La storia di Hakan full -La Befana vien dal Nord

Ho sorriso quando ho ottenuto la Fibronormal.
Era così bello fargliela a quello sciocco di Ferit. Final‐ mente, dopo anni e anni di desiderata vendetta avevo fatto centro. Ero riuscito a fregargli l’unica cosa che lo avrebbe davvero fatto diventare un grande nel campo internazionale.
Magari gli avrebbero anche dato il Nobel, perché no?
Mi guardo attorno soddisfatto. Tutto era sempre stato perfetto per Ferit. Aveva avuto voti più belli dei miei, una casa più bella della mia, una posizione migliore della mia e… una famiglia migliore della mia.
In realtà, qualcuno di davvero pignolo avrebbe potuto dire che si trattava di un errore visto quello che io sapevo e che anche lui DOVEVA sapere.
Maledizione, i compagni di classe a cosa servono? Non servono a farti sapere cose tipo: non esiste Babbo Natale, i tuoi genitori mentono? In tutto il mondo si crede a Babbo Natale, ma c’è sempre qualche compagno di classe che deve rovinarti la festa. I compagni sono i primi a criticare la tua famiglia, i tuoi vestiti ecc. I compagni servono a rovi‐ narti l’esistenza raccontandoti ogni dettaglio scabroso della tua famiglia e della tua vita che ignori o fingi di ignorare. Ti prendono in giro e ti maltrattano ma poi fanno le vitti‐ me e dicono che lo fanno per il tuo bene. Chi li potrebbe biasimare con quei lacrimoni che gli escono magicamente dagli occhi? Nessuno. Ebbene… I compagni di classe sono la tua rovina.
Se lo sapevo io lo doveva per forza sapere anche lui a meno che… Possibile che il caro amato Ferit, dispensatore
di bigliettini per tutti durante le verifiche, il calmissimo e perfettissimo che così non era, fosse immune da ciò proprio per questo? Ma doveva pur saperlo, magari gli avran‐ no offerto pacche sulla spalla e conforto ma… Ma di certo ne avranno parlato. Magari sarà stato lui a imporre il silenzio, nei propri confronti, visto che con me era un conti‐ nuo. Che ci fosse lui dietro?
Rompete a lui, non a me.
Maledetto perfezionista! Fai, fai, intanto la famiglia perfetta non l’avrai mai. Sai cosa dice la teoria enneagrammistica: mettono il partner sul piedistallo e TEMONO di far‐ gli scoprire i propri lati negativi, non perfetti. Questo porta a rotture di vario tipo. Spesso è il perfezionista a scappare… Tuttavia… Caro Ferit tu sai che se vuoi sai allontanare le persone… Noi sappiamo cosa è successo, vero? Anche questo può essere un modo di fuggire: le fai allontanare per poi dire che sono loro a scappare quando invece sei tu troppo codardo per farlo e quindi induci gli altri ad agire in questo modo per giustificarti./...)Mi irrita dover consegnare a quel tizio la mia merce. Avrei voluto lavorare da solo, ma non c’è altro modo. Avevamo pensato che andare in Italia, luogo in cui la Fibronormal avrebbe dovuto trovarsi, sarebbe stato un ottimo modo per confondere le acque.
Tutti avrebbero puntato sulla Turchia, quel buffone di Ferit aveva parlato troppo, nell’intervista, ed ora si capiva che sospettava di me.
Per fortuna me n’ero andato abbastanza in fretta da non essere fermato. Sarebbe risultata una partenza natalizia già organizzata. Ehi, c’è una piccola parte di cattolici anche in Turchia.
Quel tipo, però, non mi piace. C’è qualcosa in lui che non mi convince. Deve essere molto più cattivo di me. Deve essere davvero pericoloso. È imponente come una montagna, con dei muscoli enormi. Nah! Non mi piace per niente. Dopo questo lavoro non voglio avere a che fare con lui. Gli venderò la Fibronormal e basta.
