di buono, e poi andavano anche loro in piazza a sorseggiare l’aperitivo insieme agli amici, per poi tornare nella loro casa odorosa di vaniglia e arance.
Fausto si rese conto che il Natale gli stava camminando sull’anima con gli scarponi pesanti, e il nodo in gola lo stava soffocando: riuscì solo a mormorare torno subito.
In camera lasciò che tutto il dolore sgorgasse dai suoi occhi, senza cercare di fermarlo. Nascose la faccia nel cuscino per timore di essere sentito. E dopo tornò a tavola. Sorrise al figlio come non era capitato da tempo, sorrise a Irma, sorrise al posto vuoto, era pronto? Non lo sapeva, ma certamente si sentiva accogliente, leggero.
‐Perché Irma non sei con tua madre, oggi?
‐Mia madre ha l’ alzheimer. E’ ricoverata. Vado a trovarla oggi nel pomeriggio. Se non ti dà troppo fastidio Fausto, io un panettone ce l’ho e anche una bottiglia, me li ha dati l’azienda. Potremmo anche fare un brindisi.
Fausto capì che Irma non voleva parlare della madre, non ancora. E accettò il brindisi, accettò “Buon Natale” e lo ricambiò, volentieri, con sentimento.
Tardi, la sera del 25, Fausto stava leggendo un libro quando gli apparve Irma, no, non era Irma, era Shelley.
‐Ragazza mia, mi hai spaventato, stasera sei più terrificante di ieri sera.
‐Ci vediamo, Fausto.
Non disse altro, i ragazzi uscirono e la porta si chiuse dietro di loro. Fausto avvertì tutto il vuoto del silenzio che avevano lasciato dietro di loro e sentì che aveva bisogno di qualcosa, di una speranza, una certezza forse sarebbe stata troppo, ma una speranza sì, poteva anche permettersela. E così andò in camera del figlio: la camera era perfettamente in ordine. Pose lo sguardo su ogni cosa e ad un tratto, bene appoggiati su una sedia, vide la maglietta rosa, i pantaloni neri, e per terra accanto alla seggiola, le scarpette basse.
Richiuse la porta e andò in camera sua, si sedette sul letto come era solito fare e guardò sua moglie. Le sorrise. Hai visto? Shelley ha lasciato qui Irma, credo che tornerà.
Il sorriso di sua moglie era sempre uguale, immutabile, però lui aveva scoperto che se fissava a lungo la fotografia, il viso sembrava animarsi, il sorriso diventare più confidenziale, intimo, e le labbra sembravano muoversi, proprio come quella sera mentre gli sussurravano: Buon Natale.
‐Grazie cara, Buon Natale anche a te.