La soddisfazione di fregare Ferit è così grande che mi basta. Quello faccia della medicina ciò che vuole. Vuole tenerla come droga? Ok. Vuole rivenderla, buttarla nel WC? Fatti suoi. Io ho fatto tutto questo solo per fregare Ferit. Niente più e niente meno. Ha qualcosa quel tipo, ne sono certo. La sua donna è infelice e lui vuole qualcuno che possa badarle, ma sembra in salute. Perchè si dovrebbe badare a lei? Basta pensare a lui. Mi ammonisco. Domani dovremo incontrarci. Vedremo allora, quando tutto sarà concluso, che tipo è. Vado a letto, ma l’unica cosa che sogno è Ferit che mi fa la linguaccia soddisfatto, dicendomi che mi ha fregato di nuovo.
Ricevo un messaggio che mi desta da quell’incubo.
«Ho un problema dobbiamo rimandare.» Urlo.
«Che significa dobbiamo rimandare?» Cosa ci poteva es‐ sere di più urgente di quel piano? Non volevo rischiare troppo. Potevo comunque essere beccato. Ferit poteva usufruire di haker, tecnici di vario tipo, in‐ vestigatori… Poteva comunque trovarmi. Ogni giorno passato accanto alla Fibronormal era pericoloso.
Do un pugno al tavolo nella mia stanza. Ferit mi aveva appena fatto la linguaccia, nel sogno. Era forse collegato? Aveva anche il potere di entrare nei sogni adesso?
Quanto lo odiavo, mi aveva preso tutto. Il suo fingere di non sapere e lasciar andare le cose aveva fatto diventare me quello che sono. Se almeno lui avesse provato ad essere gentile con me, forse non sarebbe andata così.(...)
Non ho dormito. Non mi sento sicuro, c’è qualcosa che non va.
Bella appare così in fretta proprio dopo che i giornali hanno fatto paragoni tra lei e la ragazza scomparsa con lo scienziato turco, probabilmente proprio qui.
Vorrei scappare altrove per consegnare la Fibronormal, invece Can si fida, vuole stare qui. È convinto che Bella sia affetta da dipendenza emotiva e che lo cerchi sempre e comunque. Forse lo è stata fino ad ora, ma adesso no. È scappata, cavolo, cosa voleva di più? Che lo facesse arrestare?
Quello è uno di quegli uomini che fanno male alle donne, ne sono convinto.
Can è ricco e affascinante, del tipo che piace alle donne anche se non so perché: tutto muscoli e cervello… Nel suo caso sì, anche cervello, ma non così sviluppato come dovrebbe, visto che fa del male alla sua ragazza. Persino dalle foto recenti inviate in TV, si vede che Bella ha un’aria sof‐ ferente coperta da vestiti e trucco accattivanti.
Io conosco le anime ferite e conosco quelle destinate ad estinguersi a meno che non avvenga un miracolo. Siamo ancora in tempo natalizio, i miracoli possono sempre accadere. Una vocina dentro di me sussurra che non immagino quanto sia vero e proprio per me. Ignoro la vocina. Deve essere lo stress. Can mi invia un nuovo messaggio: il luogo dell’incontro è cambiato, vuole che ci vediamo al Residence dove è stato visto Ferit.
Gli dico che è matto, ma alla fine la vince lui. Mi minaccia con violenza verbale che potrebbe tramutarsi in fisica, una volta faccia a faccia.
Chiudo la conversazione epistolare dicendo cose irripetibili alle spalle di quell’uomo.
Bella torna, anticipiamo tutto a stasera col massimo buio per essere meno visibili e poi? Avrà i soldi? Quasi quasi non gli porto nulla e scappo con la medicina. Magari la spedisco a casa di quella ragazza, così Ferit non potrà dire che non sono stato caritatevole. Certo che Hakan è buono.
Mi riprendo da tutti quei pensieri assurdi. Can mi farà la pelle, se non gli consegnerò quella roba. Non voglio neanche sapere che cosa davvero voglia farci, quale sia l’uso malvagio per quella cura. Voglio solo evitare di essere eliminato. Devo andare all’appuntamento.
È tardi. Il buio scende. Mi nascondo tra le scene oscure e mi avviò al Residence.
Can ha scelto la parte estiva. Vado, la porta è aperta.
Strano. L’avrà scassinata lui.
Salgo le scale e vado all’ultima casa, quella del sottotet‐ to. Mi agito mentalmente nel corridoio buio. Tutto è nuovo. Ho una strana sensazione. Cosa mi ricorda il buio?
Mi concentro, ma non faccio in tempo a pensare che qualcuno mi dà una botta in testa. Cado al suolo. Penso solo che sia Can.
Quando riapro gli occhi è ancora buio. Strani rumori si sentono per tutta la casa. Accanto a me c’è qualcuno che mi intima di stare zitto. Riconosco la voce: Can.
«Io non sto zitto. Io non ti dò niente. Perché mi hai col‐ pito?»
Una risatina femminile.
«Non ti ho colpito io.» Dice Can.
«No, non è stato lui.» Dice la voce femminile. «Sono sta‐ ta io.»
«E io ho preso te.» Dice una seconda voce da donna.
«Ma scommetto che tu lo sappia già, Can.»
«Bella, perché lo hai fatto.»
«La violenza sulle donne non piace a nessuno. La mia famiglia è italo turca e sono cresciuta con determinate idee. Anche i miei fratelli sono più occidentali che orientali.» Spiega. «Alla fine mi sono resa conto di tutto. Mi pren‐ di i polsi se litighiamo, vuoi che io lavori dove, come, quando e soprattutto con chi vuoi tu. Non va bene così Can. Sono stata zitta. Non volevo venire con te qui, ma tu mi hai portata mentre dormivo. Ho fatto lo stesso con te. Ricordo quanto ti eri vantato citando come avessi messo il sonnifero nel cibo. Ho imitato il tuo gesto. Stavolta non ero sola. C’era un ragazzo nascosto nelle vicinanze e mi ha aiutata a trasportarti qui.»
«E ora dov’è?» Chiedo io. Un altro uomo farebbe como‐ do. Potrebbe slegare almeno me.
«Chris non è qui.» Dice l’altra voce. «È rinchiuso nell’armadio di un’altra stanza, insieme al tuo amico Ferit. Siamo state noi a decidere così. Ci siamo fatte aiutare per avervi qui e poi li abbiamo messi fuori combattimento.»
Rido. L’idea di Ferit legato e imbavagliato rinchiuso in un armadio da una donna è unica. Quella mi dice di non ridere troppo. Anche io farò una brutta fine se non le consegno subito la Fibronormal.
Buio, Fibronormal… Adesso ho capito: Laura.
Anche Can capisce e mi chiede se quindi in realtà non sia stato io ad inviargli il messaggio con i cambiamenti.
Confermo che non gli ho inviato niente. Lui doveva in‐ viarmi le indicazioni sul luogo e l’ora dell’incontro, non io. Il compratore detta le leggi, non l’altra parte.
Can vorrebbe incominciare una lite riguardo chi abbia cambiato le indicazioni, ma lo zittisco. Gli spiego che sono state loro, le donne.
Laura ride e dice che no, è stato il suo amico e basta.
Era lo stesso che aveva aiutato Bella con Can.
Maledizione, quelle volevano proprio dimostrare che il sesso debole è quello maschile.
Cerco di parlare, ma lei non mi ascolta. Dice che, se vo‐ glio conservare la vita devo rispondere a delle domande.
Io nego e cerco di alzarmi, ma nel buio, da una direzio‐ ne imprecisata, mi arriva un altro colpo.
«Fermo e rispondile.» Dice Bella, fiera.
Mi rendo conto che non riesco a muovermi bene. Chie‐ do se sono legato e quelle ridono. Ridono come se non ci fosse un domani.
Vigliacche! Facile ridere al buio ben nascoste e con il nemico legato. Se mi avessero slegato altro che risate.
Laura impone le sue domande. Solo se risponderò cor‐ rettamente riceverò un aiuto.
Mi chiede se per me è importante programmare tutta la giornata con efficienza, se non si può parlarmi di fallimen‐ to, se è più importante apparire che essere… Cose del ge‐ nere.
Resta stupita. Esclama che secondo Ferit ero un 3, ma a quanto io rispondo non è così.
La sua voce ha una diversa intensità, deve essersi spo‐ stata silenziosamente. Nelle case di questo tipo il pavimen‐ to di legno scricchiola, qui invece no. Non mi è utile per capire la sua posizione.
Come cavolo fa?
Mi pone altre domande e, scioccata, scopre che sono un
8. Piange, la poverina. Piange.
Mi chiede della mia infanzia e io mi arrabbio davvero.
Nessuno può chiedermi di parlarne.
Chiedo aiuto a Can, ma pare che non ne abbia voglia. Per lui la colpa è mia. Ferit ha portato Laura, che ha cono‐ sciuto Bella e gliela ha messa contro. Io sono un incapace che si è fatto seguire. Non accetto. Non può dirmi questo. Non mi conosce. Inizio automaticamente a parlare. È un errore. Sto facendo un favore all’italiana.
«Io ho patito più di quanto immagini. I miei compagni di classe, scopri quanti sono ancora in vita, lo sanno. È anche grazie a loro se sono così e so cosa è successo. Pare che uno di questi avesse scoperto un dettaglio succoso su me e Ferit e avesse deciso di rivelarlo. Come mai ero rimasto so‐ lo? Avevo subito una ingiustizia, sì. Prima ero un bravo bambino che difendeva i deboli, ma presto ero diventato io
quello fragile e nessuno mi voleva difendere. Cosa era suc‐ cesso lo sapevano tutti perché uno aveva sentito parlare gli adulti, di nascosto. Perché i bambini non stavano mai al loro posto? Quella è una bella domanda. Negli anni ’90 non era così facile far pervenire a tutti le informazioni, non c’erano i cellulari di adesso. Eppure, le voci e i bigliettini erano sempre un ottimo mezzo di informazione.
Ferit non era stato mandato a scuola per un po’, io ci ero andato sperando di trovare lui e un po’ di normalità. Non avevo trovato nessuna delle due cose.
Uno dei più bulli della classe si era alzato e ridendo mi aveva indicato. Aveva fatto battute di pessimo gusto su di me, la mia condizione, e la mia famiglia.
Non si può toccare la famiglia alle persone come me: la famiglia e gli amici sono tutto.
Avevo cercato di difendere la mia posizione, ma ecco che tutti si erano lanciati contro di me anche scagliando oggetti e facendo battute per mostrare che sapevano. Eravamo poveri, molto poveri. Mia mamma spesso era malata e non usciva molto. Mio padre lavorava presso una casa di ricchi ed aveva trovato consolazione presso la padrona di quel luogo. Poi lei si era stancata di lui e lo aveva gettato via come una cosa usata. Mio padre era caduto in depressione, ma quel che non sapeva era che la sua copertura era salta‐ ta. Forse per sensi di colpa o per evitare una punizione peggiore, la signora, se così si può chiamare, aveva confes‐ sato al marito di aver dovuto licenziare mio padre. Aveva raccontato che era un ladro e che era stato lui a raggirarla per averla con sé. Il signor Kaya aveva deciso di vendicarsi. Eravamo rimasti solo io e mamma. Lei aveva promesso che si sarebbe risolto tutto. Con le ultime forze era andata alla grande casa chiedendo aiuto almeno per suo figlio, lei non era più in grado di occuparsene e non poteva lasciarlo solo. Era brillante e avrebbe fatto fare bella figura a loro; un figlioccio intelligente avrebbe potuto essere fonte di vanto. Ero a scuola grazie a una specie di borsa di studio ed ero il secondo della classe, dietro al loro figlio Ferit. Aveva spiegato tutto chiaramente. Le suppliche non erano
bastate. Le avevano riso in faccia e le avevano detto di an‐ darsene. Lei aveva resistito. Si era aggrappata ai mobili presenti nella stanza gridando che non potevano essere ricchi e senza cuore. Ero solo un bambino piccolo che non sapeva nulla di quanto avvenuto. Potevano modificare la storia e passare per benefattori. Nessuno avrebbe fatto domande. I due l’avevano insultata. Lei si era indignata e aveva replicato che quella spregevole parola era adatta alla signora Kaya più che a sé. Aveva preso un oggetto di vetro pesante da una mensola e l’aveva scaraventato addosso alla coppia.» Taccio, le lacrime agli occhi. Non riesco a conti‐ nuare.
Laura ammorbidisce la voce e mi chiede cosa sia successo dopo.
Can ride e mi dà della donnicciola. Non sapevo affrontare la verità dopo anni? Vergogna.
No, non era questo. Laura lo capisce.
Bella si indigna e colpisce forte Can in testa con una pentola o qualcosa del genere, visto il rumore. Gli dice di vergognarsi. Lui è un mostro. Ha sfruttato lei, la sua ragaz‐ za, per tempo immemorabile, facendola sentire una nullità. Prima credeva che fosse un problema suo: non lo rendeva felice, sbagliava, ma ora sapeva che non era così. Lui odiava le donne e, dalle risatine sommesse durante il racconto, non aveva pietà nemmeno per quelle morte.
Un dolore al petto mi schiaccia. Le grido di non dire quelle parole. Non voglio legare mia madre a quella situa‐ zione. Per lei non si trattava di una morte comune.
Le ragazze sono intelligenti e hanno capito. Non voglio però che lo dicano ad alta voce.
Laura me lo chiede con gentilezza. Mi chiede se sono stati loro, i Kaya, a farlo. Io annuisco. Al buio non può vedermi, ma comprende. Mi chiede con comprensione se Ferit. ora, sia a conoscenza di tutto. Le dico che per me lo de‐ ve essere. Non può non aver mai parlato coi suoi.
Uno schianto ci interrompe. Qualcuno esce dall’armadio.
Due ombre scure nella casa si separano.
In una delle camere, Ferit accende la luce e si avvicina a me. Grida che mento. I compagni a lui non hanno detto nulla e i giornali non avevano riportato notizie del genere, mai. Lui era stato dai nonni per un po’, ma non era per quello. C’erano dei problemi nel matrimonio dei suoi e lo avevano allontanato.
Io rido amaramente e gli confermo che il problema era‐ vamo noi; io e la mia famiglia. Gli faccio il nome di uno dei compagni e gli dico che quello era pronto a giurare che nel giardino dei Kaya fosse seppellita mia madre.
Ferit si infuria, mi slega ed iniziamo a combattere. Laura riesce a intravedere la valigia in cui c’è la sua cu‐
ra. La afferra, ma Can si riprende e le fa uno sgambetto allungando semplicemente una gamba. La valigetta finisce sul grembo di lui. La ragazza cerca di prenderla, ma con una testata lui la manda a terra.
Strattonando le corde riesce a liberarsi, quel bestione di Can.
Bella urla e scappa. Lui le va dietro gridandole che or‐ mai è finita e la prenderà.
Bella corre ed arriva alla sala da pranzo. Lì c’è un bal‐ cone. Apre la porta finestra, ma prima che la possa chiudere, Can la raggiunge.
Il balcone è stretto. I due lottano e Bella è fortunata a salvarsi ogni volta. Ad un tratto però sente che Can la prende e la spinge verso il basso dicendole di chiedergli scusa. Se non lo avesse fatto la avrebbe buttata di sotto, era ovvio, ma lei non voleva scusarsi per qualcosa che non ave‐ va fatto. Si era difesa e basta. Lui la butta giù oltre la ringhiera di legno lavorato.
Bella chiude gli occhi.
Uno strano rumore le riempie le orecchie, come quello di un aereo privato. Pensa di sognare.
Qualcuno la afferra al volo e con forza la tira dentro qualcosa. Quando smette di sentirsi tirare apre gli occhi. È sull’aereo di Ferit. Alla guida c’è Christopher.
«Credevate davvero di mettermi a KO? Anche io sono scappato, nello stesso momento in cui se n’è andato il perfettino. Non avete sentito fruscii, scricchiolii…?» Ride lui.
Sento e vedo ciò mentre lotto, perché io e Ferit ci spostiamo nelle varie stanze, cercando di sfuggire l’uno all’altro.
Laura urla e implora la pace, mentre spegne più luci che può. Al buio si muove meglio. Riesce a vedere cose che io non troverei mai.
È ferita.
Soddisfatta riesce a raggiungere la portafinestra per tentare di chiudere fuori l’uomo che odiava le donne e, in particolare, una che era diventata la sua migliore amica.
Quello però è più rapido e la cattura. Sbatte la porta finestra in modo che si richiuda, nonostante la maniglia sia solo all’interno. Ci sono delle cornici di legno, afferrabile con la mano, sui vetri che rendono la porta finestra come una scacchiera da cui guardare il panorama. Uno di questi è quello che il compratore della medicina utilizza per chiudersi la porta alle spalle.
Laura grida disperata. Sa che non è abbastanza forte per contrastare quell’uomo anche per il fatto di essere ma‐ lata, mentre lui è sano.
Lui digrigna i denti dicendole che sarebbe stata lei a ca‐ dere.
Io cerco di liberarmi dalla stretta del mio avversario per raggiungere la porta finestra, grido di fermarsi, ma non riesco ad ottenere nulla.
Nella testa, un pensiero non mio raggiunge la parte sentimentale. Sento la voce di Laura che mi dice di pensare a mia madre sepolta nel giardino di quella grande casa e al bambino ormai cresciuto, che si rifiuta di accettare la veri‐ tà.
Io so di essere diventato un mostro, mi sono vendicato uccidendo la famiglia d’origine di Ferit e anche una delle sue fidanzate, quella a cui teneva di più.
So di avere preso una brutta strada a causa delle cattive compagnie, le uniche in cui ero riuscito ad entrare dopo
essere rimasto solo. Dopo la scuola non avevo molta possibilità e, in fondo, a quella società di ricchi non importava nulla di un ragazzino solo, seppur dotato. Nessun padrino e nessuna madrina per me. Tanto a chi importava? A nes‐ suno.
Studiavo e lavoravo per sopravvivere ero finito in un gi‐ ro terrificante da cui non ero più riuscito ad uscire. Ero arrivato ai vertici, è vero, ma ora guardando quella giovane donna, mi rendo conto di aver buttato la mia vita. Avevo impostato tutto sulla mia vendetta, ma alla fine avevo sco‐ perto che la vittima predestinata ignorava tutto. Eravamo vittime, in modo diverso, degli orrori degli adulti mai cresciuti e di ragazzini crudeli che si erano divertiti a torturare di nascosto me e ad occultare fatti che era giusto venis‐ sero a galla con lui, solo perché era del giro giusto e quindi intoccabile. Questo però non aveva favorito null’altro che il peggioramento della situazione.
Che cosa poteva cambiare ora, come quell’ingenua cre‐ deva? Avrei risposto che niente poteva cambiare, ma la gentilezza e l’empatia con cui aveva accolto il mio racconto, mi facevano sperare che ci fosse una possibilità per cambiare le cose e il mondo intero.
Sembrava che fossi ringiovanito arrivando alla sua età.
Non eravamo così lontani, ma io ero più grande.
Povera ingenua ragazza, sarebbe morta per riavere quel‐ lo che le spettava.
Decido che qualunque cosa succeda non venderò mai a quell’uomo orribile la medicina, piuttosto la distruggerò.
Una forza enorme mi pervade e riesco a sbalzare il mio avversario molto lontano da me. Prima che riesca ad alzar‐ si corro a prendere la valigetta. Torno indietro e, per fortuna, i due sul balcone stanno ancora lottando.
Laura graffia, morde e da testate. Io sorrido nel vedere che nonostante tutto non si arrende.
Richiamo l’attenzione della larva umana gigante lì fuori, battendo sul vetro.
Quello gira la testa e io gli mostro la valigetta. Chiedo gentilmente di lasciare andare la ragazza, altrimenti il contenuto della preziosa valigetta se ne sarebbe andato nel WC. Da lontano, il mio vecchio nemico, borbotta qualcosa riguardo al credermi. Dice che ne sarei sicuramente capa‐ ce.
Io sorrido e confermo dicendo che per una volta siamo d’accordo. Tutto questo però non serve, anzi.
Can afferma che, se succederà qualcosa alla medicina la ragazza finirà, ancora prima del previsto, di sotto.
Non voglio perdere l’unica persona che mi ha compreso. Mi volto verso il mio ex nemico, sperando che abbia una buona idea, ma non è così.
Tentare di raggiungere il piccolo balcone era troppo ri‐ schioso: Can aveva la schiena contro la finestra non sarebbe stato facile aprirla.
Guardo Laura. Curva all’indietro come se volesse fare un ponte, restava lì a fatica.
Di certo, se lui avesse sentito aprirsi la porta finestra, l’avrebbe lanciata di sotto senza esitazione. I piani che la dividevano dal suolo non erano pochi, si sarebbe fatta dav‐ vero male.
Se solo quel piccolo aereo non se ne fosse andato via portando in salvo l’altra giovane, forse Laura avrebbe potuto salvarsi.
Penso che sia destino di tutte le persone che mi incon‐ trano, mi vogliono bene e mi trattano con rispetto, quello di morire.
La colpa è mia. Sono destinato a restare solo e sulla cattiva strada.
Domando di nuovo di avere pietà e di lasciarla andare. In fondo lui voleva solo la medicina. Potevo dargliela, bastava solo che facesse rientrare l’ostaggio.
Quello ribatte che prima si sarebbe liberato dell’ostaggio e solo dopo avrebbe preso la medicina. Non poteva fidarsi e neanche rischiare.
Grido disperato, cercando di convincerlo.
Ferit mi raggiunge e dice che sono un codardo. Apre la porta finestra.
Can molla Laura che, con l’abilità di una ballerina, butta davvero le braccia all’indietro in un ponte e afferra il legno che la separa dal vuoto.
Se Can l’avesse spinta alzandole le gambe, allora avreb‐ be perso.
Come se mi leggesse nel pensiero, Can si avvia a com‐ piere quanto detto.
Stavolta reagisco in modo diverso. Estraggo la pistola che avrei preferito non usare e punto Can.
Quello, prontamente, strattona la giovane e se la pone davanti mentre sparo. La stringe, ma lei riesce a pestargli forte un piede e a buttarsi di lato. Cade subito sul legno umido del balcone e viene comunque presa di striscio.
Can, invece, viene colpito al cuore. È lui a cadere all’indietro e, come un immenso monte, cade con un gran fracasso oltre la bassa ringhiera del balcone.
Non riesco a crederci. Ho ucciso un vero cattivo, uno che odia le donne e non ha rispetto nemmeno per la sua famiglia. Mentre rifletto, Ferit agguanta la valigetta con la medicina e si appresta a scappare.
Laura è rivolta verso di lui e si accorge. Urla un “Ehi!” che mi fa risvegliare.
«Ferit Kaya, dove vuoi andare con la mia valigia?» Chiedo.
«Me la porto via e chiamo polizia e ambulanza. Ti arre‐ steranno. Verrai punito anche per le bugie inventate sulla mia famiglia.»
«Come puoi…» Diciamo io e l’italiana.
«Piangeva, mentre ti raccontava…» Inizia a spiegargli, per difendermi, poi piange e grida di dolore.
«Incomincia con l’ambulanza.» Dico a Ferit.
Mi chiedo se sarà mai in grado di accettare e superare quello che non ha mai saputo e che, solo ora, ha scoperto: il vero motivo per cui tra noi c’era sempre una gara o un problema.